Il neocolonialismo è una questione seria, non uno spot elettorale

30 Gennaio 2019 /

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di Alessandro Canella
La questione del neocolonialismo in Africa esiste, ma non riguarda solo la Francia e non si limita alla moneta. Molteplici sono gli interessi e i condizionamenti occidentali e una valutazione seria passa attraverso la profondità dell’analisi, non attraverso uno spot elettorale a favore di telecamere per ragioni di equilibri e alleanze europei.
Sta facendo ancora discutere l’uscita di Alessandro Di Battista, rilanciata poi dal vicepremier Luigi Di Maio, sulle politiche neocoloniali francesi, in particolare sul Franco Cfa. Da un lato si è registrata in Italia una levata di scudi filomacroniana, ad opera di quotidiani mainstream, alcuni esponenti della politica uscita sconfitta dalle elezioni del 4 marzo 2018 ed alcuni economisti. Dall’altro una difesa per così dire antisistema, anche in ambienti che un tempo furono della sinistra radicale e che comunque non sono automaticamente riconducibili alla base pentastellata.
Penso che per la comprensione della questione occorra distinguere il merito dal metodo. E purtroppo in questo caso, come in molti altri della politica attuale, il metodo è diventato centrale per un’analisi corretta della vicenda. Un argomento così serio come le politiche neocoloniali di molte potenze globali (non solo la Francia) in Africa è finito nel tritacarne del marketing elettorale in vista delle elezioni europee.

Il modo con cui il M5S ha sollevato il caso – con un’uscita televisiva e scenografica (la banconota agitata), senza argomentazioni, approfondimenti, denunce e analisi – porta ad avere il forte sospetto che, più che il merito della questione, c’entrino gli assetti, gli equilibri e le alleanze europee. In realtà si tratta di una tecnica e un’attitudine già rodate nell’universo grillino: intercettare un tema sentito in un determinato ambiente, quindi foriero di consensi, ed agitarlo in modo superficiale, senza averlo studiato né averlo fatto davvero proprio, allo scopo di allargare la platea di coloro che arrivano a pensare “beh, però il M5S non ha tutti i torti”.
È successo già con altre questioni: la Tap e gli F35 ne sono due esempi perfetti perché dimostrano come le rispettive materie non siano state realmente studiate, ma solo agitate a scopi elettorali. Una volta al governo, nella sala di comando, i grillini hanno registrato su quei due temi altrettante figuracce, non potendo mantenere le promesse elettorali, proprio perché queste ultime non erano fondate sull’analisi approfondita delle questioni.
L’unico effetto che questa tecnica propagandistica ottiene è polarizzare le reazioni della base facendo apparire il sostegno al movimento più ampio del reale. Definire quello di Di Battista e Di Maio alla Francia un attacco, significa inimicarsi non solo la base grillina, ma anche quella fetta provvisoria e specifica di consenso intercettata dal tema.
Ecco che nella semplificazione sterile del dibattito pubblico, criticare l’uscita strumentale ed elettoralistica del M5S significa – automaticamente – essere apologeti di Macron e del colonialismo francese. Una forma di manicheismo preoccupante, che non rende giustizia alla verità: il neocolonialismo esiste, è un problema serio e proprio per questo bisogna comprenderlo e spiegarlo bene.
Detto questo, nel merito della questione non si può dire che non esistano nuove forme di colonialismo in Africa. Ma ad esserne protagonista, purtroppo, non è soltanto la Francia. Il tema del franco Cfa e del predominio francese sui Paesi francofoni dell’Africa, sollevata oggi dagli esponenti pentastellati, in realtà non è nuova. Se ne parlò già in occasione della guerra in Libia nel 2011, quando il presidente francese era Nicolas Sarkozy, al punto che la testata Nigrizia ipotizzò che la questione monetaria fosse alla base del conflitto stesso. Sul tema siamo tornati anche noi oggi, grazie ad un ricco approfondimento curato dal nostro collaboratore Elias Deliolanes.
Accanto alle politiche della Francia, però, troviamo altri importanti attori internazionali ad aver messo le mani sul continente africano. Emirati Arabi Uniti e Cina, ad esempio, sono da tempo impegnati nel land grabbing, l’accaparramento di terra, indicata da più parti come l’oro del futuro, allo scopo di controllare il mercato dei biocarburanti, la produzione di cibo ed altri settori strategici dell’economia.
Il pulpito dell’Italia, del resto, non è dei migliori. Non è un caso che il colosso energetico italiano Eni, infatti, sia a processo per una maxi-tangente che avrebbe pagato per l’aggiudicazione del blocco petrolifero OPL 245 in Nigeria. La stessa Eni, inoltre, è stata portata a processo da una tribù nigeriana per un incidente petrolifero che ha inquinato i terreni sul delta del Niger , la cui entità potrebbe essere stata minimizzata dalla compagnia stessa. E che dire, allora, dell’azienda italiana Tampieri Financial Group Spa, che ha affittato 20mila ettari nella riserva di Ndiael in Senegal e ostacola l’accesso alle fonti idriche e ai pascoli a 40 villaggi abitati da comunità autoctone?
Se il derby delle politiche coloniali deve giocarsi tra Italia e Francia, dunque, la partita non è già decisa. Del resto, i due Paesi sembrano contendersi il primato a chi fa peggio sulla questione migratoria e ciò avviene già sui rispettivi suoli. È giusto, infatti, non presentare in modo alternativo le posizioni e le politiche dei due Paesi, con la Francia dal volto umanitario e accogliente e l’Italia cattiva, dal momento che le pratiche utilizzate sono molto simili: respingimenti illegittimi, violenze e frontiere chiuse.
Il tema dell’emigrazione dall’Africa e dell’immigrazione in Europa, in particolare, è quello dove si sono registrati negli ultimi anni gli atteggiamenti più apertamente neocoloniali da parte di tutta Europa. I Paesi dell’Ue non si sono fatti scrupoli a rimpatriare alcuni migranti, tra cui anche richiedenti asilo, in Paesi retti da dittatori accusati di genocidio e crimini contro l’umanità, come in Sudan . Accordi indicibili il cui unico scopo era quello di fermare i flussi migratori, senza badare troppo al rispetto dei diritti umani. Accordi che prevedono la realizzazione di campi e centri che assomigliano più a lager, come in Libia, e dove fermare i migranti in transito, come in Niger e in Ciad.
Per fare ciò, la politica europea è arrivata addirittura a distrarre fondi dalla cooperazione internazionale, che dovrebbe servire per quel “aiutiamoli a casa loro” bipartisan, da utilizzare invece nel pattugliamento in chiave anti-migratoria. Il tutto senza considerare che i gruppi terroristici che operano in Africa e in Medio Oriente, e le guerre che hanno dichiarato, sono conseguenza dei disastri prodotti dall’Occidente .
Gli elementi di cui tenere conto nell’analizzare il neocolonialismo, in particolare in relazione alla pressione migratoria, sono molteplici e riguardano sia le politiche monetarie, che altri fattori dell’economia e dell’imposizione di istituti, come il Fondo Monetario Internazionale, ma anche i conflitti e l’instabilità politica indotta in Africa. La materia, dunque, è complessa e merita di essere analizzata e denunciata nel dettaglio, con inchieste giornalistiche, studi accademici e serie iniziative politiche. Non di certo con boutade elettoralistiche.
Questo articolo apparso su Radio Città Fujiko il 23 gennaio 2019

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