Libri contro il fascismo: la Lega di Salvini e l'estrema destra di governo

3 Luglio 2019 /

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di Letture.org
Professori Gianluca Passarelli e Dario Tuorto, voi siete autori del libro “La Lega di Salvini. Estrema destra di governo” edito dal Mulino: come si è compiuta la svolta sovranista della Lega?
I partiti di destra radicale in Europa presentano oggi una molteplicità di facce ma sono accomunati dall’elemento della “chiusura culturale”. Ciò vale, in particolare, all’interno di quella galassia della destra radicale europea riconducibile al “gruppo di Visegrad” e a cui la Lega guarda più da vicino, che si riconosce in posizioni etiche tradizionaliste e nazionaliste. Questa affinità ha comportato, sul piano programmatico, una torsione politica della Lega che è passata in pochi anni da movimento federalista, autonomista e secessionista a formazione che si proietta totalmente dentro il filone sovranista, con tutto il portato di temi cari alla destra nazionalista: lotta alla mondializzazione, all’immigrazione, all’Europa della moneta unica e della democrazia pluralista.
Il costituirsi di una priorità diversa rispetto alle istanze legate al territorio dipende da un insieme di fattori. Se la LN è passata dallo slogan “Prima il Nord” a quello “Prima gli italiani” è innanzitutto per la maggiore visibilità e importanza data al tema immigrazione nella retorica del partito, e quindi all’interesse nazionale (di difendersi dall’immigrazione) su quello europeo. Anche in passato la Lega agitava l’argomento immigrazione pur non rinunciando a proporre un progetto pensato e applicato al Nord. Gli elementi nuovi hanno a che fare con l’aumento generalizzato di sfiducia nei confronti dell’Europa, la maggiore visibilità dei partiti di destra nazionalisti su scala continentale e il successo di posizioni anti-establishment attraverso le nuove forze politiche che le rappresentano.
In passato la Lega federalista guardava con favore a un'”Europa delle regioni” come via di uscita dallo Stato nazionale. È solo negli anni che hanno visto l’ingresso nel gruppo dei Paesi Euro, di fronte al mancato riconoscimento della possibilità di uno stato indipendente padano, che la Lega ha cominciato a opporsi all’Europa in nome di un progetto diverso. Il riposizionamento a destra nello scenario europeo si può spiegare con la necessità di intercettare una famiglia politica in grado di garantire nuove basi ideologiche fondanti altrimenti mancanti (in assenza di un elemento etnico-razziale o religioso forte). Gli anni della crisi hanno costituito infine un banco di prova importante. È in questo periodo che si è rafforzata l’insofferenza populista verso la burocrazia di Bruxelles e le politiche di controllo e commissariamento dei paesi membri. Con il passaggio da un orientamento pro-federalismo a uno sovranista si sono raffreddate le posizioni di sostegno storicamente avanzate dalla Lega verso le battaglie autonomiste (catalana, irlandese, scozzese). Dal richiamo al federalismo regionalista ed europeista di Carlo Cattaneo il partito è passato al sostegno a Trump e a Putin, entrambi impegnati contro il disegno istituzionale dell’Unione Europea. La contrapposizione locale-globale, presente in passato, è stata ora attualizzata nei termini di lotta di intere nazioni (non più dei territori dentro le nazioni) che cercano di staccarsi dalle pretese sovranazionali di controllo. L’assunzione di posizioni sovraniste ha portato la Lega di Salvini a coronare rapporti politici precedentemente avviati con formazioni come il Front National di Marine Le Pen, il belga Vlaams Belang, il FPÖ austriaco e altre formazioni, aderendo dal 2017 all’Europa delle nazioni e della libertà, gruppo politico nato in seno al Parlamento europeo. Altri rapporti sono stati stabiliti con nuovi attori politici riconducibili al blocco di paesi del cosiddetto Gruppo Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria). Il riferimento a questi scenari di alleanze o comunanza di posizioni fa dell’antieuropeismo leghista, di destra e nazionalista, un tratto che amplifica la componente pur presente di populismo. L’enfasi sul tema dei politici corrotti, che il partito agita anche per fronteggiare la concorrenza del M5s, si applica infatti più alle élites transnazionali che alla classe politica italiana, in quanto l’assunzione di posizioni sovraniste deriva soprattutto dall’esigenza di riposizionamento del partito su scala europea.
In che modo Salvini è riuscito ad imporre al partito la sua svolta?
La scalata alla guida dell’organizzazione si è concretizzata poiché Salvini ha colmato un vuoto generato dall’abbandono del vecchio leader, realizzando un’alternanza che è stata possibile per mancanza di alternative. Salvini da uomo di partito, che ha ricoperto molte cariche organizzative, politiche e rappresentative, è stato in grado di accedere alla guida della Lega Nord poiché conosce i gangli amministrativi, organizzativi e politici del partito nonché la «mitica base», i militanti che hanno tenuto in vita il movimento dopo lo scandalo dei «diamanti in Tanzania», gli uomini e le donne dell’organizzazione. All’inizio della crisi del 2012, Salvini ha l’intuito (o la fortuna) di rimanere nel partito. Si inserisce nel vuoto di leadership che Maroni non riesce a colmare, scalando i pochi gradini rimasti per la guida definitiva del partito. Salvini capisce rapidamente che il partito non c’è più, che è paradossalmente scoperto proprio sul lato della moralità, ossia su quel tema forte esibito nelle vecchie immagini del Nord «dalle uova d’oro» ingurgitate da «Roma ladrona». L’abilità di Salvini è stata quella di capire che la proposta della Lega del Nord non funzionava più e, se reiterata, avrebbe portato il partito in un vicolo cieco.
Con il passaggio dei poteri a Salvini, nel 2013, la Lega ha ritrovato una nuova leadership, certamente meno carismatica e diversa dalla precedente ma altrettanto efficace. Al contempo, ha compiuto un passaggio deciso verso un modello di partito più verticale, meno ancorato all’attivismo della base e all’azione amministrativa della classe dirigente locale. La centralizzazione della Lega di Bossi era infatti, in qualche misura, controbilanciata dall’attivismo della base e dalle strutture decentrate. Il forte ridimensionamento del partito di Salvini, sia dal punto di vista organizzativo sia in termini di classe dirigente intermedia tra la base e il segretario, ha contribuito a una verticalizzazione nell’assetto governativo interno a favore della leadership, persino superiore al periodo della guida carismatica di Bossi.
Come è cambiato il profilo sociodemografico degli elettori leghisti?
Le elezioni del 2018 restituiscono il profilo di un elettorato leghista che, nonostante il fortissimo incremento quantitativo, registra solo alcune variazioni significative sul piano qualitativo. Non c’è stato un terremoto nella Lega ma cambiamenti che proseguono lungo linee di tendenza di lungo periodo. In precedenza avevamo segnalato l’emergere di un processo di normalizzazione dentro il mondo leghista, con un elettorato che tendeva a diventare meno maschile del passato, meno giovane (ma ancora poco anziano), istruito quanto il resto della popolazione e rappresentato ampiamente da fasce sociali non (solo) riconducibili al lavoro autonomo. Questa evoluzione risulta in larga parte confermata nel 2018. Per quanto riguarda il genere la quota di donne che votano Lega pareggia quella degli uomini. Rispetto al dato anagrafico la Lega risulta un partito di elettori collocati nelle fasce di età intermedia. Effetto di questa distribuzione per età è che prevale una componente ampia di elettori collocati nel mercato del lavoro, attivi e in una fase di maturità di carriera; condizione che si riflette naturalmente sulla domanda politica e sul tipo di istanze promosse dal partito. L’aumento dell’età media segnala che la Lega è un partito sì di occupati, ma nella fase centrale della loro carriera o prossimi all’uscita dal lavoro. L’elettore tipo che vota Lega è un cinquantenne relativamente sicuro del suo posto e preoccupato per la possibile perdita del potere di acquisto del suo salario (o della pensione futura). Queste generiche considerazioni aiutano forse a capire meglio le ragioni dell’investimento fatto dalla classe politica del partito su alcune campagne simboliche quali, ad esempio, quella per il superamento della legge Fornero.
Il richiamo alla posizione lavorativa aiuta a rispondere all’interrogativo sui profili professionali dominanti e sulla capacità del partito di intercettare, a seconda delle chiavi di lettura assunte, i ceti benestanti o l’area generica del disagio sociale. La Lega resta ancora un partito tra i cui elettori occupati è presente una quota importante di lavoratori autonomi, anche la maggior parte dei consensi proviene dal lavoro dipendente. Non possiamo però parlare di una formazione politica pienamente interclassista per la presenza, comunque, di una linea divisoria oltre la quale il partito non riesce ad avanzare, ossia il mondo lavorativo del settore pubblico. Tra tutti gli occupati che votano Lega gli impiegati hanno un peso che è nettamente minore di quello che hanno in quasi tutte le altre formazioni. Largamente rappresentati sono invece i lavoratori dipendenti del privato. Infine, gli elettori leghisti inquadrati come lavoratori manuali corrispondono a circa un quarto degli occupati che hanno votato il partito; un’incidenza superiore rispetto ad altri partiti (eccetto il M5s) ma insufficiente per sostenere la tesi di uno sfondamento leghista in questo segmento del mondo del lavoro. Non emerge, in sostanza, una chiara capacità del partito di egemonizzare altre aree di potenziale difficoltà legate alla condizione lavorativa, come nel caso dei disoccupati o dei precari che restano complessivamente marginali sia tra l’elettorato sia nel programma della Lega.
Assistiamo nel nostro Paese ad un inedito scenario in cui due frères-ennemis si disputano l’egemonia politica e culturale: quali esiti avrà a Suo avviso l’alleanza gialloverde?
La Lega Nord si è scagliata sin dalla sua nascita contro il sistema di partiti, provando a porsi come attore al di sopra delle stesse forze politiche oggetto dei suoi strali e a guidare la rivolta del «Nord» contro un governo accentratore e non responsabile nei confronti dei cittadini. Sin dall’inizio la LN e i suoi elettori hanno espresso una forte disaffezione nei confronti del sistema democratico nel suo complesso, contro l’inefficienza e l’inefficacia delle istituzioni rappresentative, del Parlamento, della magistratura, della burocrazia e degli enti di governo locali e della democrazia nel suo complesso. Il Movimento cinque stelle è il partito italiano che per antonomasia rappresenta la protesta. Ne ha fatto il tratto distintivo, l’elemento essenziale e caratterizzante, la sfida politica e la ragione sociale. Il M5s è sostanzialmente nato per contestare i partiti al potere ma anche quelli di opposizione, deboli nel proporre una valida alternativa, radicale, di cambiamento. Sul piano della protesta ha mantenuto una posizione meno definita e coerente rispetto alla Lega. Le critiche alla democrazia e alle istituzioni rappresentative sono state meno aspre e molto più indirizzate alla classe dirigente che le occupava. Al contrario, la ricerca della democrazia “diretta” è stato uno dei tratti distintivi del partito, insieme alla difesa acritica dei magistrati e delle regole; tratto, questo di una cultura politica legalista, atipico per i movimenti populisti.
La doppia avanzata grillin-leghista nelle elezioni del 2018 sta a segnalare che gli elettori abbiano colto delle differenze tra gli stessi, sebbene entrambi si presentassero come partiti di protesta. Questi due partiti simili, freres-ennemis, si compensano in ragione dell’elemento di punta del messaggio politico che propongono: il populismo di estrema destra anti-immigrazione e identitario della Lega Nord, e la retorica contro le caste del M5s. I due partiti differiscono sia in termini di quantità che di qualità della protesta e al contempo hanno elementi di similitudine su diversi temi. Il M5s mostra tratti di protesta coltivati e alimentati dal disagio sociale. È riuscito ad incanalare la rabbia contro la violenza sociale e ambientale, contro la corruzione delle élite e le collusioni mafiose e ha realizzato i migliori risultati, non a caso, nel Sud Italia dove più drammatica è la disintegrazione dello Stato (sociale) e l’abbandono da parte della politica e dell’economia. La Lega è, invece, chiaramente un partito pro sistema al Nord, dove governa in tre regioni e centinaia di comuni e province. Le posizioni espresse dalla Lega sono irriducibili al solo tema anti-casta e ancora pienamente immerse dentro lo schema ideologico tradizionale del sinistra-destra, con tutte le conseguenze che ne derivano ad esempio rispetto ad avere o meno un chiaro posizionamento sui temi politici (che manca in larga parte, e volutamente, al M5s). D’altro canto, la Lega è stata in qualche modo costretta a cavalcare anche l’argomento anti-casta per non lasciarne il monopolio al rivale-alleato.
Partiti di lotta e di Governo, ma anche di lotta nel governo, come nel caso del Carroccio, Lega e M5s hanno stipulato un accordo che rende alleati due sfidanti ma che, subito dopo, trasforma i contraenti del contratto in competitori. A fronte di questa opzione politica diventata alleanza la Lega corre meno rischi dal punto di vista elettorale, poiché può contare su un’area politica di riferimento in cui rientrare (forse) nei momenti di crisi. Pur con le tensioni inevitabili il partito guidato pro-tempore da Salvini appartiene alla coalizione di centro-destra. L’alleanza con il M5s può essere dunque strategica e tattica al contempo. Strategica qualora le affinità elettive con il M5s si rivelassero maggiori delle differenze, o tattica allorché l’accordo di governo non durasse. In ogni caso la LN per emanciparsi, diventare autonoma e non relegare il 2018 a un momento congiunturale, dovrà confermare la sua capacità di imporsi nel centro-destra, compreso il rischio di fagocitare Forza Italia (e l’alleato post-fascista). Ma, ed è questo il paradosso, dovrà rimanere all’interno di una coalizione, ché con il 20-25% non può aspirare al governo in forma autonoma. L’alternativa resta quella di consolidare l’asse con il M5s, dando vita in modo più stabile e duraturo a una inedita forma di populismo di governo anti-sistema.
Il Movimento 5 stelle ha in qualche misura il problema speculare. Per una formazione fondata sul rifiuto strutturale della negoziazione, delle alleanze e dell’accesso al governo in forma autonoma, rinunciare alla formazione di un esecutivo monocolore è una sonora smentita della linea tenuta per anni. Il che non rappresenta un rischio in sé, ma comporta la necessità di tenere insieme la componente riformista, quella rivoluzionaria e soprattutto convincere gli iscritti e gli elettori della necessità ed inevitabile bontà del cambio di rotta.
Lega e M5s hanno deciso di provare a governare assieme. Scelta in realtà soppesata e pianificata almeno due anni prime delle elezioni, come riportato da esponenti di primo piano del M5s. A prescindere dagli esiti futuri di questa querelle le due espressioni del disagio elettorale (o della voglia di cambiamento, a seconda della lettura che si intende dare) rappresentate da Lega e 5 stelle faranno fatica non solo a governare assieme ma anche a ricomporre le istanze di cambiamento avanzate dagli elettori in una direzione unitaria sul piano sociale e territoriale. Se è vero che al Nord la Lega è riuscita a intercettare una parte importante dell’elettorato grillino (si vedano le analisi dell’Istituto Cattaneo e di Itanes, enti di ricerca di cui gli autori sono ricercatori), al Sud il M5s rappresenta un argine per ora invalicabile che impedisce al leghismo di farsi progetto realmente nazionale. A prescindere dalla comune critica all’Unione Europea dei burocrati, all’immigrazione presuntamente incontrollata o alle favoleggiate caste della vecchia politica, Lega e Movimento 5 stelle ottengono successi separati e proseguono per conto proprio. Le mappe dei collegi emersi dal voto del marzo 2018, nella loro nettezza cromatica, consegnano la fotografia di un Paese spaccato in due dalla protesta: il Nord aggrappato allo sciovinismo leghista per difendere posizioni di vantaggio relativo e il Sud che demanda al ribellismo a 5 stelle la speranza di neo-mediazione politica.
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