Non una di meno: un nuovo movimento o un movimento nuovo

21 Giugno 2017 /

Condividi su


di Rosanna Marcodoppido
Un anno fa nasceva Non Una di Meno a partire da un appello a firma della rete romana Io decido e delle Associazioni nazionali Udi e DIRE. Arrivarono ben presto da tutta Italia adesioni entusiastiche di singole e di gruppi subito connessi tra loro grazie alle nuove tecnologie comunicative e a incontri che alcune di Io Decido realizzarono in varie città. Si è così man mano formato un vero e proprio movimento che in un anno ha dato vita alla grande manifestazione del 26 novembre a Roma, a tre assemblee nazionali, ad uno sciopero globale femminista e a numerosi eventi locali a volte correlati tra loro su cui per brevità non mi soffermo e per i quali rimando a siti e pagine facebook.
Intorno a questo movimento si è sviluppato un dibattito che ha rimesso al centro anche alcuni nodi da sempre presenti nelle pratiche discorsive del femminismo e che ha assunto non di rado toni particolarmente aspri, a mio avviso poco utili per la costruzione di un serio contrasto al tanto che resta del patriarcato. Nell’intento di fornire alcuni elementi di conoscenza di cui penso ci sia bisogno, provo a dare una mia parziale lettura di questa esperienza come soggetto da sempre attento ai mutamenti della realtà delle donne, con un sapere politico accumulato dentro l’Udi in tanti anni di femminismo. È opportuno cominciare dalle radici politiche forse meno note.

Nei primi mesi del 2014 a Roma vari collettivi femministi provenienti dall’esperienza delle occupazioni decisero di costituirsi in rete e assunsero il nome “Io Decido” mutuandolo dalle Spagnole che in quei giorni lottavano per la libertà di scelta in materia di procreazione. Alle prime assemblee costitutive andai anch’io, convinta che una frammentazione senza interlocuzione, da troppo tempo caratteristica del movimento delle donne, rappresenti una debolezza politica che non possiamo permetterci.
Erano quasi tutte giovani donne per le quali la classe era chiave di lettura consolidata mentre il genere restava sì ancorato al vissuto personale, ma con deboli radici teoriche e storiche: la scuola, dalla primaria all’università, continua a fornire infatti una cultura apparentemente neutra, ma di fatto costruita solo da uomini e dalla loro evidente misoginia. Segnate da esperienze di vita caratterizzate da precarietà ed esclusioni, queste giovani avevano comunque memoria delle donne venute prima, visto che si definivano femministe in controtendenza rispetto a molte loro coetanee.
Quello che in modo esplicito veniva messo al centro, come irrinunciabile riferimento al femminismo, era la pratica del partire da sé e la relazione tra donne fuori da meccanismi di potere; da qui l’importanza data ai momenti assembleari, unici luoghi delle decisioni. Un elemento assolutamente nuovo era la volontà di costruire un soggetto collettivo intersezionale, capace cioè di posizionarsi negli intrecci tra i molteplici aspetti della soggettività, al di fuori perciò dell’impianto binario proprio del pensiero maschile. Una critica serrata era rivolta in particolare al binarismo sessuale con il rifiuto dell’eterosessualità come norma, in raccordo con le lotte di lesbiche, gay, transessuali, bisessuali consolidatesi attorno al movimento Lgbt.
Altro dato rilevante era la consapevolezza che per cambiare la realtà occorra necessariamente occupare gli spazi pubblici con i propri corpi, la propria intelligenza, la propria creatività; nel corso di due anni sono stati organizzati cortei, performance, sit-in, flash-mob contro l’obiezione di coscienza di medici e farmacisti, per l’applicazione della 194 e il rilancio dei consultori. Il Policlinico Umberto Primo e l’ospedale San Camillo sono stati più volte attraversati con striscioni, volantini, slogan. Nessuna occasione è stata tralasciata per contrastare gli attacchi all’autodeterminazione provenienti da più parti e alcuni risultati si sono ottenuti, come la riapertura del “repartino” del Policlinico, chiuso da tempo perché l’unico medico non obiettore era andato in pensione.
Sono rimasta con loro, sempre, nonostante la differenza di età e di formazione politica, perché credo fermamente nella fecondità di uno scambio intergenerazionale senza gerarchie e stupide genuflessioni, dove il di più è da una parte ma anche dall’altra in quanto ogni vissuto ha in sé saperi preziosi. Sono rimasta perché ho visto finalmente riconnesse le parti scisse della mia storia politica di donna dell’Udi e femminista: emancipazione e libertà femminile, lotta per i diritti in nome dell’uguaglianza di opportunità e affermazione del valore della differenza risignificata al di fuori degli steccati patriarcali.
La lotta al patriarcato è a ben vedere un rifiuto netto del suo fondamento dualistico, che stravolge la realtà, rende impossibile la costruzione di alterità autentiche e finisce col generare inaccettabili forme di dominio. L’esistenza umana è al contrario luogo della molteplicità, dell’ambivalenza, della complessità, della contaminazione. Il femminismo per me è dentro questo scenario di verità: una ricerca faticosa sul senso libero della differenza sessuale nel mutare delle condizioni di vita, del contesto economico, sociale, politico e nelle nuove sfide aperte dalla ricerca scientifica e dall’innovazione tecnologica.
Il 29 maggio del 2016 a Roma ci fu un caso particolarmente efferato di femminicidio che ha sconvolto ancora una volta nel profondo le coscienze: una ragazza di 22 anni, Sara Di Pietrantonio, fu uccisa e bruciata dall’ex fidanzato. Come altre associazioni femminili, anche le donne di Io decido si recarono sul posto manifestando dolore, sdegno, vicinanza alla famiglia. Ma tutto questo non poteva bastare. Si sentiva forte l’urgenza di trovare modi nuovi per cercare di fermare una mattanza che in tutto il paese continuava con una cadenza impressionante, nonostante i tanti anni di impegno e di lotte delle donne e delle loro associazioni.
Nel 2012, ad esempio, l’Udi, che nel 2006 era stata la prima in Italia ad utilizzare il termine femminicidio, aveva promosso la Convenzione “No more” insieme ad associazioni come DiRe, Pangea, Casa Internazionale delle Donne, GiULiA; in due anni fu fatto un notevole lavoro per sensibilizzare l’opinione pubblica e impegnare le istituzioni sulla violenza maschile sulle donne e sulla sua pervasività in quanto dato culturale e non emergenziale, esito del millenario potere diseguale tra i generi. Era però da tempo sotto gli occhi di tutte la tendenza alla frammentazione per cui ciascuna realtà andava avanti per proprio conto con grande passione ma insufficiente incidenza sulla realtà.
Io decido perciò pensò di impegnasi per la costruzione di una rete nazionale la più ampia possibile e si rivolse in primo luogo a Udi e Dire: insieme fu scritto e diffuso un appello. Anche questa volta il nome scelto “Non una di meno” testimonia l’attenzione verso le lotte delle donne di altre parti del mondo, in questo caso il movimento “Ni una menos” delle Argentine. L’obiettivo dichiarato era la stesura di un Piano nazionale femminista contro la violenza maschile sulle donne costruito dal basso attraverso una pratica politica orizzontale. Furono annunciati i due primi appuntamenti nazionali: il corteo del 26 novembre e l’assemblea del 27.
A Roma, come in altre città, il lavoro preparatorio si articolò in otto tavoli tematici con giuriste, filosofe, operatrici dei Centri antiviolenza, giornaliste, ginecologhe e donne delle associazioni attraverso incontri pubblici dislocati in alcuni quartieri, uno proprio davanti alla sede del Ministero della Salute in concomitanza col contestato fertility day.
Si è in questo modo sviluppato un ampio confronto su forme e contenuti e alla fine si decise di non chiudere alla presenza di quei pochi uomini che erano stati agli incontri e, più in generale, a tutti quelli che si riconoscevano nell’appello e ne condividevano analisi e proposte; il corteo sarebbe stato comunque aperto dalle donne, le sole titolari dell’evento. Su questa presenza degli uomini si è aperto il primo conflitto dentro e fuori il movimento: da una parte c’era chi sosteneva che il separatismo sempre e ovunque è pratica femminista imprescindibile, dall’altra chi riteneva giusto e utile dare spazio ai mutamenti del maschile prodotti proprio dal femminismo.
Su questo ho già ampiamente detto in un articolo pubblicato su Noi Donne on line il 4 febbraio scorso. Quello che mi preme ribadire è che il separatismo è nato come strategia di difesa, luogo al riparo dallo sguardo svalutante degli uomini nella costruzione della propria soggettività, l’unica forma politica possibile quando i compagni, me li ricordo bene, erano presenze ingombranti, pronti a prevaricare e strumentalizzare, certi di rappresentare una superiorità ampiamente riconosciuta e a loro dire evidente. Oggi il modello maschile tradizionale non ha più la stessa credibilità culturale e politica e di evidente c’è da un lato, chiarissima, l’improponibilità della inferiorità delle donne e dall’altro la presa di distanza di vari uomini dal patriarcato vecchio e nuovo.
Uomini che riconoscono come prezioso anche per loro il valore di quello che le donne hanno costruito per sé in termini di libertà e dignità e cercano di mettere a critica radicale la costruzione storica della mascolinità con il suo portato di orrori e violenza. Molte e molti ormai sanno bene come il femminismo sia in grado di fornire chiavi di lettura potenti e necessarie nel decodificare le radici più nascoste della violenza patriarcale sia all’interno delle relazioni interpersonali che dentro la struttura subdola del capitalismo globale e neoliberista. Quest’ultimo, non dimentichiamolo, su un concetto consumistico e narcisistico di libertà, sta togliendo autodeterminazione e soggettività a tutt* noi. Per quanto mi riguarda ritengo sempre centrale la relazione tra donne. Non sto mettendo in discussione il separatismo, ma solo ed esclusivamente la sua pretesa di rappresentare ancora oggi l’unica pratica di relazione politica possibile per la libertà femminile.
Questo lungo anno è stato caratterizzato da una attività frenetica che ha richiesto un impegno quotidiano in ogni suo passaggio, come quando si è deciso di aderire alla proposta delle donne polacche di organizzare per l’8 marzo in tutto il mondo una giornata di sciopero femminista; sono iniziati gli incontri con attiviste argentine, polacche, messicane, spagnole e ci sono state iniziative di sostegno alle loro lotte; nello stesso tempo è proseguito il lavoro nei tavoli e nelle affollate assemblee cittadine soprattutto sul significato da dare ad uno sciopero inedito, che riconnettesse sfera pubblica e sfera privata, produzione e riproduzione, cioè l’interezza della vita.
Significativo è stato il contatto con i sindacati a cui è stato chiesto, visto che in Italia solo loro possono farlo, di indire lo sciopero sui contenuti e le motivazioni del movimento. La Cgil non ha capito purtroppo la forza dirompente di questa proposta, al contrario di vari suoi iscritti e iscritte, e così solo alcune sigle sindacali di base lo hanno indetto. Non è stato facile, ma il risultato è stato quasi ovunque all’altezza dei desideri e della fatica.
L’8 marzo 2017 infatti è stata una giornata intensa dappertutto, dalla mattina alla sera, con la partecipazione in varie forme allo sciopero, dibattiti, performance, mostre, cortei. Nei giorni seguenti è poi ripreso il lavoro in vista dell’assemblea nazionale del 22 e 23 aprile durante la quale, nel corso di una riflessione molto articolata e complessa, sono emersi ulteriori elementi di differenziazione: sul rapporto con le istituzioni, viste da alcune come il male assoluto; sulla necessità espressa da una larga parte delle presenti ma non condivisa da tutte, di costruire forme flessibili di coordinamento tra una assemblea e l’altra per dare seguito alle decisioni condivise; sulla prostituzione rispetto alla quale tutte si sono dette contrarie a qualsiasi forma di sfruttamento ma secondo alcune essa è sempre una forma di schiavitù di stampo patriarcale da combattere e stigmatizzare e secondo altre può essere anche esito di una libera scelta che però non deve rappresentare motivo di discriminazioni e violenze; sull’obiezione di coscienza nei confronti della 194 tra chi propone che si debba abolire del tutto il diritto all’obiezione e chi è convinta che per far applicare la legge non è necessario abolire un diritto: esiste già da ora la possibilità concreta non solo di denunciare in quanto illegali le strutture pubbliche che non applicano le 194, ma anche di rendere operativo in tutte le Regioni, per il personale medico e infermieristico che obietta, il divieto di accesso alle strutture preposte alla applicazione della legge.
Dunque tante differenti posizioni all’interno di Nudm, ma personalmente non ritengo che esse possano rappresentare una seria minaccia alla sua esistenza e durata. Non c’è nessuno spazio collettivo, femminismi compresi, che non sia attraversato da differenze e conflitti e la scommessa è saperli governare politicamente evitando la costruzione della coppia amico/nemico che come la storia e l’attualità ci insegnano serve solo ad azzoppare la politica e le relazioni. Vedo invece due tipi di rischio che provo brevemente ad esplicitare.
L’intersezionalità è un posizionamento che si avvale di categorie interpretative plurime, capaci di dare senso ai vari aspetti della vita e alle molteplici appartenenze: Nudm sarà capace di mantenere la centralità rivoluzionaria del femminismo e delle sue categorie? Ancora: l’intersezionalità richiede non solo la capacità di elaborare un pensiero complesso, ma anche forme politiche capaci di accoglierlo in ogni sua parte.
Nudm, realtà eterogenea, inclusiva, policentrica, saprà trovarle? Io mi auguro di sì e spero che questo avvenga in tempi brevi, anche per organizzare al meglio, nell’immediato, la stesura di un piano antiviolenza che tenga conto della mole di elaborazioni e proposte provenienti dai tavoli e dalle assemblee: ho visto troppe volte tra le donne e non solo andare improvvisamente sprecata una ricchezza faticosamente accumulata. La scommessa è alta, ne sono consapevole, ne siamo consapevoli tutt* e c’è bisogno del contributo responsabile di ciascuna e ciascuno. Non Una Di Meno ha secondo me strumenti e passione politica per continuare ad essere un movimento nuovo e non semplicemente un nuovo movimento tra i tanti.
Questo articolo è stato pubblicato dal Inchiesta online il 20 giugno 2017 riprendendolo dal sito Noi donne

Aiutaci a diffondere il giornalismo libero e indipendente.

Articoli correlati