Da più di due anni è la coalizione che secondo tutti i sondaggi è sempre largamente davanti: prima dell’estate la vittoria alle comunali era considerata ineluttabile. Bisognava solo capire di quanto avrebbe trionfato e chi tra il leader della Lega e quella di Fratelli d’Italia avrebbe preso più voti. E invece dopo i ballottaggi scopriamo che il centrodestra è maggioranza netta nelle rilevazioni elettorali, ma alla fine si trova minoranza nelle città. Colpa sicuramente dell’affluenza, prima responsabile individuata dai leader di Carroccio e Fdi, ma non solo: dalle lotte intestine alle posizioni tutt’altro che nette sul Covid, ecco quello che non ha funzionato.
Sembravano invincibili. Talmente forti che alla fine hanno perso. E pazienza se Matteo Salvini riesce a dire solo che “nelle grandi città hanno riconfermato gli uscenti“, mentre “nei comuni più piccoli il centrodestra aumenta di due i sindaci che aveva prima del voto”. Due piccoli centri contro cinque capoluoghi su sei: i conti non sembrano tornare. Certo, è normale che il leader della Lega cerchi di guardare quello che per lui è il bicchiere mezzo pieno, anche se di acqua dentro oggi ce n’è pochissima. E infatti butta subito la palla sulle tribune vuote, nel senso dell’affluenza: “Se uno viene eletto da una minoranza della minoranza è un problema non per un partito, ma per la democrazia”. Uno scudo, quello della scarsa presenza ai seggi, che viene agitato pure da Giorgia Meloni. La leader di Fdi, come era già successo dopo il primo turno, prova a darsi un tono da leader della coalizione: attacca il centrosinistra, difende i candidati sconfitti, richiama all’ordine gli alleati. “Credo che ci si debba vedere questa settimana: ho già parlato con Berlusconi, lo farò con Salvini”, dice Meloni, che a differenza del capo della Lega, non ha paura di pronunciare la parola “sconfitta”: “Il centrodestra esce sconfitto alle amministrative: non riusciamo a strappare al centrosinistra le grandi città, ma non è una debacle“. La capa di Fdi sembrava quasi sul punto di fare una mezza autocritica, ma poi prima prova a spingere di nuovo Mario Draghi verso il Quirinale (che significherebbe tornare al voto entro sei mesi), poi se la prende col centrosinistra (“Ha trasformato la campagna elettorale in una specie di lotta nel fango“), quindi si lamenta per l’astensione: “Nessun partito può gioire quando una città come Roma elegge il proprio sindaco con queste cifre: c’è una crisi della democrazia, non della politica”.
Il nodo affluenza: la gente non va a votare (per la destra) – Ora: che la bassa affluenza sia un problema di democrazia sarà pure vero. Ma in molte città – come Torino e Roma – i dati raccontano di come a disertare maggiormente le urne siano stati quei quartieri che al primo turno avevano scelto i candidati di centrodestra. Ecco perché la poca gente ai seggi sarà anche un problema di democrazia, come dicono Salvini e Meloni, ma è soprattutto un guaio per la coalizione che mette insieme Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia. D’altra parte è da più di due anni il centrodestra è sempre considerato largamente avanti in tutti i sondaggi: prima dell’estate la vittoria all’amministrative era considerata ineluttabile. Bisognava solo capire di quanto avrebbe trionfato e chi tra Salvini e Meloni avrebbe preso più voti all’interno della coalizione. Dopo il primo turno si è effettivamente verificato l’atteso sorpasso di Fdi sul Carroccio, seppur con una crescita molto inferiore alle attese. I ballottaggi, invece, fanno incassare un secco 5 a 1 all’asse composto da Pd e M5s, che diventa 8 a 2 se oltre ai capoluoghi di regione si contano quelli di provincia.
Perché il centrodestra ha perso – Salvini ha straperso a Milano, casa sua, senza neanche sfiorare, neppure lontanamente, l’accesso al ballottaggio. Giorgia Meloni viene sconfitta nella sua Roma col suo candidato, Enrico Michetti, travolto da Roberto Gualtieri. Ma il centrosinistra vince pure a Torino, altra città che come la Capitale era amministrata dai 5 stelle e dove il centrodestra aveva espresso un candidato considerato molto valido. Simile la situazione a Napoli, dove l’ex sindaco, Luigi De Magistris, non apparteneva a nessuno dei partiti che sostenevano Gaetano Manfredi. Quindi non è sempre vero che le grandi città hanno confermato gli uscenti. E anche dove questo avviene sono le modalità a certificare l’oggettiva sconfitta della destra. A Trieste, per dire, hanno sì confermato per la quarta volta Roberto Dipiazza, ma lo stesso Salvini – solo un mese fa – parlava di una vittoria al primo turno del sindaco di centrodestra. Che invece non solo ha dovuto aspettare il ballottaggio, ma si è pure fatto recuperare 16 punti dallo sfidante di centrosinistra. Va poi segnalato che il Pd riesce a tenere città simbolo della Lega e del centrodestra come Varese e Latina: erano già passate a sinistra cinque anni fa, ora confermano quella scelta che all’epoca venne bollata soltanto come un “errore storico”. E che dire di Cosenza, roccaforte del centrodestra che è passata a sinistra, dopo sole due settimane dalla “promozione” a governatore dell’ex sindaco Roberto Occhiuto?
Le candidature al ribasso – La domanda è: come mai il centrodestra è maggioranza netta nei sondaggi e alla fine si trova minoranza nelle città? La risposta, probabilmente, non è una sola. Intanto c’è da considerare l’ovvio: alle comunali si vota spesso considerando la qualità del candidato, senza seguire gli “ordini di scuderia” dei partiti che si scelgono di solito. La prima causa del tracollo, a destra, è dunque da ricercare nei nomi messi in campo nelle grandi città. Dopo una serie di veti incrociati e vista l’indisponibilità di molti dirigenti a correre alle comunali, alla fine si è optato per candidature al ribasso. Sono i dati a dirlo: nella Milano di Salvini e Berlusconi, Luca Bernardo era un candidato che – come hanno mostrato i dialoghi carpiti dall’inchiesta di Fanpage – non piaceva neanche ai capilista che avrebbero dovuto farlo votare. A Roma Enrico Michetti era stato praticamente scaricato da tre quarti della coalizione già al primo turno: da Forza Italia, con Silvio Berlusconi che non lo ha quasi mai nominato, a Giancarlo Giorgetti che ha dichiarato esplicitamente di preferire Guido Bertolaso. D’altra parte Michetti era l’uomo che Meloni aveva definito “il mister Wolf giusto per Roma“: il fatto che sia riuscito a prendere solo 35mila voti in più rispetto al primo turno (il saldo di Gualtieri è positivo di 257mila preferenze) è un flop che Lega e Forza Italia addebitano tutto a Fratelli d’Italia. Così come Fdi – ma pure Berlusconi – aveva fatto passare come figli del Carroccio i tonfi di Milano e Napoli.
Il dualismo – E qui si scorge un’altra possibile risposta alla domanda sul flop del centrodestra: le continue liti tra i due aspiranti leader della coalizione. Tutta la campagna elettorale è stata costellata da attriti tra Meloni e Salvini. Tra ritardi della prima e fughe del secondo, incontri riparatori con sorrisi smaglianti a favore di selfie, il dibattito era tutto orientato su chi alla fine sarebbe riuscito a prendere un voto più dell’altro. Una situazione che ha oggettivamente danneggiato la coalizione, influenzando soprattutto Salvini. A capo di una forza che sostiene il governo Draghi, il leader della Lega mostra da mesi di essere a disagio. Anche perché mentre lui dovrebbe comportarsi da leader di maggioranza, Meloni invece ha le mani libere per bersagliare l’esecutivo. E vedere crescere il suo partito nei sondaggi. Una situazione dalla quale Salvini non riesce a uscire. Anche perché quando ha inseguito Fdi su temi delicati come l’obbligo di Green pass e i vaccini ha seriamente rischiato di spaccare il suo partito.
La linea incerta su vaccini e Green pass – Senza considerare che l’incerta linea sul passaporto verde non sembra promettere bene a livello elettorale. E infatti, secondo i retroscena, l’accusa che Berlusconi fa agli altri due leader è proprio quella di aver puntato su temi lontani dall’elettorato moderato. Sono i numeri a dirlo: tutti i sondaggi raccontano di come la stragrande maggioranza della popolazione sia favorevole all’obbligo al Green pass, mentre sono più di 46 i milioni di italiani che hanno fatto almeno una dose di vaccino anti Covid. Si tratta dell’85 percento della popolazione che statisticamente – secondo le rilevazioni politiche degli ultimi due anni – sceglierebbe principalmente i partiti di centrodestra. Tutta gente che probabilmente ha altre urgenze – il lavoro, la sanità, le tasse – e si è probabilmente sentita poco rappresentata dalle ultime settimane di polemica sul passaporto verde. E dunque alla fine non ha trovato utile spendere il proprio tempo per andare a votare al ballottaggio. È quello che sembra essere successo a Torino con Damilano, indicato da molti come il candidato più spendibile tra quelli presentati dalla destra a questa tornata: dato in vantaggio da tutti i sondaggi della vigilia, a sorpresa è arrivato al ballottaggio da secondo classificato. Al secondo turno ha addirittura incassato ottomila voti in meno rispetto a 15 giorni fa. A guardare i dati sull’affluenza chi l’ha scelto al primo turno al secondo non ha cambiato candidato: è rimasto a casa. Segno che forse non è sempre colpa della qualità dei candidati: a volte pesa pure quella dei leader.
Questo articolo è stato pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 18 ottobre 2021