di Francesca Materozzi
L’Emergenza Nord Africa (Ena) andava a essere chiusa, in mezzo alle incertezze, il 31 dicembre 2012. Adesso, passati due mesi di proroga, ci troviamo esattamente al punto di partenza. Ci sono 16 mila profughi ancora in accoglienza, il lavoro delle Commissioni procede a rilento e i casi felici, quelli cioè di persone che sono riuscite a trovare una casa e un lavoro, sono rarissime eccezioni. Il progetto MeltingPot invita a una mobilitazione permanente (che accogliamo con favore e rilanciamo), a partire dal 25 febbraio, per chiedere una proroga della proroga e un impegno concreto e reale per il sostegno e l’inserimento dei profughi.
Per chiedere, in altre parole, che si ponga un argine ai danni provocati da una gestione dell’emergenza a dir poco disastrosa. «La peggiore che si sia vista in Italia», secondo Gianfranco Schiavone del direttivo dell’Asgi. I profughi dell’Ena sono in massima parte africani sub-sahariani o asiatici che lavoravano in Libia e si sono trovati, loro malgrado, coinvolti nella guerra. Arrivati in Italia, sono stati incanalati nell’iter della richiesta asilo, che prevede che una Commissione territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato, stabilisca se ci siano o meno le condizioni per ottenere la protezione internazionale. Alcuni di loro (il 41% del totale), originari di Paesi caratterizzati a loro volta da situazioni politiche critiche, hanno ottenuto la protezione internazionale. A tutti gli altri, dopo molte incertezze e tentennamenti, è stato deciso di rilasciare il permesso umanitario (novembre 2012).
Ma come rilevato da più parti, si è trattato di provvedimento tardivo e inutilmente farraginoso: invece di rilasciare il permesso in questura, come era successo per i tunisini arrivati nella primavera 2011, i richiedenti asilo hanno dovuto ripetere l’iter e ripassare un’altra volta dalla Commissione. Tutto questo mentre c’erano profughi che attendevano di essere ascoltati per la prima volta. «Il fatto che a due anni dall’inizio non tutti i richiedenti asilo siano stati ascoltati evidenzia le lacune e le carenze del sistema italiano», dice Schiavone. «Le 10 commissioni previste per legge non riescono a far fronte neanche ai flussi ordinari di richiedenti asilo. Le cinque straordinarie, create dal ministero dell’Interno proprio per l’Ena, rischiano di essere soppresse una volta finita l’emergenza».
L’Unione Europea aveva già aperto una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia anche a causa dei tempi troppo lunghi per ottenere la protezione internazionale. Anna Maria Cancellieri, titolare del Viminale, ha dichiarato, il 27 novembre 2012, che sarebbero stati introdotti «strumenti di flessibilità organizzativa che consentano di istituire apposite sezioni nell’ambito delle Commissioni territoriali al verificarsi di situazioni eccezionali». Misura necessaria, osserva Schiavone, ma non sufficiente. «Ci vorrebbe piuttosto una regionalizzazione delle commissioni (in questa direzione va anche una proposta dell’Asgi, ndr). «In questo modo avremmo un esame più rapido e colloqui più approfonditi e, soprattutto, una collegialità anche in fase di ascolto».
L’altro punto fortemente dolente dell’Ena è il mancato inserimento socio-economico dei rifugiati. È evidente che non si tratta di un dettaglio, ma del cuore stesso dell’intervento. «I tempi dell’accoglienza sono stati molto più lunghi della media ma, malgrado questo, la stragrande maggioranza delle persone uscirà dalle varie strutture senza lavoro e con un livello di conoscenza dell’italiano molto basso. Non ci sono ancora dati ufficiali, ma la percezione è che la percentuale di integrazione sia sotto il 10 per cento».
Ma come mai le cose sono andate così male? «Perché in riferimento all’accoglienza è mancata e manca una strategia politica. Questo è evidente già a partire dalla rete Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, ndr), che è stata lasciata a “vivacchiare” senza che le sue potenzialità venissero sfruttate. A parte alcuni territori, la presenza di piccoli progetti di accoglienza di rifugiati in città di medie dimensioni non può portare, per così dire, “automaticamente” ad una crescita delle competenze dei servizi pubblici in materia di asilo. Facilmente, in una situazione come questa, è subentrata una logica di delega alle associazioni. Questa rimane la responsabilità primaria.
In questo contesto negativo anche l’Anci si è per così dire adagiata, limitandosi ad avanzare proposte di miglioramento sensate, ma di corto respiro e di natura prevalentemente gestionale. Non ha saputo o non ha voluto dare a questa tematica una dimensione più politica, adoperandosi per una riforma profonda dell’impianto normativo del sistema di accoglienza. A più di dieci anni dall’avvio dello Sprar nessun disegno di legge di riforma del sistema accoglienza è stato non solo discusso, ma neppure presentato». Una rimozione e un ritardo ingiustificabili. L’Ena, così fallimentare, potrebbe servire almeno a rendere evidente che la questione non può più essere rimandata.
Questo articolo è stato pubblicato su Corriere Immigrazione il 17 febbraio 2013