Le sentenze si possono criticare, se ingiuste

di Leonardo Grassi /
24 Dicembre 2021 /

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Un momento della manifestazione in sostegno dell'ex sindaco di Riace, Domenico Mimmo Lucano, condannato dal Tribunale di Locri a 13 anni e 2 mesi di reclusione per presunte irregolarità nella gestione dell'accoglienza ai migranti nella cittadina, Riace (Reggio Calabria), 06 novembre 2021. ANSA/Marco Costantino

Leonardo Grassi vive a Ferrara. Ha ricoperto ruoli diversi in magistratura a Trieste, Bologna, Montepulciano e Siena. Per oltre dieci anni si è occupato di terrorismo nell’ambito di istruttorie sulla strage del 2 agosto 1980 e su quella del treno Italicus del 4 agosto 1974. Fa parte del comitato consultivo della Presidenza del Consiglio sulla desecretazione e il versamento agli Archivi dello stato degli atti relativi a fatti di terrorismo stragista.

Si usa dire che le sentenze vanno rispettate, anche se non si condivide l’esito che danno al processo.

Non sono d’accordo, e lo dico dopo aver fatto per oltre quarant’anni il magistrato.

Ci sono sentenze che non sono rispettabili, e al tempo in cui mi occupavo di terrorismo stragista sfortunatamente ne ho viste non poche, per lo più di assoluzione.

Sentenze ideologiche, ammantate di tecnicismo a volte grossolano, a volte raffinato.

C’è, e c’è sempre stata, una magistratura, una sua parte piccola ma influente, che ha cercato di fare scempio della giustizia e della storia. Nel dibattito pubblico sulla magistratura in Italia negli ultimi cinquant’anni è rimasta talvolta sottotraccia poiché le sue decisioni erano consonanti alle aspettative degli ambienti mediatici dominanti e la critica sui media più importanti era riservata per lo più alle malefatte della magistratura progressista o di quella che volente o nolente rivolgeva le sue indagini contro i potenti del momento.

Basta leggere le cronache giornalistiche sullo stragismo e sui relativi processi, come stanno facendo alcuni studiosi di storia contemporanea, per rendersene chiaramente contro, sin dalle campagne di stampa che dai tempi di Valpreda, anarchico e bombarolo, hanno accompagnato le indagini e i processi, sino ai continui ammiccamenti ai NAR della strage di Bologna.

La sentenza del tribunale Locri nei confronti di Mimmo Lucano, tuttavia, non si inscrive in questo filone, come ipotizzato recentemente sul Manifesto del 19 dicembre da Marco Rivelli, col quale solo parzialmente concordo.

Certo è invece che si presta a critiche severe sia per le pene irrogate, sia per il metodo istruttorio seguito nel dibattimento, sia per le modalità di redazione.

Ovviamente ha ricevuto il plauso di giornali come “Libero” e, forse meno spiegabilmente, di giornalisti come Travaglio.

Peraltro c’è spesso un certo compiacimento nel vedere un mito infranto, soprattutto se quel mito è espressione di valori in controtendenza rispetto a quella che appare essere la cultura dominante, del respingimento anziché dell’inclusione, della discriminazione fra “razze”, piuttosto che di eguaglianza sostanziale fra tutti gli esseri umani.

E cercare di demolire questo mito ci aveva già pensato il Procuratore della Repubblica di Locri, che in un’intervista, alla faccia della sobrietà, più volte affermata come doverosa per i magistrati, aveva definito l’imputato come un bandito da western, nonostante che il Riesame e la Cassazione avessero già in quei momenti smentito l’impianto accusatorio annullando i provvedimenti cautelari da lui chiesti e ottenuti a carico del Lucano.

Ma questi sono discorsi alla fine di poco conto nel fare una valutazione critica della sentenza in discussione, novecento pagine circa di trascrizioni di intercettazioni telefoniche o ambientali offerte al lettore talvolta accompagnate da qualche valutazione di sintesi, peraltro spesso semplicemente assertiva, più spesso, come dire, allo stato grezzo, come si leggono in una relazione di servizio di polizia.

In estrema sintesi, si dice che il Lucano avrebbe tratto da tutto il complesso lavorio che gli viene addebitato nei molti capi di imputazione il profitto consistente nella creazione della sua immagine pubblica, da spendere poi politicamente per garantirsi un tranquillo avvenire, ma che di suo non avrebbe guadagnato un centesimo, a non voler considerare come proprie dell’imputato alcune opere, strutture residenziali ed altro, che in realtà sembrano essere state realizzate, seppur con procedure non sempre regolari, a beneficio dell’intera comunità del villaggio già semi abbandonato di Riace.

Diversamente i suoi collaboratori che avrebbero tratto somme cospicue dai delitti loro addebitati.

Viene da chiedersi da cosa i giudicanti abbiano tratto la singolare idea di un profitto non economico bensì, come dire, “morale” e viene da chiedersi poi dove siano finite queste somme, grosse somme, che sarebbero sparite e quali indagini bancarie sorreggono questo impegnativo assunto, quali perizie contabili amministrative abbiano portato a tale conclusione.

Ma la sentenza, col suo impianto assertivo, con la sua pena esorbitante, è in realtà uguale e contraria all’immagine del Lucano che essa stessa costruisce e con le sue non sempre chiare motivazioni sembra non avere il solo scopo di punire un delitto, se sussistente, ma di distruggere un idolo ed in vero bello sarebbe vivere in un posto dove non sia necessari né gli idoli né i loro malaccorti demolitori, ma semplicemente tutti vengano riconosciuti come uguali e quando necessario, dopo aver traversato mari e deserti, vengano aiutati ad avere una vita decente.

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