di Silvia Napoli
Sono state dette e scritte molte cose su quell’unicum esperienziale e teatrale nel panorama culturale italiano o forse nel panorama antropologico nostrano tout court, che di fatto sono le “Ariette”. E non solo lo testimoniano l’interesse della RAI o in qualche modo tentativi di replica o imitazione, ma anche forbiti volumi di critica di punta, come quello curato dal raffinato ed esperto Massimo Marino, che celebra la loro e, di conseguenza anche un tantino nostra, “vita intorno ad un tavolo”.
Non bastasse, per chi non fosse mai stato da loro, in sede o in casa, per meglio dire, nella località di riposante frescura estiva che li definisce, esistono ormai diversi filmati e prodotti audiovisivi esterni e soprattutto interni alla loro piccola factory rurale informale che testimoniano tantissimi passaggi del percorso umano e artistico in Valsamoggia della premiata ditta Pasquini e Berselli. Ditta artigiana nelle modalità e contadina nei fatti che fa rete a chilometri zero con i produttori della zona,distretto di collina, scelta come destino attuativo di una mission casa e bottega declinata nel senso più largo e aperto possibile. Una vera community, ben oltre le utopie social o le illusioni alternative dei tempi andati.
Perché in fondo, la vicenda Ariette, inventori Del Teatro nelle Case, del Teatro da mangiare, Del Teatro-vita intorno ad un tavolo e poi anche del Teatro dei semi di grano da piantare, del Teatro dei territori da cucire agito con varie proposte durante l’anno e soprattutto con il Teatro estivo a puntate nei comuni dell’Unione, nonché dei laboratori teatrali senior e junior apertissimi a non professionisti, provenienti da ovunque nell’area metropolitana, si può leggere come una biografia generazionale di una gioventù che non voleva fare come gli adulti di prima, se non fosse che rispetto a tante altre vicende di questa tipologia, l’amarezza, la svolta cinica, la cesura dolorosa, lo strappo e l’abbandono sembrano non trovare spazio a fronte di un candore emotivo senza paraocchi che è un po’ la cifra distintiva di questa coppia. Questo fa si che in tutto il loro lavoro non vi sia supponenza nel giudicare il tempo presente, né ombra di laudatio di quello passato.
Le Ariette sono propriamente immerse nella condizione del qui ed ora per se stesse e la propria comunità di riferimento, che va ben oltre la vallata, con una aderenza anche questa difficile da comprendere appieno se la dovessimo leggere con le categorie dicotomiche dell’adeguamento, del quieto vivere, del buen retiro, contrapposti alla ribellione, alla critica, o alla sovversione dei codici. difficile anche stabilire, un po’ come avviene per quelle ricette di rosolio o tortello che si tramandano, in quali proporzioni si combinino spontaneità, verve naturale, casualità fortunate con una formidabile caparbietà di costruzione di un sodalizio di vita e di arte in cui tutto ci racconta di scelte condivise, scelte discusse di sicuro e non sempre semplici ma mai offuscate da tentennamenti etici o rimpianti languorosi.
La pratica teatrale assume i contorni di una religione del nostro tempo come occasione vera di incontro, agape allargata in cui il requisito è portare se stessi nella griglia e nella sollecitazione che Ariette di volta in volta sceglie ma che poi ha da essere eseguita con rigore professionistico. Che l’improvvisata a teatro non esista si evince bene proprio dagli ultimi grandi lavori collettivi in cui viene sollecitata sempre una parte di società civile ulteriore a quella rappresentata dalla falange armata dei loro laboratori, chiamate a raccolta di popolo, in cui viene stimolata una coralità che deve essere ben organizzata cosi come nelle svariate celebrazioni laiche ricorrenti e sempre diverse, tra inizio anno con la giornata della Memoria, davvero memorabile nelle loro puntuali versioni fino ad arrivare alla primavera, con 25 aprile e primo maggio.
Anche il problema delle generazioni che vivono in separatezza le emergenze dell’oggi, è costantemente presente e svoltonella vita e nelle modalità teatrali di Ariette:a partire dalla loro stessa biografia in cui le loro personali genealogie, sono distanziate, reinventate e distillate negli insegnamenti come sorta di Lari o numi tutelari della Casa estesa che è la loro abitazione. Una magione con cielo e lucciole a vista che arriva almeno fino alla Camargue. Tutto si tiene, insomma, nella logica in cui diremmo, non va sprecato nulla per l’Inverno che fatalmente arriverà:lo può ben dire chi abbia partecipato a quella toccante cerimonia che è il loro Matrimonio d’inverno, in cui, per tutti quelli invitati a queste nozze alternative in cui si gustano tortellini in brodo preparati al momento secondo tradizione, diventa magicamente intellegibile il mistero di due individuali entità che scelgono di diventare una e che affrontano insieme il trascorrere delle stagioni con le diverse forme di solitudine e di insicurezza che queste comportano, quasi come addentrandosi, tenendosi per mano, nella selva oscura di cui si potrebbe smarrire il sentiero.
In realtà Stefano Pasquini e Paola Berselli si sono sposati al solstizio d’estate e, se non avete mai visto o sentito niente di loro, cosa ormai abbastanza difficile, dovreste essere qui, a celebrare le loro nozze di “perla”, con la loro mensa ancora una volta di più imbandita, stavolta filologicamente con cous cous, che fu il piatto forte in tempi non sospetti delle loro autentiche nozze anticonformiste, soprattutto anticonsumiste e che in qualche modo si ripetono qui, ancora una volta adesso con amici e pubblico, che poi è una categoria coincidente nel loro caso.
Anche questo è uno dei molteplici paradossi di Ariette: che fanno arte della loro vita e soprattutto viceversa, dribblando i rischi di retoriche decadenti e narcisiste sempre insite in tante figurazioni di artisti maudit, un po’ stereotipe in questo senso, artisti di cui supponiamo di sapere tutto esercitando il nostro gusto per il buco della serratura. Qua le porte sono spalancate sulle colline rivestite a festa di verde in attesa della luna piena. Proprio come in una lirica di Saffo e questa festa, per capirci, è segnalata nel loro flyer di attività teatrali per questa parte dell’anno.
Si fa “balotta”, si beve bene, ci sono risa, le impagabili affabulazioni di Stefano, gli incredibili occhi verdi al laser, si potrebbe dire, di Paola, ma tanta commozione vera e tanti inaspettati regali, per la gran parte provenienti dai “regaz”, una brigata giovane, un po’ rappettara, che viene dal circondario, ma ha propaggini fino al Lido Adriano delle Albe ravennati, grandi amici di visione e pedagogia, con cui gli Arietti condividono il tocco gentile ma fermo, lo sguardo severo e pietoso, la grande umana compassione per l’imperfetto, la damnatio sacrale della protervia.
A questo punto, mentre i padroni di casa si schermiscono e con disarmante franchezza attribuiscono questa propensione didattica e questo radicamento comunitario al fatto di non avere figli, dunque alla spinta etica di dover restituire qualcosa nei termini a loro consoni di quanto ricevuto dagli altri, scatta la consapevolezza per chi sta li, che, un po’ scartati rispetto alle nicchie ombelicali della ricerca, comunque le vere nozze che si vanno a ricelebrare sono quelle con il Teatro:non c’è niente infatti di più personale per i nostri rinovelli sposi che i vari appuntamenti per seminari, laboratori, adesso su e giù per i comuni dell’Unione, perché sta per partire la scommessa di quest’anno: una Tempesta shakespeariana come non l’avrete mai vista, che ogni mercoledì, rinnoverà la saga di Prospero e Calibano per tutto il mese di luglio nelle piazze dei 5 Comuni della Valsamoggia, da Monteveglio in apertura fino a Bazzano per concludere.
Se l’anno scorso era toccato all’Odissea, con una vera barca imprestata in scena, a ridefinire non solo tramite la narrazione delle traversie di Ulisse montate un po’ a telenovela con annesso talk show pubblico guidato dallo speaker Stefano, a mo di facilitatore di comunità, il concetto di Itaca o patria mobile e nobile cui tornare e i contributi dei migranti nei territori erano stati sempre precisi in questo, stavolta un mare ancor più periglioso viene evocato qui, dove mare non si vede e al posto di un possibile porto rassicurante come tensione vitale, abbiamo l’ambiguità dell’Isola, con tutte le sue prospettive utopiche, illusorie rispetto all’idea di controllo e di purezza coerente.
Mi dico che ancora una volta, scelta più azzeccata non potrebbe esserci e intanto penso alla capitana “pirata” suo malgrado Carola diretta verso Lampedusa, ma anche a Ventotene, dove in stato di cattività nacquero i fondamenti di un’idea di unitarietà d’Europa possibile, o alle isole sperdute nel Pacifico assalite dalla plastica e dalle morie di specie animali. E la nostra condizione esistenziale, non è forse quella di isole che stentano a provare empatie per gli altri isolotti e i loro naufraghi?
Di sicuro c’è che con l’aria di parlar d’altro, di parlar del lontano o di riferirsi ad un altrove letterario, le Ariette che guardano sempre alla vastità e libertà dei mari, come metafora di quella delle coscienze, sono sempre terribilmente sul pezzo, perché sono parte o dentro ad un certo risveglio civile che sta investendo i comuni di Valsamoggia e che ora, che lo spirito dei tempi, sembra voler atomizzare e tornare nel dibattito a contrapporre i contadi con le grandi aree urbane, sarà molto interessante vedere come si svilupperà.
Una tavolata, un piatto di cous cous evocativo già ai tempi del bellissimo spettacolo dallo Straniero insieme al pane autoprodotto, non mancheranno mai perché nessuno si senta straniero, ma possa essere profeta di se stesso in assoluto egualitarismo tra politici di rango, giornalisti, grandi registi, colleghi teatranti e semplicemente cittadini.
Certo è che praticando una civiltà di teatro assolutamente all’aperto e catartica, siamo pronti a scommettere che saremo avvolti da magie diverse magari da quelle dei grandi interpreti del Piccolo o dei commedianti dell’Elfo, per citare celebratissime versioni italiche di questo capolavoro senza tempi che lo possano scalfire, ma altrettanto speciali.