Il lavoro deve essere sicuro #5. L’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali (parte terza)

di Maurizio Mazzetti /
29 Gennaio 2023 /

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Nel precedente articolo (QUI) si erano individuati alcuni aspetti critici dell’assicurazione obbligatoria gestita dall’INAIL; esaminiamo qui quello della tutela meramente indennitaria e il conseguente danno differenziale non coperto dall’assicurazione pubblica.

Abbiamo già spiegato che l’assicurazione INAIL indennizza, e non risarcisce, i danni alla persona, offre cioè (a latere delle prestazioni diagnostiche, protesiche, riabilitative e fisioterapiche fornite all’assistito/a, direttamente o tramite strutture sanitarie accreditate e convenzionate), solo un ristoro parziale del danno subito. Tale indennizzo, ricordiamo, si concretizza in

  1. una indennità per l’inabilità temporanea assoluta al lavoro pagata fino a che questa inabilità perdura, proporzionale alla retribuzione o convenzionale
  2.  un indennizzo monetario una tantum, cioè corrisposto una volta sola, per i danni permanenti (tutti) all’integrità psicofisica – danno biologico – consolidati tra il 6% ed il 15%
  3. una erogazione monetaria periodica – rendita – che indennizza, attraverso apposite tabelle, sia il danno biologico come definito nel punto precedente, sia la diminuzione della capacità lavorativa, cioè la perdita economica, sulla base dell’ultima retribuzione annua percepita (o valori convenzionali minimi e massimi in assenza di retribuzioni o per retribuzioni “extra”: si pensi a sportivi professionisti o dirigenti

Questo sistema indennitario ha propri limiti interni: c’è voluta la Corte Costituzionale a rendere titolari della rendita ai superstiti i figli nati fuori dal matrimonio; per coniuge superstite si intende la persona sposata o unita civilmente, non meramente convivente (a differenza di quanto la normativa prevede in altri casi); e il coniuge superstite se si risposa perde la relativa rendita (non mi risultano ancora casi di successive unioni civili ….). Relativamente ai familiari superstiti, poiché la rendita è costruita tutta sul danno economico, essa non si costituisce automaticamente a tutti i familiari. Ai figli la rendita cessa quando smettono di studiare, termine fissato ad un massimo di 26 anni;  per gli ascendenti, attenzione, anche se conviventi, si richiede che la persona deceduta contribuisse economicamente al sostentamento della famiglia: ma provarlo non è affatto facile, richiedendo il Testo Unico evidenza di trasferimenti monetari, pagamento di bollette, e simili. 

Qui il Testo Unico riflette un periodo in cui normalmente figlie e figli abbandonavano il tetto familiare ben prima di oggi, quando la permanenza si prolunga (abnormemente, in alcuni casi) per la precarietà lavorativa, le basse retribuzioni,  i costi delle locazioni e/o degli immobili. E ciò conduce a situazioni che si prestano a grancasse mediatiche, magari volte ad attaccare surrettiziamente un’assicurazione pubblica proclamata inadeguata (ma senza alcuna seria ipotesi di riforma): ad esempio, in occasione del terremoto in Emilia Romagna del 2012, in provincia di Ferrara una delle vittime fu un giovane operaio che viveva ancora con genitori, deceduto per il crollo del tetto del capannone in cui lavorava (a rendere più straziante l’evento, il morto aveva accettato di sostituire un collega nel turno serale-notturno del sabato, perché il collega la domenica successiva intendeva andare al mare con la famiglia). Ora, non si riuscì in alcun modo a provare documentalmente, come richiesto dalle norme, che il deceduto contribuisse al sostentamento della famiglia (genitori pensionati, casa di loro proprietà); il giovane si stava costruendo una propria abitazione e verosimilmente lì finivano i suoi soldi o la maggior parte di essi. I familiari ricevettero quindi solo l’assegno funerario, spettante a chi sosteneva le relative spese, assegno che all’epoca ammontava a soli 2500 euro; ne conseguirono titoli ad effetto sulla stampa, del tipo “Una vita vale 2500 euro”, titoli e articoli cui sfuggiva però (volutamente o meno) il punto centrale della questione, cioè la condizionalità dell’indennizzo, ed il fatto che quello INAIL era appunto solo un indennizzo, e non un risarcimento. Il padre del defunto iniziò una sua solitaria battaglia, finendo anche in una trasmissione televisiva condotta dalla nota Barbara D’Urso, senza alcun risultato concreto (come facilmente prevedibile, la necessaria modifica normativa non trovò promotori). Nel corso della trasmissione emerse un qualche suo apprezzamento per la vicinanza che l’azienda presso cui lavorava il figlio deceduto (una nota industria ceramica) gli aveva dimostrato dopo l’infortunio mortale. Reale o strumentale che fosse detta vicinanza, lo sventurato padre, almeno dal punto di vista economico, ma forse anche da quello mediatico, più efficace, meglio avrebbe fatto a chiedere un risarcimento all’azienda stessa.

Infine, prendendo spunto da recenti fatti di cronaca, nessuna tutela INAIL spetta agli studenti impegnati nell’Alternanza Scuola Lavoro, ora definita Percorsi per la Competenze Trasversali e l’Orientamento – PCTO -, né ai loro familiari, anche nel caso di eventi mortali (purtroppo sino ad oggi se ne sono registrati tre). Ragazze e ragazzi ivi impegnati infatti, perdono la qualifica di studenti, ma non sono considerati né lavoratori, né praticanti/apprendisti, né stagisti/tirocinanti, cioè non rientrano in nessuna delle categorie protette, né la normativa di riferimento li ha equiparati (anche se, a modesto parere di chi scrive, l’equiparazione sarebbe implicita). Ciò può spiegarsi in base all’ipocrita, ma lucido, presupposto, che permea l’intero istituto dei PCTO, che ragazze e ragazzi non debbano, né possano, svolgere attività lavorative, ma essere presenti sui luoghi di lavoro solo come osservatori; diversa realtà di tali percorsi a parte, se anche così fosse si dimentica, che normativa e giurisprudenza consolidata tutelano il rischio ambientale, cioè la sola presenza in ambienti rischiosi. Mera trascuratezza, visto il non eccelso livello tecnico della normazione italiana, le frequenti mancanze di coordinamento tra norme diverse, nonché le vere e proprie omissioni di regolazione? (i soliti giuristi attempati le chiamano “lacune del diritto”). Come che sia, ora, sulla spinta del clamore mediatico (come sempre, di breve periodo) che ha avuto la (scontata) decisione di negare ogni ristoro ai familiari dell’ultima vittima, il diciottenne Giuliano De Seta, morto schiacciato da una lastra di metallo (a proposito di rischio ambientale) lo scorso settembre, il governo promette che metterà mano alla normativa assicurando un indennizzo ai familiari; auspicabilmente, aggiungo, andrebbe agli studenti stessi. Se son rose fioriranno, ma c’è voluto il terzo morto in un anno per avere almeno una dichiarazione di intenti. Possiamo registrare una rinnovata attenzione al fenomeno: è del 18 gennaio 2023, ad esempio, uno specifico protocollo tra tutti i soggetti coinvolti e i Servizi di Prevenzione delle ASL in Veneto (regione in cui si è verificato l’ultimo evento mortale) per garantire una formazione personalizzata ai ragazzi.

Come accennato in precedenza, il risarcimento, ai sensi dell’articolo 2043 del Codice civile, presuppone la responsabilità civile del danneggiante, cioè che il danno procurato sia un “danno ingiusto” in violazione dolosa o colposa di un qualche obbligo normativo. In questo danno patrimoniale ingiusto si distinguono la diminuzione patrimoniale conseguenza diretta del danno – danno emergente – e il mancato guadagno – lucro cessante. Dottrina giuridica e giurisprudenza hanno nel tempo allargato il concetto di danno, esteso, ad esempio, a  danni morali, da perdita di opportunità, da danno all’immagine e alla reputazione, eccetera, e non solo relativi alla persona danneggiata, ma anche a familiari e/o persone comunque vicine.  Quale che sia l’estensione di detta responsabilità civile, l’assicurazione INAIL ne esonera il datore di lavoro  come da articolo 10 del Testo Unico: egli deve pagare il premio, che magari aumenterà perché l’assicurazione INAIL funziona con il consueto meccanismo di bonus-malus; e l’indennizzo è pagato dall’INAIL, anche se il datore di lavoro è inadempiente ai suoi obblighi (principio di automaticità delle prestazioni, il che significa che di fatto gli oneri li sostengono coloro che pagano regolarmente). Il datore di lavoro se la cava quindi così, quale che sia stata la sua responsabilità? No, per fortuna. L’esonero funziona solo se il datore di lavoro (nonché dirigenti, preposti ecc.) risultano adempienti ai propri obblighi in materia di prevenzione, sicurezza e igiene sul lavoro, o comunque non responsabili di quanto accaduto (le norme, tutte, non possono coprire mai tutti i possibili casi concreti). Se sono state violate norme sulla sicurezza sul lavoro – reati perseguibili d’ufficio – oltre alle sanzioni amministrative ed eventualmente penali sul datore di lavoro ed eventualmente suoi collaboratori, il lavoratore danneggiato ben potrà chiedere in giudizio il ristoro della differenza tra l’indennizzo INAIL ed il risarcimento che gli spetterebbe secondo le norme del Codice civile, cioè appunto il danno differenziale. Può non essere una via facile, o soprattutto breve, ma se vi sono violazioni accertate nel senso indicato prima, il risarcimento è dovuto, tant’è vero che molte aziende stipulano apposite polizze assicurative per coprire questo rischio; e normalmente il danno viene risarcito con accordi di transazione, più rapidi, meno costosi e da esiti e importi certi, mentre una causa civile presenta sempre quella che i giuristi definiscono alea, cioè incertezza sull’esito, sui tempi, gli importi. Infatti, come facilmente intuibile, misurare il danno emergente non è operazione meccanica: pur esistendo tabelle che valutano i danni fisici alla persona, la valutazione può non essere indiscussa; quella sui danni morali e simili, e quella sulle cose, vanno fatte caso per caso e sono ancor più opinabili. Quindi, nel caso ricordato sopra, dell’operaio rimasto ucciso dal crollo del capannone, anzi del tetto del capannone che cadendo lo aveva schiacciato, il padre avrebbe potuto chiedere il risarcimento del danno differenziale, risarcimento dovuto se si fosse provato, come verificato per altri infortuni analoghi,  che la caduta/crollo del tetto non era dovuta solo al terremoto, ma al fatto che il tetto stesso fosse semplicemente appoggiato sugli elementi portanti dell’edificio, e non ad essi assicurato (non ho notizie sul caso in esame, ma è possibile sia accaduto così). Ovviamente, che poi un singolo sia effettivamente in grado di procurarsi i mezzi e sostenere i costi di una siffatta richiesta non è agevole; ma si vedrà che l’INAIL può aiutare.

Infatti, se una tale responsabilità, normalmente colposa ma talvolta dolosa, del datore di lavoro nella causazione dell’evento è accertata, esercita la cosiddetta azione di regresso (art. 11 TU). Richiede cioè “indietro” al datore di lavoro quanto ha erogato come indennizzo al lavoratore infortunato o ai superstiti (nel caso di una rendita essa viene capitalizzata, cioè tramutata in un capitale con metodi statistico attuariali che tengono conto di età, sesso ecc.), nonché le altre spese sostenute per diagnosi, cure, protesi, diarie, fisioterapia e riabilitazione; il totale di questi oneri è detto “costo del caso”. E nel caso di infortuni medio gravi e gravi a persone giovani, anche quando le retribuzioni di partenza per la rendita sono quelle minime o convenzionali, l’ordine di grandezza dei singoli costi dei casi è di diverse centinaia di migliaia di euro. Per il suo valore economico intrinseco, ma ancor più per la sua funzione indirettamente prevenzionale, l’INAIL anzi promuove e ricerca essa stessa dette azioni, con richieste dirette di restituzione, che seguano una sanzione e relativo procedimento penale (ancorché poi archiviato per messa a norma e pagamento di una sanzione amministrativa) o fatte direttamente in sede civile. Per rafforzare l’esercizio di tali azioni, sono generalizzate e più o meno formalizzate modalità di comunicazione e scambio dati tra l’INAIL e gli organismi di vigilanza, con la stessa INAIL che segnala i casi penalmente rilevanti alle Procure della Repubblica. All’inverso, l’art. 61 del TU 81 prescrive che

Comma 1. In caso di esercizio dell’azione penale per i delitti di omicidio colposo o di lesioni personali colpose, se il fatto è commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene del lavoro o che abbia determinato una malattia professionale, il pubblico ministero ne dà’ immediata notizia all’INAIL ed all’IPSEMA, in relazione alle rispettive competenze, ai fini dell’eventuale costituzione di parte civile e dell’azione di regresso.

E il comma 2 dello stesso articolo estende, in tali casi, la facoltà di costituirsi parte civile alle organizzazioni sindacali e alle associazioni dei familiari delle vittime di infortuni sul lavoro. E se vi saranno condanne, queste costituiranno il presupposto per l’INAIL circa il regresso, agli altri soggetti per chiedere il risarcimento, in un separato procedimento, del già citato danno differenziale

Quanto è efficace il meccanismo del regresso e dintorni? Sull’efficacia prevenzionale è difficile esprimersi, per l’estrema eterogeneità delle situazioni e la variabilità degli importi in gioco; un effetto verificabile è la crescente diffusione, almeno tra le aziende strutturate, di specifiche polizze assicurative, che magari coprono anche la responsabilità civile delle persone giuridiche di cui alla D. Lgs. 231 del 2001, di Modelli di Organizzazione e Gestione – MOG – di cui all’art. 30 del TU 81/2008, come vedremo più avanti quando parleremo della normativa sulla prevenzione e sicurezza, possono esonerare da tali responsabilità.  Attenzione, verifica dei presupposti e poi conclusione di un’azione di regresso verso i datori di lavoro, con connesse eventuali azioni “complementari” da parte dei privati per il danno differenziale, sono molto più facili per gli infortuni, e decisamente più problematiche per le malattie professionali. Ricordo infatti che queste ultime sono multifattoriali, hanno periodi di latenza anche molto lunga, durante i quali la persona può aver cambiato lavoro e/o mansioni, richiedono una esposizione al rischio protratta nel tempo ed efficace, che non sempre sono accertabili. Nel caso delle malattie professionali da esposizione all’amianto entrano poi in gioco delicate valutazioni sulla conoscibilità o meno della nocività e delle eventuali misure, prima della proibizione all’uso risalente al 1992. In ogni caso, una istruttoria corretta richiederebbe, più che analizzarle singolarmente, una verifica del dato epidemiologico: se presso una azienda si riscontrano malattie professionali dello stesso tipo in tempi apprezzabilmente limitati, è verosimile che qualcosa non vada, nella gestione della sicurezza ed igiene sul lavoro; e quindi INAIL e Servizi di prevenzione delle ASL hanno l’opportunità (il dovere?) di intervenire.

L’esercizio dell’azione di regresso negli anni non è mai stato, peraltro, un fatto meramente tecnico, anche se l’INAIL da decenni annovera, tra gli obiettivi assegnati alle unità operative, percentuali e tempi di azioni di regresso avviate (e proporzionali) sugli eventi indennizzati, percentuali di azioni concluse con un recupero, importi da recuperare. Alla fine del secolo scorso i vertici dell’INAIL emisero indirizzi volti ad “addolcire”, o limitare l’esercizio di tale azione, riducendone anche il peso sugli obiettivi assegnati alle unità operative; e, si osserva, nonostante all’epoca governasse il centro-sinistra. Tali indirizzi ebbero ovvio scarso effetto, perché in presenza dei presupposti il mancato esercizio dell’azione costituisce per il funzionario omissione d’atti d’ufficio e può configurare un danno erariale; e i suddetti indirizzi, peraltro appropriatamente vaghi, certo non avrebbero salvato il funzionario. In una certa misura sorprendentemente, vi fu una radicale inversione di rotta a partire dal 2003, quando il governo di centrodestra insediò come direttore generale dell’INAIL Maurizio Castro, ex manager della multinazionale Zanussi-Electrolux in quota all’allora Alleanza Nazionale, e ivi “inventore” (non senza difficoltà, avendo ricevuto minacce tali da fargli assegnare permanentemente una scorta) del lavoro a chiamata poi normato dal D. Lgs. 276 del 2003. Nella più volte dichiarata (condivisibile) convinzione che l’istituto del regresso dovesse essere utilizzato in funzione prevenzionale, nel senso di indurre nei datori di lavoro ad una maggiore attenzione alla sicurezza, alle azioni di regresso fu quindi dato un massiccio impulso, quantitativo e qualitativo (nel senso che fu formalizzato l’indirizzo che più azioni nei confronti della singola azienda dovessero essere trattate separatamente). Lo stesso Castro successivamente, divenuto parlamentare, avrebbe anche presentato proposte di legge di riforma, più o meno in tal senso, dell’azione di regresso, che non ebbero però seguito. In ogni caso, credo si possa dire serenamente che tali campagne portarono a qualche risultato finanziario, ad un incremento numerico delle azioni, e ad una certa omogeneizzazione dell’esercizio del regresso sul territorio nazionale, esercizio in precedenza assai diseguale, in qualche modo “saturando” il bacino dei potenziali recuperi ed incrementando le collaborazioni con le Procure delle Repubbliche e gli organismi di vigilanza; ma di risultati dal punto di vista prevenzionale se ne videro pochi. E, (col senno di poi, ovviamente), ciò perché una maggior cultura della sicurezza non si improvvisa e richiede molteplici leve; e per quel che riguarda l’INAIL, molte delle azioni aperte finirono (finiscono tuttora) archiviate, tecnicamente per lo più per la impossibile dimostrazione di una responsabilità “ingiusta” del datore di lavoro nel causare gli eventi. Infine, due parole su azione di regresso ed infortuni da Covid-19. Come è noto, per le misure anti COVID da adottare nei luoghi di lavoro le parti sociali stipularono specifici protocolli  il 14 marzo ed il 24 aprile 2020; i protocolli furono fatti in qualche modo propri dal Governo, con le strutture e gli organi di vigilanza (Forze dell’ordine, ASL, Ispettorati del Lavoro, Enti come l’INPS e l’INAIL)  a vigilare sulla loro attuazione; ma con l’unica sanzione, in caso  di mancato rispetto, di una sospensione dell’attività produttiva fino all’adozione delle misure previste nei protocolli stessi. Tra le tante agevolazioni per le aziende della normativa anti-Covid, ci finì poi anche una sostanziale eliminazione dell’azione di regresso dell’INAIL anche quando ci fossero stati casi di COVID_19 riconosciuti come infortuni in aziende che non avessero rispettato i protocolli di cui sopra …. scelta opinabilissima, ma con robusti motivi di opportunità nonché tecnici. Dimostrare che il contagio era di origine lavorativa già era non sempre facile, ancor più difficile provarlo dovuto dovuta alla mancata attuazione dei protocolli.

E che succede, invece, se l’evento dannoso non è causato dal datore di lavoro, ma da un terzo soggetto? E’ quanto accade ad esempio nel caso di aggressioni (quasi sempre nella sanità), ma soprattutto, nella maggior parte dei casi, negli infortuni legati alla circolazione stradale, siano essi in itinere o in occasione di lavoro: se vi sono veicoli coinvolti, entra infatti necessariamente in gioco l’assicurazione obbligatoria contro la responsabilità civile da circolazione dei veicoli, quella popolarmente chiamata RC auto.

Da un lato, l’INAIL, una volta che ha indennizzato la persona infortunata, esercita la cosiddetta azione di surroga (art. 1916 del Codice civile) e chiede al terzo responsabile, di fatto alla sua assicurazione, il pagamento del costo dell’evento indennizzato (se il terzo non è assicurato la richiesta è diretta, se è sconosciuto la si fa all’apposito Fondo vittime della Strada). Ma poiché tale  costo è un indennizzo, residua sempre un danno differenziale, che l’assicurazione del responsabile risarcirà, con le consuete modalità (compreso il concorso di colpa, ininfluente ai fini INAIL). Per evitare un doppio ristoro per il medesimo danno, l’INAIL avvisa da un lato la persona infortunata a non compiere rinunce o transazioni con la controparte sull’indennizzo INAIL (si è spiegato già che gli indennizzi INAIL, tutti, sono irrinunciabili ed indisponibili); dall’altro le assicurazioni, cui l’INAIL comunicherà il costo del caso, solo successivamente (sono molto attente a ciò …)  risarciranno il residuo danno differenziale, con la persona infortunata libera, su questa parte, di rinunciare, transigere, chiedere di più …. Ora, è evidente tale istituto non ha reale valenza prevenzionale; ma il diverso valore economico degli indennizzi INAIL e dei risarcimenti (se integrali, e calcolati secondo le tabelle in uso per gli incidenti stradali) possono innescare comportamenti che non esito a definire patologici quando non truffaldini, non frequenti (l’INAIL vi pone molta attenzione, ed hanno risvolti penali), ma neppure trascurabili, tendenti ad aggirare l’irrinunciabilità delle prestazioni INAIL.

Può infatti accadere, quando vi sono danni permanenti, soprattutto se fanno costituire una rendita, che la persona infortunata, o i familiari superstiti, ritengano più conveniente percepire subito l’intero risarcimento del danno da parte dell’assicurazione, piuttosto che una rendita periodica e poi il residuo danno differenziale: una rendita, per quanto non soggetta ad IRPEF, e per quanto aumentabile per aggravamento e dante diritto ad una serie di prestazioni accessorie, può ammontare a poche centinaia di euro anche per danni abbastanza gravi; per contro, però una volta capitalizzata per il calcolo del costo complessivo del caso può ridurre drasticamente il danno differenziale. A fronte di tali rendite, i corrispondenti risarcimenti civilistici, che si percepiscono in unica soluzione, hanno spesso ordini di grandezza di centinaia di migliaia di euro; e le tentazioni nascono.

Quindi, in alcuni casi, la persona infortunata semplicemente non si presentava alle visite disposte dall’INAIL per accertare i postumi permanenti; sul presupposto che tale accertamento sia interesse della persona infortunata, non esistono strumenti coattivi per un accertamento forzoso. Quindi la pratica veniva chiusa dall’INAIL senza indennizzare eventuali postumi permanenti, pur esistenti, e la persona si rivolgeva all’assicurazione RC auto per avere l’intero risarcimento; oggi i controlli incrociati, ed una acquisita consapevolezza delle assicurazioni, rendono il giochino di fatto impraticabile.

In altri casi, ed in maniera più sottile, le persone cercano di negare esse stesse che l’evento dannoso sia un infortunio in itinere, pur già regolarmente denunciato. Si è visto che riconoscimento ed indennizzo degli infortuni in itinere sono soggetti a tutta una serie di condizioni: percorso casa lavoro più breve/normale, eventuali deviazioni solo se necessitate da gravi motivi, compatibilità con gli orari di inizio/fine della prestazione lavorativa, uso del mezzo privato necessitato, soste necessitate e non eccessivamente lunghe. Ora, può accadere che le persone, in questi casi assistite da legali diciamo spregiudicati, neghino esse stesse dette condizioni, per non far riconoscere l’infortunio e quindi percepire subito l’intero risarcimento, giudicato più conveniente; farò l’esempio di due casi concreti, di cui fui personalmente testimone.

Nel primo, una insegnante che lavorava in un piccolo paese di montagna, per raggiungere il quale doveva necessariamente usare l’auto, aveva subito un grave infortunio sulla normale via del ritorno a casa, esclusiva responsabilità di altro veicolo. Sussistevano tutte le condizioni per il riconoscimento dell’infortunio in itinere, che certamente avrebbe condotto alla costituzione di una rendita, nonché per l’esercizio dell’azione di surroga. Verosimilmente ingolosita dall’ammontare del risarcimento integrale da responsabilità civile, dell’ordine di diverse centinaia di migliaia di euro, una volta resasi conto che le prestazioni INAIL sono irrinunciabili ed indisponibili, l’infortunata stessa “confessò” infatti, definendosi persona onesta che non voleva nulla di indebito,  che l’indennizzo INAIL non le spettava, perché nel tragitto si era attardata a lungo in un centro commerciale a fare compere, e quindi avrebbe interrotto il nesso percorso-lavoro. Ma non poté provare né la sosta, né la sua durata; e neanche un bolide di Formula 1 avrebbe coperto il percorso tra la scuola e il luogo dell’incidente nel tempo tra uscita dal lavoro e momento dell’incidente, momento che era invece pienamente compatibile con un tempo normale di percorrenza; e si dovette “accontentare” della rendita INAIL, con residuo danno differenziale poi.

Nel secondo caso, un artigiano, mentre rientrava da un intervento di manutenzione svolto in provincia diversa da quella di residenza, fermatosi in una piazzola autostradale per una sosta venne colà investito, rimanendo ucciso. Il fatto era accaduto sul percorso “normale” tra il luogo in cui aveva svolto la prestazione e la propria casa; e quanto all’orario, pur non potendosi provare con esattezza quando la prestazione era terminata, si restava nella stessa giornata, e quindi anche il momento dell’investimento appariva compatibile con il normale percorso di rientro; quindi, appariva esserci un infortunio in itinere indennizzabile. Furono i legali dei familiari del defunto, cui sarebbe spettata la rendita ai superstiti, ad eccepire che invece una deviazione c’era stata, adducendo che egli aveva lasciato il percorso normale per recarsi a visionare alcuni beni al cui acquisto era interessato; e tale deviazione, quantitativamente e temporalmente rilevante, fu confermata testimonialmente dai familiari stessi e dal proprietario dei beni. Dopo approfondite discussioni tra i funzionari INAIL a vari livelli, non tutti concordi (personalmente ero tra coloro che ritenevano poco verosimile la deviazione), e pareri legali appositi, alla fine dell’istruttoria l’INAIL decisero che non si trattava di un infortunio in itinere: quindi i familiari ricevettero subito l’intero risarcimento civilistico, credo ben superiore al mezzo milione di euro,  lo studio legale una parcella immagino cospicua, l’INAIL  risparmiò evitando di costituire una rendita, e i funzionari INAIL che avevano seguito il caso scamparono ad una denuncia alla Corte dei Conti per danno erariale, conseguente all’indebita costituzione della rendita stessa (denuncia ipotizzata dai legali della famiglia, difensori delle pubbliche finanze).  Se la giustizia è dare a ciascuno il suo, come ci ricorda Sciascia nell’omonimo romanzo, giustizia fu fatta ? Mah ….

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