di Fabio Mengali
Ogni volta che vedi l’orrore girare per le città del tuo continente, degli altri paesi a Est o a Ovest dell’Europa che siano, un retro-pensiero si affaccia sempre sul tuo conscio per dirti: “sono comunque eventi lontani, dove stai sei al sicuro”. Basta quel briciolo di riflessione in più per renderti conto del contrario, nonostante una marea di fattori aumenti o diminuisca la probabilità che ciò accada in una città piuttosto che un’altra. Pensiamo davvero che anni di guerre esterne, segregazione razziale e discriminazione etnica interne non abbiano ricadute collaterali dappertutto?
Non lo nasconderò, anche a costo di rivelare una mia certa ingenuità: Barcellona era una delle ultime città in cui mi sarei immaginato che un attacco jihadista potesse avere luogo. Ovviamente, non sono così sciocco da pensare che una sorta di bolla protettiva ed ermetica la rendesse immune: a quanto sembra negli ultimi anni, e in particolare negli ultimi mesi, in Catalogna sono stati sventati diversi nuclei affiliati al fascismo nero della jihad. L’allerta posta sulla capitale catalana dai servizi segreti e dalle autorità della pubblica sicurezza era a livelli alti da diverso tempo. Eppure, conoscendo meglio Barcellona e la Catalogna dopo aver iniziato a viverci, ero convinto che la griglia interpretativa usata per analizzare i fenomeni della cosiddetta “radicalizzazione” dei cittadini europei verso il fascismo nero potesse valere.
Da quando è iniziata tre anni fa l’onda lunga del terrorismo la rivendicazione di Daesh e degli affiliati all’ideologia mortifera ha colpito i luoghi della socialità e della produzione delle città, piccole o metropoli che fossero, in particolare dei paesi del Nord Europa (senza contare, ovviamente, tutti quelli accaduti al di fuori del vecchio continente).
La storia coloniale di alcuni di essi, come Francia e Gran Bretagna; la stratificazione sociale edificata sulla linea del colore della pelle visibile dai posti di lavoro fino alla stessa conformazione urbana; la posizione simbolica dei cittadini di prima, seconda e terza generazione cresciuti senza mai raggiungere gli stessi diritti materiali dei loro vicini, anche nel caso in cui non provengano da famiglie necessariamente proletarie o povere: tutto ciò ha fatto da detonatore con la capillarità e la potenza di un immaginario politico lanciato da Al-Baghdadi, ispiratore di una liberazione del rancore storico che diventa nuovo criterio di giustizia per la quale gli “infedeli” non si troveranno semplicemente al posto dei cittadini non-bianchi di oggi, ma verranno trucidati e puniti.
In aggiunta, come provavo a scrivere all’incirca un anno fa, la struttura stessa delle relazioni sociali presenti mediamente (non si può certo fare una legge universale) nelle metropoli del nord Europa intensifica l’individualizzazione, la solitudine, la competizione che svilisce meccanismi di solidarietà e di reciprocità, provocando disaffiliazione e terreno fertile per la conformazione agli ideali del terrore. Non possiamo poi tralasciare il pesante ruolo che, ad esempio, Paesi come la Germania, la Francia e l’Inghilterra hanno assunto nelle missioni internazionali in Medio-Oriente, cause di morte e distruzione di milioni di persone arabe e musulmane.
Questa volta è stata colpita Barcellona, un emblema della metropoli mediterranea e europea: meticcia, multiculturale, attraversata da flussi temporanei di persone e da gente che da ogni angolo del mondo vuole viverci perché le sue strade offrono modi di vita che si adattano a qualsiasi individuo; una città che continua a lottare per mantenere, a fronte della rendita predatoria del mercato immobiliare e dei grandi investitori, il tratto popolare dei suoi quartieri. E per popolare non bisogna intendere catalano per diritto di sangue, basta farsi un giro per il Raval o per il Gotico per avere un’immagine fedele di quello che è Barcellona.
Barcellona è la città dove le realtà catalane hanno portato in piazza solo alcuni mesi fa cinquecentomila persone per forzare il governo di Madrid ad estendere le strutture e i numeri dell’accoglienza dei rifugiati. Il luogo scelto dagli attentatori è stata l’iper-turistica zona della Rambla, il camminamento che prende nome proprio dall’arabo sul quale passano ogni giorno migliaia di persone dalle più disparate nazionalità. Più che punto nevralgico della socialità – obiettivo per esempio degli attentati di Parigi del 2015 e di Londra di qualche mese fa – la Rambla è espressione della Barcellona turistica, del passaggio mordace e estemporaneo dei visitatori che si apprestano ad arrivare da Plaça Catalunya fino al vecchio porto, fermandosi di tanto in tanto tra i negozi e i chioschi lungo la strada.
Lasciando da parte in questa sede tutte le contraddizioni che un modello urbano e di sviluppo di questo genere porta con sé, l’obiettivo della Rambla sembra indicare la chiara intenzione di colpire un simbolo della cultura europea e della sua attrattività internazionale. Un messaggio inequivocabile di odio profondo per tutti gli occidentali, come purtroppo stanno lì a dirci le svariate nazionalità delle vittime dell’attentato.
Alberto Negri sul Sole24Ore ci ricorda una caratteristica storico-culturale non secondaria per leggere e analizzare l’attentato di Barcellona. La Spagna è rimasta agli occhi dei jihadisti un territorio di conquista, anima un revanscismo viscerale per coloro che la vedono come l’antica Al Andalus, il regno arabo durato per secoli fino all’alba dell’età moderna. In più, la dominazione spagnola coloniale in Marocco rimbomba ancora oggi, soprattutto da parte dei marocchini abitanti dell’ex protettorato che vivono le ripercussioni degli anni di dominazione e una politica di chiusura delle frontiere alle migrazioni. Gli appartenenti alla cellula terroristica hanno tutti origini marocchine con cittadinanza spagnola o con un regolare permesso di soggiorno.
Insomma, colpire Barcellona trova da parte dei jihadisti tantissime ragioni ma è anche segno di discontinuità. È in tutto e per tutto un segno di inimicizia profonda per chi concepisce e vuole costruire una città la cui identità si compone di una mescolanza di origini e tradizioni.
In questi giorni il clima politico è attraversato da diverse correnti. La risposta dei cittadini e visitatori barcellonesi di venerdì mattina è stata una prova di coraggio e di determinazione: migliaia di persone hanno marciato lungo la Rambla per affermare una semplice equazione, ossia che non aver paura non significa solo non rinunciare alle proprie libertà dandola vinta al fascismo nero, non farsi accecare dal terrore dell’altro.
Se mai fosse stato poco chiaro, il corteo non autorizzato e convocato nel giro di pochissime ore del venerdì pomeriggio non ha lasciato dubbi. Centinaia di abitanti della Ciutat Vella hanno invaso la Rambla per sterilizzarla dalla presenza dei nazionalisti e xenofobi della Falange, accorsi a chiamare un presidio attestante l’incompatibilità alla radice tra islam e valori occidentali, cristiani, bianchi e spagnoli. Lo sparuto gruppo di fascisti, nonostante fossero difesi dai Mossos, si è dileguato dopo poco tempo.
Ciononostante, da più angoli dello spettro politico viene sputato veleno atto a diffondere una guerra etnica. Il direttore del Periodista Digitalha insinuato che l’attentato di Barcellona è stato la diretta conseguenza delle politiche di accoglienza dei “non ispanofoni”. Negli scorsi giorni scritti inneggianti all’islamofobia sono apparse a Siviglia e a Montblanc (Tarragona). Il coinvolgimento nella cellula terroristica dell’imam della moschea di Ripoll, che si suppone sia morto durante l’esplosione delle bombole di gas a Alcanar due giorni prima dell’attentato, ha scatenato le più barbare prese di posizione e diffidenza attorno alle comunità musulmane.
Anche per contrastare gli attacchi infuocati della peggior destra spagnola, le comunità musulmane catalane hanno deciso di lanciare per oggi – lunedì 21 agosto – una manifestazione in Plaça Catalunya contro il terrorismo. In ogni caso, gli abitanti musulmani e arabi di Barcellona, in quanto cittadini tanto quanto tutti gli altri, erano ben presenti in entrambi i momenti di piazza di venerdì. Fianco a fianco si potevano vedere musulmani, cristiani, atei, spagnoli, catalani, italiani, ecc…cittadini storici e temporanei.
Le comunità musulmane aderiranno anche alla manifestazione di sabato 26 agosto lanciata dall’Ayuntamiento di Ada Colau e dalla Generalitat per ribadire con ancora più forza quel potente “No Tinc Por”. Molte le realtà sociali e politiche che parteciperanno, anche se non mancano le critiche. La CUP, il partito e movimento della sinistra indipendentista catalana, ha detto tramite una delle sue parlamentari regionali che, se ci dovesse essere la presenza del re e di Rajoy, non aderirà al corteo. Del resto, il Capo del governo e il monarca non solo rappresentano la contraddizione delle guerre esterne e della vendita di armi ai primi fornitori dell’ISIS, ma fanno capo ad una frangia politica che ha, in modo scomposto, approfittato dell’attentato per parlare dei problemi politici di attualità.
I temi continuamente rimessi sul tavolo neanche ventiquattro ore dopo l’attentato sono stati l’indipendentismo e il referendum del primo ottobre a questo proposito. Dietro l’apertura del dibattito sta l’associazione tra indipendentismo e insufficienti risorse per gli apparati antiterroristici perché verrebbe a mancare il supporto dello Stato centrale. L’account twitter del Partido Popular di Alella (Catalogna) ha cinguettato poche ore dopo l’attentato che idee come l’indipendentismo si espongono anche a queste estreme conseguenze. Il giornalista di destra Hermann Tertsch ha invece scritto sullo stesso social che l’attentato non sarebbe altro che l’esasperazione del discorso “turismofobico” fatto proprio dalla CUP.
Le manifestazioni collettive degli scorsi giorni e gli spazi sociali aperti nei quartieri, soprattutto a Gracia dove avrebbe dovuto avere luogo la celeberrima Festa Mayor, hanno risposto quotidianamente al clima di razzismo, securitarismo e fobia generale con pratiche di solidarietà, mutualismo e socialità. Ma hanno anche ridato quel senso di sicurezza – quella vera, non quella presunta – che possono consegnare ai loro avventori quei luoghi in cui l’incontro, lo scambio e la condivisione formano il tessuto cittadino.
Individualmente siamo tutti esposti all’orrore e al terrore, che sia a livello cosciente o incosciente la mente va necessariamente a pensare all’eventualità di un altro attacco. La tensione degli ultimi giorni si poteva percepire nell’aria che si respirava, con episodi di attacco di panico collettivi vicino alla Rambla non appena si sentivano rumori sospetti o improvvisi movimenti della polizia. Presi uno a uno siamo tutti vulnerabili e propensi alla diffidenza, alla rivalità, a vedere nell’altro un potenziale nemico, in particolare se porta con sé quei tratti etnici carichi di pregiudizio storico e mediatico. Non è più possibile sottovalutare, o mettere sotto al tappeto, la potenza della narrazione mediatica in queste circostanze.
La quantità di fake news girate nelle ore dell’attentato sugli sviluppi della fuga dei terroristi, sulla loro origine; la viralità dei video in diretta dei singoli utenti con le immagini raccapriccianti delle scene dell’attacco rasenti la pornografia visiva; gli articoli che, se da una parte giustamente si focalizzano sulle indagini in corso, dall’altra sono avvolti da questa patina tra il sensazionalismo e l’emotivo senza provare ad analizzare le questioni politiche e sociali di fondo. Un individuo solo è inondato da tutto questo. E, alla meno peggio, dalla rassegnazione dell’ineluttabilità del terrore.
Una giovanissima studentessa francese del liceo in gita, rinchiusa per ore con me e altre decine di persone nella biblioteca comunale accanto alla Rambla (siamo stati chiusi ermeticamente dentro fino a quando la situazione non è stata dichiarato sicura), mi ha raccontato di aver visto la scena con i suoi occhi: era infatti accorsa a trovare rifugio con la scolaresca nella biblioteca nel momento in cui si è creata la fuga generale. Quando le ho detto che mi dispiaceva per quello che avevano dovuto vedere, mi ha risposto con un’alzata di spalle e un “c’est la vie”. Ho ripensato spesso a queste parole e alla paura che possono generare, perché rassegnarsi a ciò che si vede ogni giorno è sinonimo di accettazione dei rischi e dei pericoli di cui non abbiamo colpa noi, ma decenni di politiche scellerate.
Se Barcellona non vuole aver paura, se tutti noi non ci attestiamo al presente e vogliamo contribuire alla sua trasformazione, dobbiamo agire proprio in questi momenti. La sfida è epocale, ma le epoche stesse sono frutto delle sfide vinte o perse dagli uomini e dalle donne. Anche se nessuno può prevedere il futuro, sappiamo benissimo una cosa: che la sfida, per avere almeno la possibilità di essere vinta, deve essere assunta collettivamente. Noi non abbiamo paura, neppure di impegnarci a cambiare il tempo in cui viviamo.
Questo articolo è stato pubblicato da Global Project il 21 agosto 2017