Il turbocapitalismo che ruba le vite

28 Febbraio 2020 /

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di Angelo d’Orsi
Con pellicole recenti come l’Oscar per il miglior film Parasite del coreano Bong Joon-ho, o Sorry, we missed you del britannico Ken Loach, o lo statunitense Joker, di Todd Philips, o più vecchie come Io, Daniel Blake, ancora di Loach, ci hanno mostrato sul grande schermo la crudeltà del turbocapitalismo e dell’ultraliberismo, le due entità mostruose che gestiscono le nostre vite, vessando anime, sfruttando corpi.
Nelle storie che raccontano questi film, nei personaggi che le interpretano, nelle situazioni che descrivono, tutti con grande efficacia, pur nella differenza stilistica, ritroviamo la nostra quotidianità, la difficile esistenza che individui e interi gruppi sociali conducono in questo lento, inesorabile tramonto della civiltà, con il corrispettivo trionfo della barbarie dell’oppressione di classe. Sono altrettanti esempi di come oggi più che mai la lotta di classe viene condotta dall’alto. E di come sia difficile, per non dire impossibile, sottrarsi alla prepotenza di chi ha, all’oblio di chi non vuol sapere, al cinismo di chi sa ma preferisce voltarsi dall’altra parte.
Ci mostrano tutte, queste opere cinematografiche, che nessuna via d’uscita è possibile per chi, per una scelta del destino è soltanto una monade stritolata nel terribile meccanismo del Moloch capitalistico, un mostro che schiaccia impietosamente, che ti spreme il succo vitale, e poi ti getta fra i detriti, e diventi parte delle sue deiezioni. O meglio, una via d’uscita c’è: è la morte, volontaria o involontaria, che spesso non è il normale finis vitae, la prospettiva di ogni essere vivente, ma la morte procurata dalla sofferenza, dall’abiezione, dalla miseria in cui “il padrone” getta uomini e donne, con un cinismo pari solo alla sua sete di dominio e di ricchezza. I personaggi dei film che ho richiamato sono vittime, che muoiano o no, vittime incolpevoli, anche quando, come Joker, si danno all’assassinio seriale.
Si tratta di reazioni estreme alle angherie di quello che un tempo chiamavamo “sistema”, reazioni singole e prepolitiche, che non portano mattoni alla costruzione di una società alternativa, e non sono frammenti di un discorso rivoluzionario, ma atti di un subbuglio esistenziale, fatto di rivolta e rassegnazione, di attesa e di disillusione, di speranza e disperazione.
Ripensavo a questi film, davanti alla “piccola storia ignobile” di un giovane di poco più di quarant’anni: chiamiamolo Saverio. Addetto al montaggio di palchi, e di strutture analoghe, Saverio lavora per una cooperativa (con uno di quei “contratti” che non ti concedono nessuna chance, una delle tante forme di sfruttamento mascherato) che, nei giorni prima delle feste di fine anno, lo invia a svolgere un “lavoretto da poco” a un centinaio di chilometri dalla città di residenza.
Arrivato sul posto, un hotel, gli dicono che deve predisporre l’impianto luci e audio per consentire l’intrattenimento degli ospiti dell’albergo che giungeranno per svagarsi durante le agognate vacanze natalizie. C’è una scala appoggiata a un muro. Saverio nota subito che la scala non è regolamentare e lo fa rilevare al titolare della ditta che si è rivolta alla cooperativa. Il titolare con fare rassicurante dice di non fare troppe storie, che è un lavoretto da mezza giornata e che comunque qualcuno gli terrà la scala, svolgendo assistenza a terra. Saverio prova e insistere, ma niente da fare: prendere o lasciare; lasciare significa creare un precedente difficile da giustificare alla Cooperativa…, la quale magari smetterebbe di chiamarlo per lavorare. Non se lo può permettere. Sale su quei pioli con un po’ di preoccupazione, ma pensa: non sarò così sfigato da cadere. È una domanda, in realtà, a cui vorrebbe dare una risposta convintamente affermativa, ma non riesce. E di colpo la scala oscilla paurosamente, Saverio cade, e scopre che il ragazzo che doveva tenerla si era allontanato senza neppure avvisarlo e lui, lassù, su quella traballante scala non a norma, neppure se ne era accorto.
Cade, ha male, chiede che venga chiamata un’ambulanza. Il titolare gli risponde a muso duro: “mi vuoi rovinare? Il lavoro deve essere concluso entro stasera!” E poi, dopo aver guardato le gambe dolenti di Saverio, aggiunge: “io me ne intendo…sono anche addetto al primo soccorso, non è niente. Sai quanti ne ho visti di incidenti così?”. Saverio insiste, l’altro pure: Saverio cede. Gli tocca anche finire il lavoro, anche se dolori lancinanti lo tengono in ansia; dopodiché, deve salire nella sua vecchia bagnarola e farsi oltre 100 km per tornare a casa. Quando arriva, stremato, la sua compagna chiama immediatamente il 118.
Entrambe le caviglie sono spezzate: in una dovranno mettere due grossi chiodi: l’intervento chirurgico avviene il giorno della vigilia: “almeno un Natale diverso”, dice fingendo serenità.
La frattura dell’altra caviglia non è operabile. Occorre attendere pazientemente che l’ingessatura faccia il suo corso. Il calvario è appena iniziato. 45 giorni di gesso a entrambe le gambe, immobilità totale. Recente visita di controllo sentenzia che deve rimanere così per altri 40 giorni. E come campa, Saverio? Con il sussidio INAIL di 700 euro mensili non ancora giunti. Gli amici lo consigliano, lo esortano a sporgere denuncia. Forse rimarrà offeso per sempre, almeno a una delle due gambe e non potrà comunque proseguire nel lavoro che svolgeva prima a pieno ritmo. Gli hanno già detto, i medici, che dovrà dedicarsi ad attività meno pesanti, meno pericolose. Ma la denuncia? Il tizio che lo ha costretto a salire su una scala fuori legge, e poi gli ha proibito di chiamare un’ambulanza? E lo ha costretto a tornarsene a casa guidando per un’ora e mezza? Non sarebbe da mandare in galera? “Sì”, dice Saverio. “Ma io poi sono finito: la Cooperativa non mi chiamerà più e probabilmente si spargerà la voce. Sarò trattato come un ‘infame’ e nessuno mi darà più, mai più, uno straccio di lavoro”.
Saverio è a casa: passa, con enormi difficoltà, dalla carrozzina a rotelle, al letto. Non è in grado di fare nulla. E la depressione avanza a grandi passi. Non si lamenta neppure, è ormai in un mood che conduce all’apatia. Di denunce non se ne parla. La Cooperativa può continuare a sfruttare e sottopagare e ricattare i tanti Saverio con contratti-capestro. I titolari dell’albergo, quelli della ditta subappaltatrice e quelli della cooperativa avranno a quest’ora non solo dimenticato il nome di quel tizio che è stato così stolto da cadere da una scala, ma avranno cancellato lo stesso episodio. Nessuno restituirà a Saverio le sue gambe, sane e robuste, nessuno gli pagherà gli interminabili mesi di clausura e sofferenza, di disagio e solitudine, nessuno gli chiederà scusa. “In fondo ti è andata bene”, dirà probabilmente qualcuno, “Non sei morto e non ti sei nemmeno spezzato la schiena. O il cranio”, aggiungendo: “sei giovane, ti riprenderai. E potrai tornare al lavoro”.
Saverio, sì, forse ritornerà al lavoro, prima o poi: cioè, ritornerà allo sfruttamento e all’oppressione di cui è stato vittima innocente. Daniel Blake ne muore, lui, Saverio, può essere felice di potere ancora rivedere ogni mattina il cielo, quando non è oscurato dai fumi e dalle polveri di quello stesso sistema che gli ha spezzato le gambe, e rubato mesi di giovinezza, e pregiudicato il futuro.
Una piccola storia ignobile che ne racconta innumerevoli altre.
Questo articolo è stato pubblicato da Internazionale il 18 febbraio 2020

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