Così i social hanno stravolto la politica

12 Giugno 2018 /

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di Vincenzo Vita
È stata presentata nei giorni scorsi a Roma, presso la Fondazione Basso, un’importante ricerca su «Persuasori social trasparenza e democrazia nelle campagne elettorali digitali», curata dal Nexa Center for Internet & Society del Politecnico di Torino, dal Centro per la riforma dello stato e dalla Fondazione P&R.
Il comitato di indirizzo del progetto è costituito da Juan Carlos De Martin, Giulio De Petra e Roberto Polillo, mentre il laboratorio ha avuto come coordinatori Fabio Chiusi, Antonio Santangelo e Francesco Marchianò. Il documento tratteggia, sulla scorta di contributi forniti dagli stakeholder e attraverso interviste individuali effettuate dal team del progetto (Punto Zero), le novità delle campagne elettorali dell’era digitale. L’età «post-mediatica», vale a dire quella seguita alla stagione della comunicazione tradizionale.
Quando una politica più forte si rifletteva nel cuore dei mezzi analogici: determinati nel tempo e nello spazio, unidirezionali e rivolti a pubblici «generalisti». La rivoluzione «fredda» della rete e della connessione permanente ha radicalmente cambiato l’ordine degli addendi. Dal consumo massificato, alla persuasione personalizzata.

I cittadini diventano veri e propri corpi di sperimentazione di forme invasive di manipolazione, rese possibili dalla scia di tracce che ognuno di noi – come l’assassino per Agatha Christie – rilascia continuamente, formando un profilo da fantascienza.
Noi non conosciamo lo specchio digitale che ci riguarda, ma Facebook, Google o Amazon invece sì. La personalizzazione ha cambiato di segno: da tecnica di marketing commerciale utile per venderci alla pubblicità, la rete si è trasformata in incubatore di stili e di attitudini, di flussi di opinioni: politica-propaganda allo stato puro.
Il caso di Cambridge Analytica è noto e lo stesso proprietario di Facebook che ha venduto milioni di utenti alla società di consulenza è stato costretto – almeno in apparenza – ad abbassare un po’ la cresta. Ma, annota il rapporto, ben prima che scoppiasse lo scandalo il direttore della campagna digitale di Trump, Brad Pascale, si vantava di produrre 50-60 mila varianti di messaggi pubblicitari sui social. In molti casi studiate sulla base delle caratteristiche dedicate, in altri volte ad incrementare il non-voto laddove l’orientamento fosse a favore dei democratici.
Le tattiche di manipolazione e disinformazione hanno avuto un ruolo nelle elezioni di almeno 17 paesi nel mondo, scrive il rapporto citando Freedom House. E poi, senza dietrismi, si intravvede un certo lavorio degli ambienti del Cremlino. E pure dell’ex consigliere della Casa Bianca Bannon, del resto assai prolifico di esternazioni.
La vittoria di 5Stelle e Lega era annunciata. L’utilizzo delle fake news (al di là dell’impatto reale, sopravvalutato) è potenziato dai «dark ads», la pubblicità oscura ovvero quella che vedono solo i diretti interessati. Così, il fenomeno dei social non va associato frettolosamente alle culture populiste. Il merito del progetto è di indurre alla riflessione scientifica, non accedendo agli estremi delle tifoserie dei «bot» e delle tastiere «virali».
Infine, alcune ipotesi di lavoro. Servono pure in Italia (il mondo si muove) tutele democratiche, a cominciare da aggiornate normative antitrust, tese a mettere limiti all’ascesa degli Over The Top, ad aggiornare la legislazione sulla par condicio elettorale (qui il rapporto è troppo incerto e vago), ad imporre la trasparenza nell’età degli algoritmi.
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano Il manifesto il 6 giugno 2018

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