Il percorso intellettuale e di vita di Amina Crisma

di Maria Gioia Tavoni /
18 Settembre 2024 /

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Destreggiarsi nei percorsi di studio e di lavoro di Amina Crisma non è impresa facile se si vogliono contemplare i molteplici aspetti che li rendono elementi tutti utili per comporre e comprenderne la vastità e la versatilità. Basti ricordare che Amina si forma a Venezia con laurea in filosofia nel 1979 e poi acquisisce una seconda laurea in Lingua e letteratura cinese nel 94: che cosa succede in quel quindicennio? Dai suoi Curricula si evince che, sempre a Venezia, ha conseguito il PhD in Studi sull’Asia Orientale, ha insegnato Sinologia e Storia delle religioni della Cina alle Università di Padova e di Urbino, ed è professoressa a contratto all’Ateneo bolognese dove insegna Filosofie dell’Asia Orientale.  Le sue ricerche sulle fonti cinesi antiche saldano l’esercizio filologico con una riflessione interculturale svolta in collaborazione con varie istituzioni. Tra le sue numerose monografie: Meditazione taoista (RCS 2020), Confucianesimo e taoismo (Emi 2016), Neiye, il Tao dell’armonia interiore (Garzanti 2015), Conflitto e armonia nel pensiero cinese  (Unipress 2004), Il Cielo, gli uomini (Cafoscarina 2000). Ha contribuito a svariate opere collettanee come Per una filosofia interculturale (2008), Religions et réformes (2007), In the Image of God (2010), Genere e religioni (2014), La filosofia e l’altrove(2016). Fra le sue curatele: Storia del pensiero cinese di Anne Cheng (2000). Fra le riviste a cui collabora si segnala «Inchiesta», di cui coordina l’Osservatorio Cina, con pagine di costante attenzione ai fenomeni socio-culturali su larga scala. Siamo di fronte a un pedigree che va ad arricchirsi per la militanza di Amina con Vittorio Capecchi (1938-2023), marito con il quale, in perfetta sintonia, ha potuto indagare numerosi soggetti con sempre più approfonditi interventi, che l’hanno portata ad essere maggiormente partecipe in molti temi rivolti alla collettività.

Che cosa ti ha portato, in anni di cattiva stampa per la Cina (Tian anmen è del 1989), a dirigere le tue energie su un paese lontano da tutti i punti di vista, linguistico in primo luogo?

Abbiamo tutti assistito con dolore e sgomento alla tragedia di Tian Anmen, le cui traumatiche immagini mi arrivavano proprio mentre sostenevo a Ca’ Foscari il mio primo esame scritto di lingua cinese. Quello scenario cruento di violenza repressiva, divenuto oggetto di una sorta di opaca rimozione nei decenni successivi, mi induceva ad approfondire la riflessione sulla realtà cinese, e a non eludere il confronto anche con gli aspetti crudi e cupi della sua vicenda, passata e presente. E mi induceva anche a una rinnovata riflessione sul cuore di tenebra che in varie forme si manifesta nel corso della storia umana, di ieri e di oggi…

Mi ha portato a interessarmi della Cina – e segnatamente dell’età che ne ha fondato le grandi tradizioni  – la curiosità per un mondo culturale che mi era allora pressoché completamente ignoto, e di cui avvertivo la grande distanza rispetto agli orizzonti di linguaggio e di pensiero che ci sono familiari: una distanza che non di rado tuttora alimenta stucchevoli cliché e rappresentazioni convenzionali. Non mi soddisfacevano le visioni stereotipate della cosiddetta “eterna Cina”: statica, monolitica, prevedibile, scontata…ero alla ricerca di una prospettiva dinamica, dialettica, pluralistica per poter interpretare la complessità di quell’universo.

Mi ha affascinato scoprire come la storia sin dall’inizio ci riveli una pregnante istanza di armonia, che emerge dal cruento terreno del conflitto e della disarmonia, a cui si oppone e con cui costantemente si confronta. Ma a questa istanza si contrappone, sin da tempi molto antichi, la hybris, la dismisura di una immane volontà di potenza: dall’epoca degli Stati Combattenti (V-III secolo a.C.), dai cui sanguinosi campi di battaglia emerge l’impero centralizzato, sino a oggi…

Dai riferimenti che si ritrovano nei tuoi saggi e nelle tue conferenze si immagina una frequentazione di una rete interdisciplinare di studiosi: chi in particolare ti ha segnata? Forse Anne Cheng? E nel tuo voler vivere direttamente l’esperienza quando sei stata Cina, come hai arricchito il tuo sapere?

Il mio primo e principale maestro nell’ambito della sinologia è Maurizio Scarpari, che è stato mio docente di cinese classico all’Università di Ca’ Foscari. Mi ha insegnato l’importanza fondamentale del lavoro filologico e la sua rilevanza critica, come modalità di decostruzione e demistificazione delle Grandi Narrazioni del potere, mi ha costantemente e generosamente supportato in tutte le mie ricerche, e continua ad essere un mio riferimento imprescindibile. L’importanza della filologia come “scuola di umiltà” che ci emancipa dall’inerzia degli stereotipi astratti e che ci consente di afferrare i testi come se fossero “pesci vivi e frementi nell’acqua del Dao” è una lezione che ho tratto anche da Anne Cheng, che ho frequentato in particolare traducendo e curando per Einaudi la sua Storia del pensiero cinese (2000): una fatica che è durata tre anni, e che si è rivelata per me estremamente formativa.

Un altro maestro ed amico di grande importanza è stato Pier Cesare Bori: la sua prospettiva ermeneutica a un tempo rigorosa ed aperta è stata per me un modello fecondo per definire un rapporto con le fonti sapienziali antiche concepite come possibili risorse per la costruzione di un consenso etico tra culture (ho tentato una sintesi del suo magistero nella voce a lui dedicata in www.pensierofilosoficoreligiosoitaliano.org ). E ancora, un maestro ed amico generoso della cui fertile conversazione mi avvalgo ormai da trent’anni è Giangiorgio Pasqualotto, con cui ho collaborato sovente e la cui originale prospettiva filosofica interculturale mi ha offerto e mi offre molteplici sollecitazioni.

Lo studio e l’amicizia sono parole che compaiono significativamente insieme nell’incipit dei Dialoghi di Confucio: e così, confucianamente, in tutti questi anni i miei studi e le mie ricerche si sono costantemente alimentati del dialogo e del confronto con gli interlocutori più svariati: sinologi, filosofi, antropologi, storici, teologi, sociologi…Nell’impossibilità di ricordarli tutti, ne evoco almeno alcuni: Antonella Ceccagno, Attilio Andreini,  Francois Jullien, Eligio Resta, Giacomo Marramao, Andrea Tagliapietra, Paolo Prodi, Vito Mancuso….

Le mie esperienze in Cina sono iniziate nei primi anni Novanta, all’Istituto di Lingue di Pechino (che era allora ancora una sorta di gigantesco villaggio percorso da eserciti di biciclette), e sono poi proseguite con un’esplorazione della Cina delle cosiddette minoranze (tibetani, kazaki, uiguri, hui…), che ha ulteriormente rafforzato la mia percezione della molteplicità irriducibile racchiusa nella realtà cinese. E poi, c’è stata la percezione, da un anno all’altro, della vertiginosa velocità dei mutamenti, e dei loro chiaroscuri: una crescente ricchezza, l’aumento dei consumi, l’uscita dalla povertà di vaste moltitudini, ma anche l’aumento delle disuguaglianze, l’aumento dell’inquinamento e dei danni all’ambiente, il dilagare di frenetici ritmi di lavoro e di vita….insomma, un estremo Oriente che diventava tangibilmente, per tanti versi, in un gigantesco e rapido processo di trasformazione, estremo Occidente.

Si percepisce nei tuoi studi una grande considerazione sia per la tradizione confuciana, incentrata sui doveri e i legami dell’uomo con il proprio ambiente (famiglia, società), sia per quella taoista che approfondisce la relazione uomo-natura, uno-tutto, e promuove la ricerca dell’armonia interiore. Delle due, quale è più rispondente alla tua ricerca personale? Ci sono alcuni dialoghi confuciani o massime che nella vita ti sono state particolarmente presenti?

Riassumi bene l’orientamento fondamentale del mio lavoro, che ho cercato di sintetizzare, ad esempio, in Confucianesimo e taoismo (EMI 2016). Ho sempre cercato di mettere in luce la concordia discors di queste due grandi tradizioni nei miei libri come Il Cielo, gli uomini (Cafoscarina 2000), Conflitto e armonia nel pensiero cinese dell’età classica (Unipress 2004), Neiye, il Tao dell’armonia interiore (Garzanti 2015), Meditazione taoista (RCS 2020). Queste due tendenze, opposte e complementari, rappresentano a mio avviso due istanze entrambe irrinunciabili, non soltanto in Cina. La loro ricerca di armonia con il cosmo e con l’umana ecumene nella sua profonda spiritualità si distanzia da altre correnti, come ad esempio quella cosiddetta legista (fajia), che ha contribuito in misura determinante alla fondazione dell’impero, e che continua a esercitare un’influenza importante; essa definisce un ordinamento del mondo come mera disciplina autoritaria, impersonale, spietata e tremendamente efficace.

Detto questo, mi pare che il versante taoista goda di ampia popolarità (anche se talora un po’ equivoca), mentre il versante confuciano mi sembra sia recepito sovente attraverso stereotipi riduttivi che lo configurano unicamente in termini di conformismo e di autoritarismo. In realtà, le fonti fondatrici ci dicono molto altro: nei Dialoghi di Confucio accanto al ben noto imperativo dell’obbedienza  compare l’assai meno noto dovere di rimostranza nei confronti del potere sovrano quando esso promulghi un ingiusto comando: alla domanda “Come si serve il sovrano?” Confucio risponde: “A lui anche ti opporrai”. Ecco, questa istanza anticonformista e antidispotica, che affianca l’indubbia vocazione ordinatrice del confucianesimo e la dialettizza circoscrivendola e delimitandola, credo vada tenuta adeguatamente presente.

Più in generale, a mio parere il più fertile retaggio che il magistero confuciano ci  consegna è il senso della sacertà del vincolo solidale con i nostri simili, e un atteggiamento di gratitudine per ciò che da loro riceviamo, che si configura in primis come filialità, ma al contempo come fraternità di tutti sotto il cielo. La massima ispiratrice dei Dialoghi, semplice e sublime, che mi sembra la più pregnante è “il senso dell’umanità consiste nell’amare gli esseri umani”.

La millenaria tradizione etico-religiosa cinese come si è conservata oggi nelle comunità cinesi immigrate delle grandi città (Prato, Milano, Roma)? Spesso sembra che vi si sia diffuso un pragmatico ateismo.

A quanto ne posso sapere, le comunità cinesi immigrate ospitano una grande varietà di atteggiamenti e di comportamenti, che non mi sembrano riducibili a una cifra univoca. Credo occorra tener presente che una prepotente tendenza materialistica, produttivistica, consumistica percorre l’intera realtà globale con la sua spinta possente all’universale reificazione; ad essa, comunque, si contrappongono istanze di ricerca spirituale che non di rado ho potuto constatare fra i cinesi della diaspora che ho avuto modo di frequentare, e che si esprimono in forme svariate, che vanno dal riferimento al buddhismo o al taoismo a quello al cristianesimo evangelico. E non di rado, ho potuto osservare un atteggiamento non esclusivistico: ad esempio, bambini che si dichiarano buddhisti vanno con entusiasmo a cantare nel coro della parrocchia…

Ultimamente il governo e il partito cinese premono per una ripresa del confucianesimo come elemento di irrobustimento nazionale, bandendo quegli “stereotipi di letture precostituite”, come hai avuto modo di ricordare. Ritieni che l’Occidente, con la sua crisi della politica e della democrazia, abbia qualche cosa da imparare?

Le modalità in cui la Cina ha configurato e configura il rapporto con le sue antichissime tradizioni hanno conosciuto nel corso del tempo ingenti e drammatici mutamenti.  Nel secolo scorso si è passati dalla violenta iconoclastia culminata nella Rivoluzione culturale al conclamato “ritorno a Confucio” caratteristico del post-maoismo. Ora la Grande Narrazione identitaria promossa dal governo e dal partito si proclama fieramente depositaria della tradizione confuciana, che viene in tale elaborazione declinata in chiave marcatamente autoritaria, e viene utilizzata per legittimarsi, e per celebrare l’orgoglio di una grande potenza planetaria che, come dichiara il titolo del recente libro di Maurizio Scarpari (La Cina al centro, Il Mulino 2023) afferma il proprio crescente protagonismo nel nuovo ordine mondiale.

Non credo che la risposta alla crisi della politica e della democrazia in Occidente possa consistere nell’ammirazione per un modello autoritario: come asseriva il compianto Paolo Prodi, l’Occidente potrà ritrovare il meglio di sé se saprà ritrovare la passione trasformatrice e progettuale che ha animato le pagine migliori della sua storia. E in questo senso, penso potrebbe trovare fertili risorse transculturali nella carica utopica presente nel grande umanesimo confuciano delle origini, di Confucio e di Mencio, che sognano un mondo da cui sia bandita la violenza e la sopraffazione, e in cui regni il senso dell’umanità e della giustizia. È un elevato ideale politico che li ispira, al quale corrisponde un progetto di formazione di una classe dirigente di “uomini di valore”, ossia capaci di governare in virtù della propria esemplarità: temi sui quali non penso sarebbe inutile una qualche riflessione anche qui da noi.

È trascorso un anno dalla morte di tuo marito che hai ricordato nella Chiesa di San Giovanni in Monte a Bologna con parole alte per la profondità di pensiero e per le svolte che hanno accompagnato il vostro luminoso cammino. Quali gli aspetti che ritieni indelebili del vostro sodalizio anche culturale?

Innanzitutto una precisazione: il mio sodalizio intellettuale ed esistenziale con Vittorio Capecchi, mio marito, comprende gli ultimi tredici anni della sua vita. In precedenza, per oltre trent’anni gli era stata compagna Adele Pesce,  sindacalista, femminista, giornalista, sociologa, scomparsa nel 2010 (al cui proposito rinvio alla raccolta di suoi scritti Fare cose con le parole, Dedalo 2012, curata da sua figlia, Donata Meneghelli, e da Vittorio stesso). Inoltre, c’è una questione di proporzioni da sottolineare. Non è soltanto per una questione di differente statura fisica (cosa sulla quale spesso scherzavamo) che rispetto a Vittorio mi definisco “una nana sulla spalla di un gigante”: un gigante che univa, come assai raramente è dato trovare, una vasta e affascinante intelligenza a un’umanità calda e generosa. Come attestano tante rievocazioni a lui dedicate, delle quali si può trovare uno specimen su www.inchiestaonline.it , la versione digitale della storica rivista, Inchiesta, da lui fondata  nel 1971, Vittorio è stato un creativo animatore, e non di rado un geniale precursore, della scena culturale degli ultimi cinquant’anni, non solo italiana (gli si deve, ad esempio, la fondazione nel 1966 della rivista in inglese di modelli matematici Quality and Quantity, oggi più che mai fiorente). Era innanzitutto un sociologo, professore dell’Ama Mater, e un intellettuale militante che per tutta la vita, a fianco della FIOM, ha cercato di coniugare ricerca e prassi trasformatrice; ma è Impossibile riassumerne in poche righe le poliedriche esperienze, le sterminate letture, i larghi orizzonti interdisciplinari e interculturali, che gli hanno valso fra l’altro nel 2022 un prestigioso riconoscimento dal governo giapponese. I suoi multiformi interessi andavano dalla matematica alla filosofia alla poesia, dalla storia della scienza e della tecnologia al fumetto, da Occidente a Oriente, da Charles Péguy a Francois Cheng, dall’intelligenza artificiale allo Yijing, il Classico dei Mutamenti.  Ed è stata proprio la sua passione per questo grande libro, nel contesto più ampio di un suo vivo e profondo interesse per il pensiero della Cina antica, che ci ha fatti incontrare; e l’amico che ha promosso il nostro incontro è stato un altro maestro d’eccezione già menzionato, Pier Cesare Bori.

Dei tanti interessi di Vittorio, è stato dunque quello per la Cina (da lui visitata fra l’altro in pionieristiche esplorazioni nei primi anni Settanta) l’ambito in cui si è soprattutto sviluppata la nostra cooperazione. Avevamo fra l’altro in progetto un libro da scrivere insieme, sul tema dell’“essere due”, ossia sulla dinamica della coppia, dell’interazione del Maschile e del Femminile, muovendo da suggestioni di antichi trattati cinesi. Interessava entrambi non soltanto la straordinaria ricchezza del pensiero antico, ma anche il complesso e problematico nodo del rapporto fra passato e presente nella realtà cinese contemporanea, sul quale abbiamo promosso, insieme a Maurizio Scarpari, seminari e dibattiti su Inchiesta e altrove. Condividevamo l’attrazione per un affascinante universo culturale, ma anche la preoccupazione per la connotazione autoritaria che appare in misura crescente caratterizzare il paesaggio odierno della RPC: un tema, questo, che mi sembra alquanto sottovalutato dalla percezione corrente, e sul quale siamo ripetutamente intervenuti.

Quello che in fondo accomunava me e Vittorio (e che ci accomunava all’amico e maestro Pier Cesare Bori) era la ricerca di un umanesimo transculturale, radicato in antiche risorse ma volto al presente, come abbiamo cercato di dire nell’articolo da noi cofirmato sul futuro dei diritti umani per I Martedì del Centro San Domenico (n.354/2022); un orizzonte in cui l’eguaglianza non è un’ideologia, ma un’etica, e in cui razionalità e spiritualità, laicità e religiosità non sono contrapposte, bensì reciprocamente coimplicate e interrelate.

Questo articolo è stato pubblicato su Insula europa il 14 settembre 2024

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