“Il processo a Julian Assange”: una persecuzione che riguarda tremendamente anche noi

di Enrico Zucca /
4 Maggio 2023 /

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Informare il pubblico dei crimini e dell’impunità delle “democrazie imbiancate”, rivelando documenti riservati, ha trasformato Assange in un pericoloso nemico che i governi intendono perseguire a ogni costo, non esitando a praticare la tortura. Enrico Zucca, sostituto procuratore generale di Genova, ha letto per noi il libro di Nils Melzer

È ora disponibile la versione italiana del libro di Nils Melzer, “Il processo a Julian Assange” (Fazi Editore, aprile 2023), con il più esplicito sottotitolo “storia di una persecuzione”. L’iniziativa editoriale, a distanza di due anni dalla prima pubblicazione all’estero, si colloca in un contesto di maggiore attenzione alla vicenda, insolitamente proprio qui in Italia, dove l’opinione pubblica è spesso indifferente e refrattaria all’indignazione e alla mobilitazione per una causa.

Certo, come la nostra storia recente insegna, parlare della violazione di diritti e, al culmine, della tortura che avvengono altrove e non in casa nostra è più facile, ma già il primo avvertimento di Nils Melzer coglie nel segno, indicandoci che ciò che sta accadendo ad Assange riguarda tremendamente anche noi.

L’autore è una delle fonti più autorevoli e accreditate sul piano internazionale, dal 2016 al 2022 ha ricoperto il ruolo di Relatore speciale sulla tortura, eletto dai 47 Stati che compongono il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, con il preciso mandato di esaminare il rispetto dei diritti umani ovunque nel mondo e con assoluta indipendenza, senza vincoli gerarchici con altre istituzioni dell’Onu. Il suo curriculum è di eccellenza: giurista di chiara fama, docente di diritto internazionale in diverse Università, avvocato, diplomatico.

La premessa è d’obbligo per comprendere la risposta a una delle domande che Melzer riconosce venga istintivo porsi. Vale a dire perché mai, tra le centinaia di casi di tortura e di violazioni diffuse e sistematiche dei diritti, a muovere il Relatore speciale dell’Onu a scrivere un libro è proprio il caso di Assange, forse non il peggiore in assoluto e per di più originato nell’ambito delle consolidate democrazie occidentali, non in brutali sistemi autocratici. Il motivo apparirà evidente al lettore.

Questo, infatti, non è un resoconto, ma una denuncia che veicola un appello diretto non più ai governi degli Stati affinché ottemperino alle obbligazioni assunte nelle Convenzioni che hanno violato, ma direttamente ai cittadini di quegli Stati, perché chiedano conto ai governi di ciò che è stato tenuto loro nascosto dietro lo schermo della segretezza. Sono i crimini commessi e l’impunità assicurata ai responsabili, nelle numerose guerre asseritamente perpetrate a difesa della democrazia e dei diritti umani. Informare il pubblico di questa colossale mistificazione, rivelando documenti riservati, ha trasformato Assange in un pericoloso nemico che i governi intendono perseguire a ogni costo, non esitando a praticare la tortura, nella forma più subdola, senza escludere progetti di eliminazione fisica. Sì, leggiamo bene, anche questo.

C’è qualcosa di grave se non disperato nell’appello di Melzer, perché muove dalla constatazione, dopo anni di lavoro e di esperienza sul campo, che “non ci sono più strade percorribili all’interno del sistema”, di cui si ammette il totale fallimento e con esso il pericolo della tenuta dello stato di diritto anche là dove è nato. Il quadro era già desolante, in media solo nel 10% dei casi affrontati, il Relatore giunge a una soluzione soddisfacente nel suo intervento con i governi. Questa volta, tuttavia, non affronta solo indifferenza o scarsa volontà, ma l’accusa di aver perso la neutralità: “Avevo preso alla lettera il mandato conferitomi, avevo messo a nudo torture e maltrattamenti ovunque li incontrassi nel mio lavoro e mi ero rifiutato di piegare le regole a motivi di convenienza. Adesso con l’indagine sul caso di Julian Assange senza accorgermene ero diventato io stesso un dissidente all’interno del sistema”.

Dopo aver obiettivamente valutato, ribatte, occorre schierarsi, non è possibile “rimanere neutrale tra la vittima e il suo boia”. Il rischio di questa esposizione è alto, Assange è presentato tuttora dalla narrazione corrente come un personaggio oscuro, un hacker dalle finalità antisistema e non solo, un bieco stupratore in fuga dalla giustizia. La potenza di questa narrazione diffamatoria, sapientemente organizzata per manipolare il consenso dell’opinione pubblica, la cui attenzione è distolta, dal contenuto dei segreti governativi violati alla personalità negativa del suo divulgatore, e già parte della strategia di persecuzione.

Melzer confessa di essere stato influenzato da questa percezione diffusa, tanto da diffidare in un primo tempo della richiesta di aiuto che gli era pervenuta dagli avvocati di Assange. Dovrà ricredersi. Così ci narra lo studio accurato dei documenti, l’indagine attivata, l’osservazione del poderoso dispiegarsi di una potenza di fuoco concertata dai servizi segreti di quattro Paesi -Stati Uniti, Svezia, Regno Unito ed Ecuador- in grado di piegare le istituzioni di garanzia, fino al sistema giudiziario, contro una persona sola, braccata e privata della libertà da un decennio -arbitrariamente- come un altro organismo dell’Onu aveva già sostenuto. Gli effetti visibili sono già devastanti sul prigioniero, si riconoscono i segni di una tortura psicologica accertati dagli esperti medici più accreditati a livello internazionale. In caso di consegna allo Stato che pretende la sua incriminazione, si apre l’abisso di una detenzione sostanzialmente a vita e in condizioni disumane, all’esito di un processo politico, un’altra oscenità per le democrazie liberali.

Ma il crimine che si vuole perseguire rivela un cortocircuito ancor più insostenibile, è infatti l’attività propria della libera informazione che rientra nel mirino della repressione, cioè il tratto distintivo di quelle democrazie. Si comprende allora l’importanza della posta in gioco e la ragione dello sforzo immane dietro la caccia all’uomo e la punizione in vista: impedire che si svelino ancora i misfatti delle democrazie imbiancate. Nello stesso tempo questa è la ragione della presa di posizione del Relatore speciale, che richiama tutti i cittadini a tutelare la loro libertà messa in pericolo dal raggiungimento di quell’obbiettivo.

Il libro di Melzer ci conduce ora dietro le quinte della facciata istituzionale nelle dichiarazioni ufficiali delle autorità governative, nella prosa paludata e surreale delle giustificazioni alle critiche loro mosse, nella formulazione di accuse strumentali e discrezionali degli organi inquirenti governati dalle scelte politiche, fino alle eleganti dissertazioni nei provvedimenti giudiziari, che aggiungono la mistificazione del diritto alla copertura di obiettivi pragmatici e cinici.

Il primo compito è liberare il campo dai pregiudizi e dai falsi miti messi in circolazione. Tra questi, l’insinuazione che l’attività di pubblicazione di Assange vada distinta da quella propria del giornalista “responsabile”, quindi non meritevole della tutela garantita alla libertà di informazione. Di qui l’accusa che a lui si deve la diffusione di documenti riservati senza oscuramento di dati sensibili. Si tace che Wikileaks aveva in realtà depurato i documenti originali cercando interlocuzione con le autorità statunitensi, da queste rifiutata, e ancora si tace che quella residua e minima parte di documenti rilasciati in originale erano già stati resi accessibili da altri giornalisti (una testata tedesca e due giornalisti del Guardian), cui nulla è stato addebitato.

Contrariamente al supposto notorio, nessun danno concreto agli interessi della difesa è mai stato dichiarato o provato; lo si ricava addirittura dal processo alla fonte interna di Assange, il soldato Chelsea Manning, assolta da parte del tribunale militare dalla più grave accusa di aver aiutato il nemico.

Ma è il mito più insidioso e infamante, costruito fin da subito in chiave diffamatoria di Assange, a essere distrutto: essersi sottratto alla giustizia svedese per le accuse di stupro. Leggiamo allora della palese debolezza del caso ordito contro di lui, originato dalle accuse di due donne, che neppure lo volevano denunciare, ma che altrettanto zelanti poliziotti avevano costruito, al di là delle dichiarazioni effettive neppure verbalizzate propriamente, per farle immediatamente filtrare ai media. Così il procedimento, chiuso per mancanza di prove dal procuratore che per primo se ne occupa, dopo pochi giorni, viene riaperto e chiuso tre volte, permanendo abnormemente per circa nove anni nella fase delle indagini preliminari senza accuse formali.

C’è una trama oscura svelata, soprattutto con le tracce documentali la cui scoperta si deve alla attività della nostra Stefania Maurizi, con la determinazione delle sue ricerche attraverso il Foia. La pendenza del caso svedese è essenziale per consentire la detenzione di Assange, in attesa della sua evacuazione dall’ambasciata ecuadoriana dove è rinchiuso come rifugiato per quasi sette anni.

I procuratori inglesi, senza farsi scrupolo di minacciare (don’t you dare get cold feet), chiedono ai procuratori svedesi, in procinto di archiviare definitivamente il loro procedimento e ritirare il mandato di arresto, di mantenerlo ancora. Il nuovo presidente ecuadoriano, sotto evidente ricatto, revocherà ad Assange la cittadinanza e l’asilo politico, in modo arbitrario e senza alcun formale procedimento, consentendone l’arresto all’interno dell’ambasciata. Il cerchio si chiude, ora può uscire allo scoperto la escalation di accuse ordite dagli Stati Uniti.

Ciò che segue nel racconto di Melzer è la parte più inquietante e sorprendente della vicenda. Anche la magistratura inglese mostra di piegarsi al disegno in atto, riservando ad Assange un trattamento inusuale, con processi sommari, denigrazioni in pubblica udienza e palesi violazioni di ogni diritto di difesa, mancata assunzione di testi dedotti, divieto di controinterrogare testimoni dell’accusa e non viceversa. Assange è il criminale pericoloso che i giudici confinano nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, la Guantanamo inglese, già per scontare la severissima condanna per l’unico reato commesso nel suolo inglese, cioè la violazione delle prescrizioni inerenti alla libertà su cauzione, un reato che comporta in genere una sanzione non detentiva. Non solo non contano per i giudici i motivi della fuga nell’ambasciata ecuadoriana ove ha ottenuto asilo politico, ma neppure il rapporto del Gruppo di lavoro dell’Onu che ha definito arbitraria la detenzione di fatto nell’ambasciata. Emergeranno poi le condizioni di quella permanenza forzata, ove Assange sarà sottoposto con la complicità dei servizi di sicurezza a una sorveglianza invasiva e in violazione dei più elementari diritti, alla intimità, financo alle visite mediche e ai colloqui con gli avvocati.

Al culmine c’è il resoconto di quello che viene definito il “processo farsa angloamericano”. La lettura delle motivazioni delle decisioni prese dai giudici (il libro di Melzer non copre la pronuncia di appello, che riformerà quella del primo giudice che non legittimava la estradizione solo per ragioni “umanitarie” di salute, respingendo le tesi difensive sui temi più pregnanti, la libertà di informazione innanzitutto e la strumentalità politica dell’azione) non danno conto delle condizioni in cui la procedura estradizionale si è svolta, che invece sono l’oggetto della impietosa analisi di Melzer e del suo contributo informativo.

Si è trattato di un “dispiegamento caricaturale dell’apparato giudiziario”. Durante le udienze la giudice impedì persino ad Assange di parlare, se non tramite gli avvocati, ma contemporaneamente gli proibì di sedersi vicino a loro, sostenendo che sarebbe equivalso a rimetterlo in libertà e avrebbe dovuto richiedere il rilascio su cauzione. Continua, in questo clima, la tortura psicologica di Assange. Nota ancora Melzer: “Pare impossibile che (la giudice) abbia disatteso la regolarità del procedimento tanto apertamene senza aver ricevuto indicazioni, assensi o accondiscendenza dall’alto”. Non sono esagerazioni del Relatore speciale, come dimostra il duro comunicato dell’Istituto per i diritti umani dell’ l’Associazione internazionale forense, per cui “turba profondamente il fatto che, in una democrazia matura in cui il principio di legalità e i diritti degli individui sono salvaguardati, il governo britannico sia rimasto in silenzio e non sia intervenuto per porre fine a una condotta così indecente e incongrua da parte di funzionari della Corona”. Per concludere: “molti Paesi nel mondo prendono ad esempio la Gran Bretagna per casi analoghi. In questa occasione l’esempio è scioccante ed eccessivo”.

Bisogna intendere a fondo la denuncia di Melzer. Non c’è solo il fallimento del sistema delle istituzioni internazionali e nei rapporti di cooperazione tra gli Stati a tutela dei diritti umani, ma quello dei sistemi legali degli stati democratici che si assumono modelli universali.

È detto a chiare lettere: gli Stati Uniti non sono in grado di assicurare un processo equo. Neppure di formare una giuria imparziale nella Corte di Alexandria (lo testimonia un esperto), situata in un distretto in cui sarebbe eccezionale trovare una persona non legata per motivi di lavoro o familiari con autorità governative. Ma è lì che la procura ha scelto di concentrare tutti i casi di questo tipo, pur avendo in teoria almeno cento distretti con uguale competenza nel Paese. Ci sono aspetti che definiscono il sistema ordinariamente come iniquo. I procuratori dettano legge ed estorcono patteggiamenti con la discrezionalità illimitata del loro potere di incriminazione, che può aumentare o ridurre i reati contestati. Qui, addirittura con le ampie previsioni dell’Espionage Act, che non ammettono l’invocazione del primo emendamento sulla libertà di informazione, si sono scatenati con la contestazione di 18 capi di accusa che possono comportare fino a 175 anni di pena.

Il ricorso all’isolamento carcerario e le condizioni durissime di detenzione fanno impallidire e non sono limitate soltanto alle carceri di massima sicurezza e ai regimi speciali cui Assange sarebbe stato destinato. La Corte d’Appello, che accetterà le tardive assicurazioni degli Usa, ribaltando la decisione di primo grado che pur aveva accettato le prospettazioni difensive, glisserà sul punto. Ma si comprende che i giudici hanno avuto un’alternativa troppo netta: se avessero rigettato le richieste contro Assange nel merito, avrebbero dovuto dire che non si fidavano degli americani e che Oltreoceano quella democrazia che pretende di dare lezioni al mondo inscena processi politici. Troppo, anche per l’altro Paese dove la democrazia liberale è nata, che dimostra lo stesso peccato, aggravato dal servilismo. Ma anche la tranquilla Svezia presta ossequio, come dimostra la docile cooperazione assicurata dalle autorità inquirenti, pronte a eseguire direttive politiche, fingendo di ricercare prove per nove anni tenendo in scacco un presunto innocente.

Sarà il caso di notare, incidentalmente, che tra i documenti pubblicati da Wikileaks c’è invero una diversa storia, che riguarda l’agire di una magistratura inquirente libera e indipendente. Si tratta dell’unico esempio di procedimento nei confronti di chi ha violato il divieto di tortura con una extraordinary rendition. La magistratura italiana, appunto, ora alla vigilia della realizzazione di riforme che la renderanno in breve tempo assimilabile ai diversi modelli che abbiamo visto in opera. Ma nel noto caso del rapimento di Abu Omar, nessuno ha potuto dare ordini ai procuratori, le pressioni americane, rivelano sempre i documenti del CableGate, si sono dovute rivolgere alle autorità politiche che peraltro alla fine, ma solo loro, garantiranno l’impunità anche per gli agenti Cia condannati. [1]

Il caso Assange nonostante tutto si trascina ancora e con esso la tortura dell’uomo. Melzer ha intravisto che la decisione della giudice Baraitser che negava la estradizione solo per motivi di salute, era una trappola tesa destinata a scattare nel successivo giudizio di Appello, che consegna definitivamente i diritti umani in mano alla diplomazia, accettando le apparenti assicurazioni fornite dagli Stati Uniti circa un trattamento compatibile con le condizioni di Assange. Resta la legittimazione della incriminazione di Assange e quindi resta il monito per la libertà di informazione. Deve essere chiaro che non v’è alcuna ragione giuridica che ostacola per l’ordinamento americano la incriminazione ai sensi dell’Espionage Act della attività di informazione da parte dei giornalisti su notizie riguardanti la sicurezza nazionale. [2] Se ciò non è avvenuto prima di Assange, è solo per scelta discrezionale e politica. Il processo negli Stati Uniti non ha alternative praticabili.

Troppo tardi se ne sono accorti i giornalisti, compresi quelli delle testate che avevano ricevuto e pubblicato i documenti di Wikileaks, tanto che sulle prime avevano accolto con soddisfazione l’arresto di Assange. Melzer non risparmia la sua critica anche al successivo “tiepido” appoggio alla causa di Assange quando l’accanimento persecutorio ormai aveva prodotto i suoi effetti e si protraeva l’agonia del carcerato. Auspicava un appello delle maggiori testate che denunciasse le flagranti violazioni del giusto processo in danno di Assange e la minaccia alla libertà di informazione. Ora dobbiamo prendere atto che questo appello è recentissimamente comparso. Le cinque testate che avevano pubblicato documenti di Wikileaks, Guardian, New York Times, Le Monde, Der Spiegel ed El País, hanno sottoscritto una lettera aperta con la richiesta al governo per la dismissione dell’azione penale, sostenendo che “pubblicare non è un crimine”. [3]

Bene. Tuttavia si tratta ancora di uno stile, per usare le parole di Melzer, “blando e mansueto”. Non solo, residua anche una ruggine del passato che costringe al distinguo: nel testo si rivendica ancora, pur riconoscendo di fatto la natura editoriale della attività di Assange, la critica in passata a lui rivolta circa la pubblicazione di documenti non previamente oscurati nei dati sensibili.

L’unica via di uscita appare dunque una decisione governativa, anche sotto forma di un provvedimento di clemenza, come è usuale alla fine del mandato presidenziale. Melzer la auspicava, in chiusura delle sue riflessioni, quasi in un suo personale appello a Joe Biden, evidenziando che la decisione richiederebbe saggezza, coraggio e integrità, quelle qualità che “fanno grande uno statista”.

Ma se interrompere subito la tortura di Assange è imperativo, resta fermo il fatto che la chiusura politica del caso lascia intatti i suoi effetti anche oltre la persona, lascia intatto quel sistema le cui storture sono strutturali, ora cementate dal monito del precedente alla libera informazione. Resta l’impunità per i crimini commessi dagli Stati negli orrori delle guerre provocate, quelli protetti dalla segretezza e poi dallo straordinario capovolgimento del reale, che ha trasformato nel peggior nemico chi ha reso vitale la democrazia. Se bisogna guardare avanti, come quasi provocatoriamente proclamò il presidente Obama nel garantire l’immunità ai responsabili delle torture di Guantanamo, con queste premesse la vista che si apre è altrettanto terrificante.

La lettura del libro di Melzer sul caso Assange non può che richiamarci alla consapevolezza, cioè a vedere le cose come realmente sono. Da qui parte ogni retto agire.

Enrico Zucca è sostituto procuratore generale di Genova. È stato pubblico ministero del processo per le torture alla scuola Diaz durante il G8 dell’estate 2001


[1] La Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza, 23 febbraio 2016 Nasr e Ghali c. Italia, Ric. 44883/09, ha condannato l’Italia sostenendo che “Nonostante gli sforzi degli inquirenti e giudici italiani, che hanno identificato le persone responsabili e assicurato la loro condanna, questa è rimasta lettera morta a causa del comportamento dell’esecutivo”. Si tratta della apposizione del segreto di Stato in modo improprio secondo la stessa Corte e della grazia poi concessa dai presidenti della Repubblica ai condannati americani. 

[2] Neppure la storica sentenza della Corte Suprema nel caso New York Times Co. v. United States, che consentì la pubblicazione dei Pentagon Papers, respingendo la richiesta di inibitoria da parte del Governo, esclude ed anzi presuppone la possibilità di incriminazione del giornalista ai sensi dell’Espionage Act. Per un approfondimento giuridico mi permetto il rinvio a “Il caso di Julian Assange. È giusto incriminare e per cosa? Quando informare il pubblico a tutela della democrazia si trasforma in attacco ostile” https://www.questionegiustizia.it/articolo/il-caso-di-julian-assange , v. alle pagg. 5-12

[3] V. https://www.nytco.com/press/an-open-letter-from-editors-and-publishers-publishing-is-not-a-crime/

Questo articolo è stato pubblicato su Altreconomia il 3 maggio 2023

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