di Maria Mantello
Il 15 luglio 1938, il Manifesto degli scienziati razzisti o Manifesto della razza, faceva il suo pubblico esordio su Il Giornale d’Italia, che lo pubblicava anonimo in prima pagina sotto il titolo: Il fascismo e i problemi della razza, con questa introduzione: «Un gruppo di studiosi fascisti, docenti delle Università italiane e sotto l’egida del Ministero della cultura popolare ha fissato nei seguenti termini quella che è la posizione del fascismo nei confronti dei problemi della razza».
A seguire il testo, che dopo avere inanellato una sequela di corbellerie anche storiche sull’incontaminata stirpe italica, arrivava a proclamare l’esistenza di «una pura razza italiana». Pertanto continuava: «è tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti», ed è necessario «additare agli italiani un modello fisico e soprattutto psicologico di razza umana che per i suoi caratteri puramente europei si stacca da tutte le razze extra europee, questo vuol dire elevare l’italiano ad un ideale di superiore coscienza di se stesso e di maggiore responsabilità».
E subito dopo si enunciava che «gli ebrei non appartengono alla razza italiana», inneggiando al divieto di matrimoni misti, perché altrimenti «il carattere puramente europeo degli italiani viene alterato dall’incrocio con qualsiasi razza extra-europea e portatrice di una civiltà diversa dalla millenaria civiltà degli ariani». Gli ebrei rappresentavano meno dell’1/1000 dell’intera popolazione, ma la “questione ebraica” fu elevata a dovere supremo dell’Italia fascista.
Voluto fortemente da Mussolini, quel proclama in dieci punti travestiti da scienza, apriva ufficialmente la campagna d’odio antisemita, funzionale a creare il consenso di massa alle Leggi razziali che sarebbero state emanate qualche mese dopo. I nomi dei dieci «studiosi fascisti» che avevano fatto «gruppo» per dare l’alibi della “scienza” al decalogo razzista, erano resi noti dieci giorni dopo su La Gazzetta del Popolo del 25 luglio, che riportava un comunicato del segretario del PNF Achille Storace che li elencava con titoli accademici al seguito, elogiandone «la precisione e la concisione delle tesi».
Dieci i punti del Manifesto. Dieci i giorni per presentarli gli italiani. Dieci gli “scienziati”. Un caso questa ricorrenza del numero 10? O forse un fatto ricercato e voluto dal delirio di onnipotenza fascista per porre il proprio razzismo come Decalogo assoluto, primigenio?
Ma torniamo ai nomi dei dieci firmatari del Manifesto della razza: Guido Landra (il materiale scrivano del testo), assistente di antropologia all’Università di Roma; Lino Businco, assistente di patologia generale all’Università di Roma; Lidio Cipriani, docente incaricato di antropologia all’Università di Firenze; Arturo Donaggio, direttore della clinica neuropsichiatrica dell’Università di Bologna; Leone Franzí, assistente nella clinica pediatrica dell’Università di Milano; Nicola Pende, direttore dell’Istituto di patologia medica dell’Università di Roma; Marcello Ricci, assistente di zoologia all’Università di Roma; Franco Savorgnan, docente di Demografia all’Università di Roma e presidente dell’Istituto centrale di statistica; Sabato Visco, direttore dell’Istituto di fisiologia generale dell’Università di Roma e dell’Istituto nazionale di biologia presso il Consiglio nazionale delle ricerche; Edoardo Zavattari, direttore dell’Istituto di zoologia dell’Università di Roma. Personaggi per lo più sconosciuti, con qualche nome noto per far macchia, tipo Pende.
A quei dieci, di firmatari in carriera se ne aggiunsero molti altri. E non è un caso che i primi provvedimenti di espulsione degli ebrei interessarono da subito il mondo accademico, consentendo a fidi fascisti, di occupare «per meriti speciali», le cattedre di docenti del calibro di Enrico Fermi, Bruno Pontecorvo, Attilio Momigliano, Enrica Calabresi, Edoardo Volterra, Rodolfo Mondolfo, Bruno Segré… e tanti altri ancora.
Nicola Pende, firma di peso sul Manifesto degli scienziati razzisti, dopo il 1945 sostenne di essersene dissociato fin dal 5 ottobre 1938, attraverso la rivista Vita Universitaria, su cui però non c’è traccia di questo. Ma sempre Nicola Pende a dieci giorni da quel 5 ottobre del 1938, riconfermava il suo antisemitismo in un discorso tenuto il 15 ottobre 1938 presso l’Istituto di cultura fascista di Cremona, in cui affermava «la necessità di evitare il matrimonio con individui di stirpe semitica, come sono gli ebrei, i quali non appartengono alla progenie romano-italica, e soprattutto dal lato spirituale, differiscono profondamente dalla forma mentis della nostra razza».
Il razzismo incardinato nella forma mentis di cotanti “scienziati”, allegramente propagava la propria sintomatologia virale, che dalla discriminazione e persecuzione sarebbe diventata caccia all’ebreo da inviare ai campi di sterminio nazisti col collaborazionismo di quei repubblichini di Salò, di cui in tempi recenti qualcuno (forma mentis?) dai banchi della presidenza della Camera della Repubblica italiana, ha detto di comprendere le ragioni.
La forma mentis razzista il fascismo la dava per connaturata alla politica del regime. E Benito Mussolini fin dal 1921 al Congresso del Partito Fascista, affermava: «Il Fascismo si preoccupi del problema della razza: i fascisti devono preoccuparsi della salute della razza, con la quale si fa la storia».
La forma mentis del razzismo fascista si snodava nella rivendicazione di una sua autonomia e specificità, nel nesso stato nazione razza. Un razzismo spiritual-biologico-nazionale, che identificava l’italiano col fascista.
Pertanto, quando la persecuzione politica aveva ridotto al silenzio (assassinando, imprigionando, esiliando) le scomode opposizioni, rimaneva ancora un corpo estraneo, l’ebreo, che una particolare legislazione avrebbe provveduto a discriminare e perseguitare. Le leggi razziali del 1938, dunque, vanno considerate come il logico approdo dell’eliminazione di ogni pluralismo. Sono il culmine di una guerra totale: – all’interno dello Stato, contro i suoi cittadini non considerati per diversi aspetti “buoni fascisti”; – contro gli altri Stati nella presunzione di doverli assoggettare ideologicamente o territorialmente a sé; – contro gli ebrei – il bersaglio più semplice per compattare nella stirpe italico-fascista supposta, attingendo al repertorio dell’indottrinamento cattolico-antiebraico.
Un repertorio sedimentato per secoli, a cui il fascismo attinge. E diviene il complotto giudaico bolscevico massonico che da “Civiltà cattolica” ai romanzi di Papini e alla letteratura d’appendice, giustifica la persecuzione prima e l’eliminazione fisica degli ebrei poi. Un abbraccio tra cattolicesimo e nazionalismo che rinforza il carattere spiritual-biologico del razzismo fascista, che trasforma elementi antropologici e scelte religiose, in fatto ereditario, in una questione di razza, dove la spiritualità religiosa coincide col popolo. Un popolo fascista e cattolico, col sigillo del Concordato nel 1929.
In Italia il Fascismo si è sempre collocato e strutturato in una strumentale continuità storica della stirpe romano-italica, di cui esso rappresenterebbe l’approdo evolutivo. E dove la matrice cattolica ha costituito il formidabile collante a cui l’ebreo resta alieno, minaccia per la società italiana che per questo lo deve espellere, in quanto corpo estraneo. Straniero. E non è casuale che la “questione ebraica” è affidata a Ciano, il genero di Mussolini che nel 1936 è stato nominato Ministro degli Esteri. Tutto coordinato, tutto programmato.
Il 5 agosto 1938 esce il primo numero della volgare rivista La difesa della razza, destinata a seminare odio e paure. Diretta da Telesio Interlandi, che già aveva diretto Il Tevere, e inaugurato la collana Biblioteca della difesa della razza con un suo scritto dall’emblematico titolo, Contra Iudaeos (1938). Nel comitato di redazione della Difesa della Razza figuravano Guido Landra e altri firmatari del Manifesto degli scienziati razzisti. Capo redattore era Giorgio Almirante. La difesa della razza diviene il punto di riferimento di tutte le menzogne razziste. Dove bersagli preferiti sono ovviamente gli ebrei, ma anche i neri e i meticci.
Con la proclamazione dell’impero in Etiopia il regime aveva introdotto tutta una serie di norme che andavano dal divieto delle unioni matrimoniali con gli indigeni (RDL, 19-4-1937, n°880), a quello di riconoscere i figli nati da queste unioni, i quali non potevano frequentare scuole, né risiedere in collegi o pensionati (Legge 13-5-1940, n° 822 – Norme relative ai meticci). Nella così detta Africa italiana, poi, dal 1937 era stato introdotto un sistema di vera e propria segregazione della popolazione, che lo stesso Himler, il capo delle SS era andato a visitare per trarne utili insegnamenti.
Con le leggi razziali del 1938 è la volta degli ebrei. Si inizia il 22 agosto 1938 con il loro Censimento. A seguire i Decreti firmati dal re Vittorio Emanuele III e dal suo primo ministro Benito Mussolini: Il 7 settembre agli ebrei stranieri viene intimato di lasciare i territori dell’Impero entro sei mesi. La cittadinanza è revocata a quanti soggiornino in Italia da dopo il primo gennaio 1919.
Ma l’obiettivo strategico della discriminazione è la scuola, dove il solerte ministro Giuseppe Bottai, che aveva occupato nel 1930 la cattedra di Diritto Corporativo all’Università di Pisa senza aver superato nessun concorso, ma con la formula fascista dei meriti speciali, ancor prima che i Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista del 5 settembre 1938 entrassero in vigore, si preoccuperà di individuare gli ebrei per vietarne l’iscrizione, nonché di rendere l’insegnamento del razzismo obbiettivo interdisciplinare di cui ogni docente doveva rendere conto ai dirigenti scolastici, e questi al Ministro.
Nella scuola l’epurazione fu capillare. Finanche le note dei libri di testo non potevano citare autori ebrei. Una commissione preposta alla «bonifica libraria» era stata nominata dal 12 settembre del 1938. Nelle singole scuole inoltre, solerti presidi istituirono commissioni interne per segnalare docenti, alunni, personale di segreteria e ausiliario che per qualche errore fosse stato omesso dagli elenchi ufficiali.
Il 17 novembre 1938 era emanato il provvedimento cardine sulla difesa della razza, che investiva tutti gli ambiti della società. Dal 1° luglio 1939, il razzismo sarebbe entrato a pieno titolo anche nel Codice Civile dello Stato fascista, che recitava: «La capacità giuridica si acquista al momento della nascita. Le limitazioni alla capacità giuridica derivanti dall’appartenenza a determinate razze sono stabilite da leggi speciali».
Tra il ‘38 e il ’42, le leggi razziali diverranno sempre più restrittive, per la loro puntualissima applicazione, cui si aggiunge tutta una serie di prescrizioni amministrative e circolari applicative. Agli ebrei si arriva a proibire: la concessione di licenze di pesca, la detenzione di riserve di caccia, la pubblicazione degli avvisi mortuari sui giornali, la presenza dei loro nomi sugli elenchi telefonici, il possesso di apparecchi radio, la villeggiatura, l’accesso a biblioteche pubbliche, a circoli culturali e sportivi…
Insomma cassati dalla società, all’insegna dell’ordine: «Impedire ogni ingerenza giudaica nei vari settori della vita italiana». Dichiarati gli ebrei nemici, dalla persecuzione nei diritti, Mussolini passava all’ipotesi di segregazione. Il 26 maggio del 1940, quando l’entrata in guerra per l’Italia è imminente (la dichiarazione di guerra è del 10 giugno), il Ministro Buffarini-Guidi scriveva al capo di polizia, Bocchini, la seguente nota: «Il duce desidera che si preparino dei campi di concentramento anche per gli ebrei, in caso di guerra».
E campi di concentramento, anche con tanto di forno crematorio ci furono anche in Italia. In totale gli italiani ebrei deportati sono stati 6.746. Di essi 5.916 i deceduti, di cui 303 in patria per maltrattamenti e suicidi.
Questo articolo è stato pubblicato da Micromega Online il 18 luglio 2018