di Lorenzo Guadagnucci
L’immagine del cadavere di Aylan Kurdi, il bimbo di tre anni con la maglietta rossa riverso sulla spiaggia turca di Bodrum, nel settembre 2015 diede uno scossone all’opinione pubblica europea, diventando una foto-simbolo di questi anni. È uno scatto che racconta la tragedia dei profughi e dei migranti, e mette a nudo la crisi profonda delle democrazie europee, che assistono inerti da molti anni alla morte di migliaia e migliaia di Aylan, asserendo di vivere una “emergenza immigrazione” all’interno dei singoli Paesi, ben più importante – evidentemente – della sorte dei tanti profughi e migranti che annegano nel Mediterraneo.
Un’altra foto, nelle settimane scorse, ha fatto capolina nei media, richiamando fortemente la vicenda di Aylan. Stavolta la maglietta è gialla e la spiaggia è in estremo Oriente e lungo un fiume, ma sempre di un bimbo si tratta, di appena sedici mesi. Mohammed Shohayet è annegato insieme alla mamma, al fratellino di tre anni e a uno zio (il padre si è salvato) mentre tentava di attraversare il fiume Naf, che separa lo Stato di Rakhine, in Birmania, dal Bangladesh, verso il quale la famigliola era diretta. Gli Shohayet appartengono alla minoranza dei Rohingya, sottoposta da decenni in Birmania a forme di oppressione e violenza che sfiorano ormai il genocidio.
Se la foto di Aylan Kurdi scioccò molti europei mostrando un aspetto invisibile della cosiddetta emergenza immigrazione, l’immagine del piccolo Mohammed ha sortito un duplice effetto: ha dato un’eco più vasta alla tragica sorte del popolo Rohingya (di origine musulmana in un Paese a maggioranza buddista) e ha creato un corto circuito etico, culturale e politico per il silenzio e la responsabilità del governo birmano, guidato (come ministra degli Esteri ma leader di fatto) da una figura nota e celebrata quale paladina dei diritti umani, Aung San Suu Kyi, per decenni oppositrice del regime militare e premiata nel 1991 con il Nobel per la pace.
Un gruppo di altri Nobel per la Pace (da Muhammad Yunus a Desmond Tutu e Shirin Ebadi) è arrivato a rivolgere un accorato appello ad Aung San Suu Kyi, chiedendole di garantire i diritti di cittadinanza alla minoranza Rohingya. Le immagini dei due bambini annegati a distanza di sedici mesi sono il simbolo di una crisi profonda della cultura dei diritti umani. In un caso, i Paesi che ne hanno coltivato e messo a fuoco la nozione -le democrazie occidentali- si rivelano a dir poco indifferenti quando si trovano alle prese con cittadini di altri Paesi; nell’altro, un’icona della lotta contro l’oppressione, arrivata al potere, si rivela impotente, se non peggio, di fronte ad abusi gravissimi.
L’idea che i diritti fondamentali della persona siano universali e preminenti rispetto alla ragion di Stato si rivela sempre più fragile. Viene in mente l’obiezione sollevata dal regime cinese alle critiche per le violazioni praticate nel Paese. Secondo Pechino “l’ideologia dei diritti umani”, per com’è concepita in ambito sovranazionale, è una creatura dell’Occidente, mentre dev’esserci una “via asiatica”, che riconosca le specificità storiche e culturali di quella parte di mondo (la prevalenza della dimensione collettiva su quella individuale, il ruolo degli Stati-nazione, la diversa “fase di sviluppo”). Queste obiezioni sono state regolarmente respinte in nome dell’universalità dei diritti della persona.
Il dubbio è però che si stia affermando anche una paradossale “via occidentale ai diritti umani”, coi diritti sempre meno tutelati e sempre meno universali.
Questo articolo è stato pubblicato da Altreconomia il 31 gennaio 2017