Congerie democratica: il sacrificio di Prodi e la malattia terminale del Pd

20 Aprile 2013 /

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di Sergio Caserta
Il PD brucia anche Romano Prodi, ancora una volta il mite professore di Scandiano, assunto a puntello del centrosinistra, degli equilibri istituzionali e politici ma soprattutto della sopravvivenza del Partito democratico, malato cronico in fase terminale, ancora una volta viene sacrificato sull’altare dell’ennesimo fallimento politico.
È così dal 1996, quando per la prima volta Prodi portò alla vittoria insperata la coalizione già rissosa e perdente (fin da subito avviata al disastro dalla gioiosa “macchina da guerra” occhettiana), dopo il primo passaggio berlusconiano da Palazzo Chigi, la crisi di governo per cause penali e la rottura con le Lega insorgente di Bossi (quello che allora chiamava Silvio mafioso ma è acqua passata).
Il professor Prodi, tecnico prestato alla politica ma sempre con riserva (del gruppo dirigente) di restituzione rapida ai suoi studi, costituisce il rimorchiatore di salvataggio della barca semiaffondata del PD, è il terzo intervento quello che gli si chiede, forse l’ultimo e decisivo per evitare il naufragio nelle secche di Montecitorio.
Bersani & C. non volevano proprio arrivarci ma sono stati costretti dal vicolo cieco in cui si sono cacciati, non da ieri bensì dal 26 febbraio scorso, quando non si sono voluti arrendere a una sconfitta politica evidente. La maledizione della Bolognina non perdona: la pace e l’equilibrio non si costruiscono sull’equivoco che dura ormai da quasi venticinque anni, lì originano tutti i guai della sinistra italiana dopo la caduta del muro di Berlino e dopo tangentopoli.

La frattura mai sanata, imposta da un’operazione di sostanziale trasformismo politico, iniziata inconsapevolmente dal prode ma poco avvertito, segretario Achille, costruì nella semiperiferica piazza bolognese, un equivoco dal quale sono scaturite tutte le vicende e soprattutto le magagne di quello che fu il maggior partito della sinistra italiana.
Si volle cancellare il nome comunista, per salvaguardare in buona fede l’indiscussa identità costituzionale e quindi democratica del PCI, per farlo si usarono però le armi proprie del partito comunista (marxista-leninista) e quindi si acquisì il consenso preventivo e armato dell’apparato centrale e periferico e quello della parte più a destra del gruppo dirigente (Napolitano do you remeber?), si costrinse all’opposizione la parte più a sinistra (e più dotata di pensiero critico) del partito e si avviò una politica improntata a confondere i termini di nuovo e antico in un misto, diciamo pure minestrone, di demagogia e democraticismo di facciata.
Da quella svolta arrogante, superficiale e forzata, si proseguì verso l’obiettivo, del tutto legittimo, del governo inseguendo sempre più il fascino del leaderismo e del personalismo politico, dell’omologazione ai miti dilaganti del populismo televisivo e della democrazia governante a cui tutto andava piegato.
Tutto questo però mantenendo inalterato il carattere centralistico e burocratico del vecchio partito in cui s’innestavano logiche di gruppi oligarchici che ne condizionavano sempre più la linea e la vita, ricordate l’eterno falso duello tra D’Alema e Veltroni? Chi potrebbe dimenticarlo, ha turbato i nostri sonni per dieci anni ininterrottamente.
L’approdo finale, sul piano di scivolamento è di una coerenza politica ferrea, alla fine fu il partito democratico, concepito e costituito nella trattativa tra gli “stati maggiori” del PDS e quelli dell’allora partito popolare, frazione minoritaria ma influente della DC, i sempiterni socialisti ex-post- (sed semper )craxiani non traghettati da Forza Italia, più disparati rimasugli delle burocrazie della prima repubblica.
Appunto un insieme di eterogenee, perfino indefinibili, componenti, perennemente in guerra e perennemente legate dai rispettivi cordoni ombelicali di provenienza
Un partito concepito in provetta, fatto crescere in incubatrice, gestito come un condominio in multi-proprietà, dove conta comunque chi aveva (ed ha) il pacchetto di maggioranza, cioè voti e soldi, dove le idee sono sempre state una variabile del tutto secondaria.
Non fu solo quello, e ha avuto qualche sussulto positivo ma la gracile costituzione e la sua malferma salute , sono sempre state evidenti in ogni passaggio difficile della vicenda italiana, in particolare nei due governi retti sempre da Romano Prodi e caduti entrambi prematuramente, c’era sempre anche lo zampino di qualcuno all’interno.
La crisi economica iniziata nel 2008 e che ancora drammaticamente imperversa, ha evidenziato lo sfascio politico-istituzionale, destra e sinistra, non sono state all’altezza di governare il paese e di affrontare le difficoltà, tanto meno di evitare il declino che è sotto i nostri occhi: la classe politica è screditata, l’esplosione dei consensi a Grillo minaccia di essere la prima forma di rivoluzione politica in grado di sovvertire il sistema se non avvengono cambiamenti radicali e adeguati.
In questa chiave la candidatura di Prodi alla presidenza della Repubblica, è apparsa come l’estremo tentativo del centrosinistra di evitare la resa dei conti e capitolare definitivamente, per consegnare il governo del paese a coloro che vinceranno le prossime elezioni.
La soluzione è stata intempestiva ed inutile, il virus della malattia mortale che ha intaccato la struttura spinale del Partito democratico è originaria e irresolubile, nemmeno con le cure… prodighe di Romano. Le dimissioni, annunciate, di Bersani e quelle già dichiarate di Rosy Bindi, indicano quale potrà essere l’epilogo per il partito, probabilmente un congresso straordinario di messa in discussione complessiva dell’esperienza fin qui realizzata, fatti salvi i provvedimenti urgenti e inrinviabili sul piano istituzionale e di governo, è evidente che si apre una fase del tutto inedita per la sinistra italiana.

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