Sono iniziati i quarantacinque appuntamenti sulla Rai dedicati ai referendum sulla giustizia sostenuti dal partito radicale insieme alla Lega (e promossi formalmente da nove regioni). Ci si può augurare che anche le emittenti private, a cominciare da Mediaset e La 7, facciano qualcosa di simile. Del resto, le indicazioni vengono dalla legge sulla par condicio del febbraio 2000, nonché dalle apposite disposizioni varate dall’autorità per le garanzie nelle comunicazioni e dalla commissione parlamentare di vigilanza dei servizi radiotelevisivi.
Insomma, apparentemente si è rotto il velo sulla scadenza elettorale prevista per la prossima domenica 12 giugno, in concomitanza con il turno amministrativo.
Tuttavia, con rispetto per l’attività che Rai parlamento svolge in ossequio delle norme e del contratto di servizio, il tema meriterebbe un’attenzione assai superiore nell’informazione.L’argomento in questione, articolato in cinque quesiti, ha bisogno di un vero approfondimento. L’affermazione di Luigi Einaudi che è indispensabile conoscere per deliberare, ricordata costantemente da radio radicale, in questo caso è dirimente. I punti sollevati, infatti, toccano problemi non semplici: dal consiglio superiore della magistratura, alla valutazione sull’operato dei magistrati, alla custodia cautelare, alla legge Severino su incandidabilità e decadenza dalle cariche elettive.
Non bastano spazi televisivi o radiofonici istruiti secondo il vecchio calco delle tribune, che pure ebbero in epoche passate momenti rilevanti di successo. Il tempo è trascorso inesorabilmente e non esistono più quel sistema politico e neppure il vecchio universo comunicativo. Le collocazioni orarie dei programmi elettorali nei palinsesti non sono particolarmente efficaci e denotano una visione lontana dai periodi più felici dell’informazione politica.
A proposito di news, si arrossisce alla lettura dei dati pubblicati dall’agcom sulla notiziabilità dei referendum tra il 29 di aprile e il 7 di maggio, quando si svolgeva la decisiva fase che precede la campagna elettorale: quella in cui si prepara il clima di opinione. Le percentuali orarie dedicate ai referendum hanno oscillato tra i tre e i quattro minuti nella Rai (nel complesso, non al giorno; meglio gli extra-tg), qualcosa di meglio a Mediaset (circa un’ora) e nebbia altrove. Insomma, la grande parte del pubblico dei cittadini è messa in condizione di sapere per quale motivo deve votare?
Le benemerite tribune o i messaggi autogestiti raccolgono spicchi di audience composti da persone già interessate o che vogliono confermarsi nei propri orientamenti. Ma tra il cielo e la terra delle trasmissioni specifiche ci sarebbe un mondo vasto e plurale. Sì, plurale. Qui non c’entra, infatti, il giudizio di merito, legittimamente orientato su versanti anche opposti.
In gioco sta un capitolo delicato dell’edificio democratico: i referendum sono un potere autonomo previsto dalla costituzione. Guai a considerare la vicenda una banalità marginale.
Una proposta. Sui canali abbondano i talk, sottogenere di successo che costa poco e dove si litiga per trainare un po’ l’ascolto. Prima fu la pandemia, ora – ovviamente- la guerra. Si potrebbe ritagliare uno spazio alla materia referendaria, attraverso un contenitore condotto con imparzialità e cognizione. La presenza degli ospiti deve certamente rispettare la disciplina legislativa e regolamentare, ma offrendo opportunità di approfondimento che altrimenti rischiano di essere piuttosto deboli.
Telegiornali e giornali radio hanno, poi, da svolgere la loro funzione essenziale, negata finora su tale scadenza.
Ciò che non appare sui media generalisti, ritorna sui social. Non è possibile accettare che la rete non sia toccata. Almeno il silenzio elettorale, il divieto di rendere pubblici i sondaggi negli ultimi quindici giorni e la trasparenza sui post sponsorizzati andrebbero inseriti in un provvedimento di co-regolazione (per accrescere l’informazione presso gli utenti delle piattaforme) concordato dall’autorità con i gestori. Un simile orientamento è stato ripetutamente annunciato. Se non ora?
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 18 maggio 2022