di Silvia Napoli
Un titolo allusivo e tutto da sciogliere, ci introduce nel mondo erratico di Gabriele Battaglia, certamente talentuoso giornalista free lance, autore ugualmente freelance della propria stessa biografia che intravediamo come in filigrana attraverso i molteplici incontri che la costellano. Un reporter che ha quasi l’aria di essere li per caso e invece è mosso da intenzioni ben precise che ci vengono dichiarate da subito, nella amara ricostruzione dei fatti di Genova che fanno da prologo al libro.
Dunque un reporter con un passato, dal quale fuggire per provare a capire di più e che rimane come in certi romanzi americani invischiato nella stessa materia della sua investigazione: il volto bifronte della globalizzazione, nei suoi aspetti più contraddittori e meno indagati. Un tema di fondo che forse non si erano dati con queste caratteristiche, tutti gli autori antecedenti e anche recenti di saggistica, reportage e fiction di viaggi che vi possono venire in mente, italiani o stranieri e che, specialmente e anche con grande successo si sono dedicati e dedicate all’Estremo Oriente.
Il volume esce per Milieu edizioni, piccola casa editrice indipendente e agguerrita con una mission curiosa da declinare, quella di gettare uno sguardo su devianze e marginalità per recuperare, si direbbe, un certo romantico ribellismo cosi difficile da rintracciare se non in certi gialli marsigliesi o di Carlotto, a fronte di un panorama sociopolitico attuale che ha come skyline una guerra per scaramucce tra bande telematiche.
Un tema cosi pervasivo delle nostre esistenze come la globalizzazione, viene evidentemente considerato in un certo senso come una sorta di attitudine criminale, o quantomeno come una tendenza che favorisce aspetti di dubbia legalità non certo modellata su schemi idealistici, ma foriera altresì in prospettiva di narrazioni laterali molto interessanti. Narrazioni che evidentemente mettono a dura prova la convenzione dello status giornalistico di supposto distacco supra partes.
Gabriele Battaglia, scrive regolarmente articoli e reportage in particolare dalla Cina, essendo di stanza a Pechino ormai da parecchi anni:articoli che sono anche molto documentati e circostanziati da dati ufficiali e ufficiosi, in mezzo ai quali sa destreggiarsi ormai molto bene con lucidità e senso del contesto, che come sappiamo dai remoti fasti nostrani di libretti rossi ormai buoni per le installazioni d’arte, poesie liriche e quant’altro, è dato soprattutto dalla capacità di entrare o meno in sintonia con gli aspetti linguistici di una cultura.
E la cultura di quello che in fondo è tutt’ora un impero, è fortemente impregnata dalla simbologia linguistica, cosi adatta ad esprimere più che l’identità individuale, la trama sottintesa dei rapporti sociali. Ben prima che da noi si scoprissero e diventassero mantra le leggi della Comunicazione, è stato sempre particolarmente vero che in Cina chi ha il controllo del linguaggio, ha il Potere in mano.
In questo libro, Gabriele Battaglia, anche se informazioni, statistiche e percentuali non mancano, per introdurci nel complicato universo della globalizzazione pilotata dall’alto, sceglie di applicare quello che oggi sembra essere l’unico dettato trincea possibile dove attestarsi per scampare a tutti gli ismi vecchi e nuovi: quel prima le persone, che è più facile a dirsi che farsi e che potrebbe dare adito anche a derive discutibili.
Derive e secche che il nostro autore, narratore non per caso in prima persona, sceglie di attraversare con baldanza ed empatia, ma senza compromissioni, guidato com’è da una bussola interiore ben orientata, non tanto su un pallido sol dell’avvenire quanto su una fortissima spinta euristica a cercare e trovare la quadra più difficile di sempre, il punto di equilibrio tra uguaglianza e libertà.
Non bisogna lasciarsi ingannare dai sapienti tocchi di civetteria da expat, smagato e sradicato che ogni tanto il nostro fa occhieggiare nel corso delle 220 e passa pagine del libro che sarebbe in qualche modo scorretto dire che si legge d’un fiato, perché invece ha bisogno di una lettura e rilettura attenta e puntuale: in qualche modo non dichiarato il soggetto, ben attento a non sovrapporsi all’oggetto, si mette però in mezzo coltivando il dubbio e la volontà di sapere.
Da Pechino alle lontane province del sud, fino alle steppe mongole sulle orme di Gengis Kahn, in un pendolarismo puntiglioso in cerca di aria nuova in senso letterale e metaforico, le locuzioni più frequenti sono mi chiedo perché, voglio capire e comprendiamo due cose:che il sottoporre a verifica ciò che si è notato e documentato in prima istanza è il vero daimon che anima le spossanti peregrinazioni del nostro e che, grande è la responsabilità avvertita di essere in loco e di poter riferire a noi, in ordine a domande che tutti possiamo porci da qui.
Cosa è diventata la Cina, dove va il colosso d’Oriente che si avvia ad essere la prima potenza mondiale, come si vive in questo paese di megalopoli nel post di qualcosa che non sappiamo definire piu, svagati nel ricordo delle nuotate epiche del grande timoniere in acque gelide e già ampiamente luride, perché tutto in questo grande paese ha una storia millenaria, le giacchette tutte uguali, il taichi in strada, il massacro di Tien an men, la superstar dissenziente che seduce le platee da cineforum europee.
Consapevole del fatto che le versioni ufficiali in Cina non si possono mai verificare, e che tutto si trasforma in sfida tra cliché ideologici(ma non è cosi, un poco anche qui?), bisogna allora aggirare il problema e scegliere storie trasversali da raccontare, lasciando le conclusioni a chi legge. Bisogna raccontare pezzetti e costruire un paziente collage. Fuori dal mito dell’inchiesta, ma senza, direi, nessuno spaesamento da occidentale in visita, o atteggiamento ispirato da guru di qualcosa neppure le numerose volte in cui Battaglia si confronta con il confucianesimo e altre pratiche che parlano di sacralità quasi animista e in cui il contatto con la maestosità naturale appena accennato, lascia senza fiato.
Nella ricchezza di storie di vita che l’autore squaderna con un linguaggio disinvolto, perché, come sembra sottolineare, la lunga frequentazione della curva milanista vuole i suoi crediti, bisogna scordarsi un preciso andamento diacronico, perché appunto quello che conta è tornare sulle stesse domande con possibili risposte diverse Cosi, in questa rapsodia di volti, attitudini, destini,c’è proprio di tutto, o almeno quello che non sapevamo neppure come chiedere, noi che non siamo uomini di mondo o avventurosi expats, picari di oggi, ptremmo dire.
Se vogliamo capirci però in qualche modo, abbiamo il dovere di diventare tutti uomini e donne di questi numerosi mondi: la Cina, cosi prismatica, rappresenta un affascinante mondo parallelo, in cui ci sono non solo docks e container, fabbriche iperproduttive, mito sadomasochistico della Apple, shopping compulsivo, frenesia e schizofrenia urbanistico-demografica, l’inarrestabile moto delle migrazioni interne, il rewinddellr narrative consumistiche degli anni d’oro dell’opulenza occidentale. ma anche attivisti culturali, start ups, associazionismo culturale, velleità artistiche di ogni fatta, turismo di massa e di nicchia.
Si incrina cosi qualche nostra granitica certezza sulla incisività dei meccanismi censori cinesi, dato che potremmo affermare che se Atene piange, Sparta non ride e storie di gentrificazione selvaggia e marginalizzazione culturale in nome del liberismo ci riguardano tanto da vicino. Dunque il quesito sottinteso ma non troppo, chi ha copiato chi, chi ha il copyright di questo mondo dilatato ipertrofico di merci, di dati, identità in divenire famiglie liquide, ragazzini spoliticizzati, afflitti da nuove dipendenze, cui pure il Confucianesimo tradizionale non fa da sponda.
Infine, piu che amor omnia vincit, dovremmo dire pecunia non olet e il denaro sembra essereil grande collante e lubrificante sociale che ottunde percezione delle differenze e disuguaglianze:denaro acccumulato, inseguito, desiderato, sperato, perduto e ritrovato, miraggio da nord a sud, conquista responsabile per l’altra metà del Cielo, sulla quale con pudore Battaglia non azzarda facili analisi ma esprime sempre una ammirazione a tratti incantata.
Tuttavia, afflitte da varie immaturità, non mancano lotte in questa Cina che comunque è lecito continuare a definire del dopo Mao, stante l’arte tutta orientale, equivalente e inversa al nostro gattopardismo di cambiare tutto senza rinnegare nulla, cosi che Mao, salvaguardato, rispolverato, davvero diventa un parametro definitorio di un prima e di un poi tutto da comprendere ma tenuto saldamente in pugno dal socialismo con caratteristiche cinesi.
Se, come nota Battaglia, il primo latita, le seconde abbondano nel grande alveo di un partito unico da 60 milioni di iscritti, che se molti sono pronti a immaginare in futuro in auto dissolvimento, nessuno comunque se lo configura in competizione di libere elezioni, delle quali per ora nessuno sente la mancanza.
Del resto, dovremmo chiederci, se anche il libro correttamente non pone all’ordine del giorno questa questione, quanto non siano logorati gli strumenti delle nostre esangui democrazie rappresentative.
In questa cornice di storie dove c’è cosi tanta storia, ma che come in tutti i sogni, gli sfasamenti temporali sono all’ordine del giorno, ci sta che prima di una sorta di catarsi mongola conclusiva, il libro ci riservi alla fine le sue pagine più dure e ficcanti: le testimonianze di alcune guardie rosse di ieri, il grande rimosso della Rivoluzione culturale, una rimozione guidata del Partito, che, manco a dirlo, la liquida come un buco di dieci anni di fallimenti economici in una narrazione di sostanziale sviluppo. Della Repubblica popolare. Sono le pagine più coinvolgenti e respingenti insieme, perché chiamano in causa direttamente le nostre false conoscenze e coscienze. Sono microstorie si, di rara potenza e in linea assai con la mission editoriale di Milieu, una sorta di lunga carrellata su un infinito diario da teppisti, che è anche un romanzo di formazione giovanile.
Mentre mi suona in testa, chissa perché il saccente e intransigente pseudo maoismo da appartamento della Chinoise di Godard, (recentemente ripescato al cinema, preludio a celebrazioni sessantottino-anniversaristiche), in forma di un insistente ritornello Mao-Mao, considero che questo libro parla tanto di noi e ci fa da specchio per questo inverno del nostro scontento: in fondo siamo tutti, almeno quelli che credono in una possibile trasformazione, in esilio da noi stessi.
E penso anche che questo titolo, non sia sarcastico, un buonanotte liquidatorio, insomma,vagamente alla Sordi, ma un congedo in punta di piedi:Il Socialismo, forse è solo dormiente, con caratteristiche che potremmo anche tornare a chiamare internazionaliste.