di Daniele Barbieri
La tv mi insegue. Anche nella stazione di Bologna. Nei corridoi che portano ai binari e poi lì, in attesa del treno. Schermi (relativamente) piccoli ma ovunque: non riesco a sfuggire. Avevo dimenticato che sta succedendo. La prima avvisaglia a Roma, mesi fa: schermi più grandi mi pare. Anche a Milano. Mi sussurrano spot (uno buonista con – figuriamoci – l’allenatore Lippi) senza tregua, non riesco a nascondermi: il sonoro mi raggiunge, le immagini provano ad arpionami.
Mi domando quanto pagano per questa “occupazione di suolo pubblico e di orecchie-occhi privati” e a chi (un po’ lo intuisco, i soliti noti) vanno i quattrini. Poi mi dico: “Daniele sei uno stronzo, non è questo il problema”. Se pure quei soldi finissero al fondo dei ferrovieri in sciopero o alle biblioteche spolpate resta che loro hanno vinto un’altra battaglia nella lunga guerra per invadere, conquistare, colonizzare l’immaginario collettivo.
Se vi è chiaro chi intendo quando scrivo “loro”, bene andate avanti a leggere; se avete dubbi forse conviene che saltiate questo articolo perché non ho tempo ora di riassumere le 2007 puntate precedenti. Che anche le stazioni sarebbero state invase dagli ultra-schermi dovevo aspettarmelo. E voi pure. Pensateci. Basta riguardare «Blade runner», era ampiamente previsto. Se invece leggete il romanzo che ha ispirato il film di Scott o qualche altro romanzo di Philip Dick («La penultima verità», «Ubik» o «I simulacri» per dirne tre) comincerete a intuire cosa ci aspetta nel futuro prossimo o meglio nel futuro probabile.
Perché insomma dobbiamo re-imparare anche i tempi e le coniugazioni. E a questo proposito mi pare che prevalga il presente immobile; che molto sia in voga il passato stoico (sono spiacente di contraddire il solerte correttore automatico: non ho dimenticato una “r”) mentre è poco usato – intendo nel linguaggio corrente – il futuro speranzoso e purtroppo latitano il condizionale ottimista e l’imperativo etico.
Verbi mutanti, parole-camaleonte. Il mio amico Paolo Buffoni (ovvero Pabuda) che è un neuro-poeta, giorni fa mi ha mandato queste ironiche strofette:
«lo scrivere,
per chiunque e comunque,
è un esercizio pulito e saggio.
In ultima istanza,
opera semplice di riciclaggio:
le parole, grosso modo,
son già tutte
dette e scritte».
Stavolta hai torto Pabuda. C’è una costante guerra per verniciare di nuovi significati parole vecchie. Pensaci. Guerre umanitarie, polizia internazionale, esuberi… Non si dice più “omicidi bianchi” ma “morti bianche”: suona uguale ma significa due cose assai diverse. Puoi dire “cazzo” su quasi tutti i media ma “sfruttamento” è tabù, “ingiustizia” non usa fra persone a modo. Per restare in tema tv, loro sono riusciti a rendere birichino-scemino persino l’incubo di Gorge Orwell. Prima dicevi “grande fratello” e qualcuno – di sicuro chi aveva letto «1984» – si preoccupava, ma ora quelle due parole fanno pensare ad alcuni auto-reclusi d’oro che fingono di vivere (e persino di trasgredire) solo quando la regia avvisa. Sguardi radicalmente diversi. Altro che Archimede: “datemi un (diverso) contesto e vi solleverò il mondo”.
Forse sto sbagliando ma io che prendo molti treni sento in modo particolare questa invasione degli ultra-schermi. Mi sembra quasi che ce l’abbiano con me. Perché io non guardo la tv (lo so, anche a sinistra siamo pochi e trattati come i Panda o gli Stegosauri ma di questo magari vorrei discutere un’altra volta). O forse il problema è che io mi muovo affinché lei, intendo la tv, non guardi me… perché questa è, con ogni probabilità, una delle opzioni. In ogni modo, da molti anni ho smesso: ho deciso cioè di non farmi instillare due, tre goccioline di merda al giorno (rubo l’espressione al romanzo «Le pratiche del disgusto» di Ugo Cornia) dallo schermo. Ovviamente la Rai non ci crede e mi bombarda di lettere accusandomi di mentire, intimandomi di pagare. All’ultima lettera di ziastra-Rai ho risposto che quando la normalità della tv sarà «Report» (la vedo ogni tanto in cassette-pirata) forse prenderò in considerazione l’ipotesi di passare qualche mezz’ora davanti al tabernacolo elettronico. Anni fa invece avevo a intimato a matrigna-Rai di lasciarmi perdere, invocando ora non ricordo più quale legge a mia difesa e allegando questi irriverenti versi di Bruce Springsteen (la canzone si intitolava «57 Channels»):
«Cinquantasette canali in tv e nulla da vedere
così, nel sacro nome di Elvis, presi il fucile
e feci saltare in aria quell’aggeggio».
Per un po’ i postini della Rai mi lasciarono in pace. Chissà se studiavano di denunciarmi per minacce (lesa maestà a colpi di fucile) o se gli intellettuali Rai cercavano di scoprire se questo Elvis fosse proprio quello lì … che, perbacco, non sembrava così cattivo (anche se Frank Sinatra aveva spiegato che era una specie di pericolosissimo «negro bianco»).
Insomma da buon marxista e pure un po’ gandhiano (nonché attento lettore di Vandana Shiva, Eduardo Galeano e Paul Watzlawick) lo so che faccio male a prenderla come una questione personale: non è che Rai-Fininvest-Ski infastidite dal fatto che Barbieri non le guardasse (o viceversa, che loro tre non potessero spiarmi) si sono comprate un po’ di schermi sui binari per farmi dispetto… Sono un puntolino del tutto senza importanza nella grande mappa su cui divampa la guerra per controllare gli immaginari collettivi. Che sono tanti, per fortuna, come direbbe per l’appunto Paul Watzlawick: «fra tutte le illusioni la più pericolosa è credere che esista una sola realtà».
Io però ho una mia idea dell’impegno individuale e sono anche un navigato 58enne e dunque ogni tanto posso anche fare l’ego-centrico. E dire: non li sopporto proprio quei grandi schermi (scherni?) che dilagano ora nelle stazioni e domani suppongo nelle piazze, ai semafori, nelle toilettes degli asili… poi forse gli spot verranno proiettati in faccia a chi guida, come 50 anni fa temevano Frederik Pohl e Cyril Kornbluth (nel romanzo «I mercanti dello spazio») seguiti dal già citato Dick. Dunque, tramite «Liberazione della domenica» vorrei fare una piccola predizione: o troviamo il modo di organizzarci collettivamente e bloccare l’invasione degli ultra-schermi oppure qualcuno comincerà a distruggerli. Forse non il primo o il secondo ma magari il terzo potrei essere io.
IO, VELENI, LIBERAZIONE ecc: UN DOVEROSO PS
Forse qualche giorno fa in blog avete letto Non è colpa mia dove lamentavo l’invasione spottistica del mio/nostro blog; da allora i banner sono comparsi pochissime volte. Evviva. Ma temo per il futuro. E comunque resta il problema di fondo. Vedo per esempio che la pur interessante rivista rivista «Micromega» ha per sponsor Eni (o è una mia allucinazione?). Riflettendo sulla pubblicità invasiva mi è tornato in mente questo articolo scritto 6 anni fa per il quotidiano «Liberazione». E a proposito di Eni, mentre scrivevo quell’articolo ignoravo ciò che Sabina Morandi ha rivelato nel suo libro «C’è un problema con l’Eni» con il sottotitolo«Il cane nero si è pappato i rossi – come insabbiare un’inchiesta e liberarsi del giornalista»; confronta Sabina, “i rossi” e i vel-Eni in blog. Insomma per quanto io sia preoccupato pare che la realtà (l’invasione degli ultra-spot) sia ancora peggiore. Ah, ho notato di recente che nella stazione di Roma il volume si è un po’ abbassato e gli schermi si sono rimpiccioliti ma la tv è sempre accesa e mi insegue, ci insegue, ancora mi insegue, ci insegue, sempre più mi insegue…
Questo post è stato pubblicato sul blog di Daniele Barbieri il 2 novembre 2012