di Silvia Napoli
Che al Teatro dell’Elfo, ci si diverta ancora, nonostante il quasi mezzo secolo di vita della compagnia, oggi impresa sociale, accresciuta in dimensioni, responsabilità e funzioni, pare un dato indiscutibile. Ci si diverte in quel senso peculiare di rilanciare e riqualificare qualsiasi situazione si abiti, innovando, includendo, estendendo, sperimentando, tuttavia fedeli a una cifra stilistica ben riconoscibile e a una squadra che vince spesso (probabilmente sua l’aggiudicatura dell’UBU per la categoria spettacolo dell’anno 2018, con Afghanistan-Il Grande gioco-enduring Freedom) e dunque non si cambia. Al massimo in seno al nucleo fondativo si può verificare una separazione consensuale come fu negli anni Ottanta rispetto a Gabriele Salvatores, che si scoprì una vocazione di cineasta.
L’humus fecondo, a dispetto delle lamentose e ingenerose riletture storiche che affliggono la Cultura del nostro Paese, è quello della Milano sessantottina, già capitale morale e produttiva d’Italia, anche europea prima dell’Europa dell’euro e prima degli anni dell’economia drogata, bevuta e divorata che sappiamo.
Potremmo in fondo affermare che se oggi l’Elfo riesce a tenere insieme una sorta di profilo di lotta e di governo, ovvero di istituzione teatrale e sperimentazione, come la mission aziendale recita, lo si deve alla sua vocazione tutt’altro che minoritaria, al suo pensarsi in grande e mai periferici, anche quando si stava nel cinema dismesso, né famigliola, a dispetto di alcuni rapporti parentali forti interni alla compagine creativa, né setta che “è” tendenza o modello.
Forse l’idea che ispira oggi più che mai l’indistruttibile sodalizio Bruni-Decapitani, attori, registi, capocomici, impresari, è quella del servizio reso alla Comunità e questo si evidenzia nella resa multifunzione delle diverse sale del nuoco complesso teatrale di Corso Buenos Aires, comprensive di caffetteria ristorante nell’equilibrio dialettico tra individualità di spicco e collettivo, tra generazioni diverse di interpreti e soprattutto nel lavoro incessante non tanto di talent scout, quanto di traduttori e ri-trasmettitori di un vasto patrimonio drammaturgico di area anglofona che non può limitarsi ai pur riproposti e amatissimi Shakespeare, Williams, Miller, ma deve guardare al presente di nomi spigolosi e da noi misconosciuti, che affrontano temi socialmente sensibili.
Il minimalismo ombelicale non interessa peraltro i nostri, né le grandi questioni proposte vengono affrontate come concetti, ma sempre come narrazioni corali e grandi appassionanti dibattiti da agorà dribblando elegantemente suggestioni sia filmiche che televisive. Sempre molto chiaro dev’essere che ci si trovi a teatro, sia che si parli della rovinosa caduta del Presidente Nixon, sia che si narri la pandemia da Hiv nella comunità gay di New York, sia, come nel caso in questione, che si tenti l’ardua impresa di tessere una sorta di complesso kilim con la storia controversa di un paio di secoli di vicende afgane. Uno dei paesi più enigmatici del mondo, cartina al tornasole delle innumeri debolezze e aporie etiche occidentali, diviene letteralmente teatro di un grande gioco di ruolo a geometrie geopolitiche variabili, secondo dieci narrazioni letterario-drammaturgiche diverse, spartite in due blocchi temporali che quel punto di s-vista occidentale, laico, illuminista e a tratti illuminato cerca disperatamente di rappresentare.
Ma la materia è incandescente e qualsiasi dato di realtà sembra imprendibile sia con gli strumenti del dominio militare e tecnologico, sia con i ricatti,, più che le mediazioni diplomatiche, sia con la buona volontà dei cooperanti, dell’ONU e delle agenzie governative.
Soprattutto in discussione è il tema di quelle che si vorrebbe come missioni di pace, ma che si risolvono quasi sempre come imponderabili carneficine, come pure il tema del relativismo culturale, davvero difficile da praticare in condizioni di guerra. Dall’ottocento ad arrivare alla soglia dei giorni nostri Afghanistan da un lato sembra la quintessenza della cosiddetta “espressione geografica”, dall’altro un luogo viceversa fortemente connotato in maniera identitaria anche se in modo frammentato e per noi totalmente incomprensibile.
Lo spettacolo è la rielaborazione per le platee italiane di The great game: Afghanistan, uno spettacolo commissionato e prodotto per il Tricycle theatre di Londra giusto nel 2009, che segna anche il limen temporale in cui è calata l’azione scenica. Uno spettacolo dunque nato per essere nel fuoco dell’attualità e che quindi per noi, periferia dei dominanti, afflitti comunque a nostra volta da logiche patriarcali, familiste e di sudditanza politica, oltreché da ritardi culturali, assume contorni necessariamente più riflessivi circa una condizione particolare di crocevia e di snodo di interessi e appetiti che certamente ci riguarda storicamente.
Alla fine poco importa che i personaggi marcatamente british del patchwork di situazioni, si pongano sempre retoricamente come sorta di dr Livingstone della civilizzazione e i soldati yankee siano portatori del patetismo da sindrome del Vietnam. Poiché si sa che gli eventi storici si producono una prima volta in tragedia e in seguito in farsa, ci sarebbe da meditare su uno slogan movimentista di tanti anni orsono che inneggiava alla creazione di cento Vietnam: forse proprio cosi è stato, ma questi vietnam di oggi, sono pilotati da signori della guerra in grado investire valori in missili tali da risanare ipoteticamente, fior di bilanci statali e se il soldato Ryan qualcuno lo porterà sempre a casa, i mille vietnam accesi per il mondo, portano solo ad un annientamento di civiltà e dignità la popolazione comune, resa incapace di progettare un futuro purchessia.
Questo il sottotesto inscritto nell’ultimo episodio, a firma non a caso femminile, in cui i vinti della Storia, giovani tutti, ragazze, militi di leva da fronti opposti della barricata, anche se formalmente alleati contro i talebani, che nel corso dello spettacolo si pongono come specchio nero della nostra incapacità di assicurare certezza di legge e criterio morale, si ritrovano in una sorta di paradossale remake en plen air del A porte chiuse sartriano. sono morti senza riscatto e senza pace perché il loro inferno sono sicuramente gli Altri da sé, ma senza possibilità di una precisa identificazione.
Forse questa livella globale, infine della maratona, che certo non stanca lo spettatore nonostante le piu di sei ore richieste per vedere entrambi i format dello spettacolo, è anche un tantino retorica, ma drammaturgicamente funziona e ci conduce verso quel sentimento di Pietas universale che certo i classici conoscevano, praticavano e trasmettevano come antidoto alla Ferocia dei dispositivi di Potere.
Bene comunque ha fatto ERT fondazione insieme con il Teatro stabile di Napoli a produrre questo lavoro che certamente spicca per il coraggio di contribuire a dare vigorose pennellate per una sorta di implicito affresco di civiltà da tempo al centro delle passioni dell’Elfo, ensemble cosi milanese da essere internazionale.
Lo spettacolo è in tournée un po’ in tutta Italia ora nella veste Grande gioco o nella veste Libertà duratura, ma nelle piazze Ert si può vedere nella sua interezza spiazzante e certamente non consolatoria: sicuramente una convinzione che i nostri giorni post tutto hanno eroso, è quella del Tempo grande scultore, per dirla con Yourcenar o per dirla in modalità pop, che il tempo sia dalla nostra parte o aggiusti qualcosa. Gli eventi che si svolgono sul palco sono appunto scanditi cronologicamente, ma infine sono racchiusi in una sorta di eterno ritorno di figure di vittime e carnefici, tale per cui un ciclo si compie senza che venga pronunciata la parola fine.