Le falle della democrazia

di Lidia Maggioli Antonio Mazzoni /
15 Settembre 2024 /

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Siamo cresciuti con la convinzione che la matematica fosse una scienza esatta e che la democrazia fondata sul suffragio universale – una testa, un voto – le fosse debitrice, in quanto solo il rigoroso calcolo aritmetico dei voti espressi determinava la vittoria o la sconfitta dei candidati. Terminato il conteggio risultava vincitore colui che aveva conseguito il maggior numero di consensi.

Gli ultimi eventi politici della Francia ci smentiscono clamorosamente. Così come ci avevano sconcertato gli esiti di alcune elezioni presidenziali in un altro pilastro della democrazia occidentale, gli USA.

Procediamo con ordine iniziando dalla Francia.

Risulta paradossale lo stravolgimento del risultato elettorale da parte di Macron. Il presidente della Repubblica francese infatti ha sorprendentemente assegnato il compito di formare e presiedere il nuovo governo a Michel Barnier esponente del partito che ha raccolto il minor numero di consensi nel confronto elettorale del luglio 2024, ovvero la formazione dei Repubblicani gollisti ( Les Repubblicains) collocati al quarto posto con il 6,6% dei voti e 39 seggi.

Decisione quanto meno bizzarra, visto che Ensemble, il Partito a cui fa capo Macron, per sconfiggere l’estrema di Marine Le Pen, si era alleato al secondo turno con il Nuovo Fronte Popolare, mentre i repubblicani avevano corso da soli. La scelta indovinata dei due gruppi aveva consentito al partito del presidente di conquistare il 20,04% dei voti con 168 parlamentari, e alla coalizione di sinistra di raccogliere il 28,6% dei consensi con 182 seggi. Il Rassemblement di Marine Le Pen con il 32,05% dei voti era stato arginato e si profilava un’assemblea legislativa che poteva contare su un’ampia maggioranza antifascista, 350 parlamentari sul totale di 577. A parte le idiosincrasie del presidente Macron, palesemente inadeguato al ruolo, dobbiamo concludere che ai cosiddetti liberali la democrazia piace soltanto se assicura la maggioranza alla loro parte. Si apre ora uno scenario inquietante nel quale il presidente del consiglio designato, per poter governare, dovrà elemosinare voti a destra facendo rientrare dalla finestra gli sconfitti delle elezioni politiche. Risulta ipocrita dunque il biasimo e la reprimenda contro i governi autocratici che proviene dal pulpito francese.

Veniamo ora agli Stati Uniti

Innanzitutto una considerazione preliminare. A parte le inquietanti idee di Donald Trump su immigrati, neri, donne, cambiamento climatico, e in genere sul mondo d’oggi, com’ è possibile che la Costituzione di un grande paese democratico consenta a un cittadino con gravissime pendenze penali di presentarsi candidato alle elezioni presidenziali?

Già condannato per falsificazione di bilanci aziendali, Trump deve a breve sottoporsi a giudizio per reati ancor più pesanti: sottrazione e occultamento di documenti governativi sensibili, alterazione del verdetto del voto presidenziale del 2020, istigazione all’assalto del Campidoglio da parte dei suoi ultras nel gennaio 2021. Neppure Berlusconi aveva osato tanto. Le leggi americane così inflessibili nei confronti della criminalità in genere – sono oltre due milioni i detenuti nelle carceri Usa – e in particolare di quella della gente “di colore”, come possono essere tanto indulgenti nei confronti di un candidato/criminale? Purtroppo l’uomo ha concrete probabilità di diventare presidente della più influente nazione del mondo.

E veniamo ad anomalie non così gravi, ma altrettanto sorprendenti e inquietanti. I cittadini americani non vengono iscritti d’ufficio nelle liste elettorali, come nella maggioranza dei Paesi ma devono registrarsi volontariamente. Succede che nelle classi povere scarsamente acculturate, ad esempio fra gli afro-americani egli immigrati ispanici, vi sia insufficiente consapevolezza dei doveri civici e quindi risulti scarsa l’affluenza alle urne. La loro partecipazione renderebbe sicuramente più democratica la competizione elettorale. Si aggiunga che in molti distretti dove prevalgono gli elettori neri, la percentuale dei voti non convalidati raggiunge il 14% del totale, mentre in altri distretti dove la maggioranza dei votanti è bianca, la percentuale dei voti annullati è solo dell’1,6%.

Vi è poi il problema dei non aventi diritto, i cosiddetti felons, cittadini che hanno subito condanne penali e pertanto sono stati privati del diritto di voto. Anche qui gli afro-americani sono in maggioranza, rispetto ai bianchi, e pur potendo ottenere il ripristino dei diritti civili una volta scontata la pena, difficilmente l’ottengono perché le loro domande vengono respinte puntualmente per irregolarità varie. In questo modo negli Usa vengono esclusi dal voto circa tre milioni di persone.

Quella del presidente negli Stati Uniti è un’elezione di secondo grado. In prima istanza il cittadino partecipa alle votazioni dei “grandi elettori”, vale a dire dei 538 delegati che compongono il collegio elettorale. Saranno costoro poi a scegliere il vincitore. Fin qui nulla di strano e tanto meno di irregolare. Ognuno dei 50 Stati facenti parte della federazione ha regole elettorali diverse per cui succede ad esempio che in California occorrano 710.000 voti per eleggere un grande elettore, mentre nel Wyoming solo 192.000. Tale discrepanza è giustificata dal fatto che ogni Stato, anche quelli con popolazione ridotta, ha diritto di avere delegati all’interno del collegio elettorale. Il Wyoming con i suoi 580 mila abitanti non otterrebbe alcun grande elettore se dovesse adeguarsi al “quorum” della California che conta ben 39 milioni di abitanti. Quello che difetta è il rispetto di un criterio di proporzionalità. Si verifica infatti che una ventina di piccoli stati con una popolazione complessiva equivalente a quella della California, dispongano di ben 102 grandi elettori, contro i 55 dello Stato californiano. Per questo può succedere che vinca non chi raccoglie complessivamente il maggior numero di voti, ma chi si assicura il maggior numero di grandi elettori.

Ricordiamo due casi recenti che hanno sollevato obiezioni e rimostranze tra i giuristi e i politici. Alle elezioni del 2000, Al Gore candidato per il Partito democratico, ottenne il 48,41% dei voti ma fu dichiarato perdente nei confronti di George Bush Junior che, pur ottenendo solo il 47,89%, disponeva di un maggior numero di grandi elettori.

Analogamente nel 2016 Hillary Clinton perse con il 48,2% dei voti ottenuti a livello nazionale, contro il repubblicano Trump che non riuscì a raggiugere il 47%. Prevalsero anche in questo caso i grandi elettori di una manciata di Stati.

Infine va sottolineato che a carico dei candidati che partecipano alle nominations, gravano spese elettorali abnormi che di fatto escludono dalla competizione i meno abbienti. Bastino alcuni esempi degli ultimi anni. Barack Obama, per vincere le presidenziali del 2008, spese la ragguardevole cifra di 780 milioni di dollari, un record per l’epoca. Ben presto fu superato da Donald Trump che nel 2016 riuscì a disporre per la sua elezione di un miliardo di dollari. Nel 2020 entrambi vennero surclassati da Joe Biden il quale raccolse e spese 1,6 miliardi di dollari. L’America è il paese dell’abbondanza e delle libertà si rimarca, ed è giusto che i cittadini contribuiscano con donazioni al finanziamento della campagna elettorale dei candidati del loro partito. In realtà i contributi popolari sono poca cosa, appena il 5% del raccolto. Cifre imponenti vengono messe a disposizione dai potentati economici che di fatto condizioneranno poi le scelte politiche e finanziarie dei presidenti eletti e quindi della nazione più forte del pianeta.

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