L'insostenibile sostenibilità ambientale dell'Ilva

9 Febbraio 2017 /

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di Antonia Battaglia
“Produrre acciaio pulito” is the new black. È il nuovo mantra della politica italiana. Una frase che piace molto, a tutti. Perché secondo il Governo e vari esponenti delle Istituzioni, l’Ilva va rilanciata, ma allo stesso tempo si annuncia la cassa integrazione per cinquemila lavoratori, ma si era anche detto che l’Ilva era in ripresa. Tutto ed il contrario di tutto.
Cosa accade in realtà è semplice. L’Ilva non produce più di quanto le sia richiesto, la legge di mercato le impone delle battute di arresto, la sovra capacità mondiale la punisce ed i debiti si accumulano. La ripresa dell’Ilva, in realtà, è molto parziale, si potrebbe dire fittizia. E se non ci fossero stati gli aiuti di Stato, l’Ilva sarebbe defunta da tempo.
La cassa integrazione di cinquemila operai è una manovra disperata, che mostra la fragilità della situazione economica dello stabilimento e acuisce l’agonia della città di Taranto. Cinquemila famiglie in difficoltà, un dramma sociale che si aggiunge ai già gravissimi problemi sanitari ed ambientali. E allora ci si chiede ancora una volta se non sia arrivato il momento del coraggio.
Il momento di accettare che lo stabilimento è strutturalmente vetusto, non all’avanguardia con gli altri stabilimenti siderurgici mondiali, che non produce acciaio di qualità e che non riesce ad inserirsi in quel mercato che richiede prodotti di alta qualità, scivolando sempre di più in un mercato commerciale dove la concorrenza è agguerrita e dove i margini economici sono molto esigui. E che, soprattutto, causa gravi danni alla salute umana.

“Produrre acciaio pulito” a Taranto è un ossimoro. Chi conosce bene l’Ilva e la situazione in tutti i suoi aspetti non potrebbe mai fare un’affermazione del genere. Andrebbe cambiato il ciclo produttivo. Per rimettere l’Ilva in sesto ci vorrebbero investimenti molto importanti e non è certo il miliardo del patteggiamento Ilva a poter risolvere una crisi strutturale di questa envergure.
Siamo, dunque, al momento della decisione. La politica avisée, come è accaduto in altri Paesi europei nei decenni passati (Regno Unito, Germania, Lussemburgo, Francia per citarne solo alcuni) organizzerebbe un gruppo di lavoro, comitato, commissione speciale, chiamatelo come preferite: un gruppo di persone che abbia come oggetto il bene della res pubblica in tutti i suoi aspetti. Le finalità sarebbero due: una di livello locale (ridare aria e un futuro a Taranto) e una di livello strategico-nazionale (smettere di perdere miliardi in un’azienda sulla china del fallimento).
Ci vuole coraggio. Un coraggio che forse una nuova classe politica potrebbe avere, non questa. Che si decreti per l’Ilva lo smantellamento delle vestigia di vittoriana memoria e si cominci a progettare il futuro.
Abbiamo due alternative davanti a noi.

  • 1. Continuare a pompare soldi pubblici in un’azienda in perdita, che continuerà a perdere per fattori non solo endogeni (la sua scarsa competitività) ma anche esogeni (crisi mondiale, sovrapproduzione, politiche internazionali in materia di dazi). Continuare ad aspettare che il tempo passi mentre i tarantini si ammalano e muoiono e gli operai perdono il lavoro. Ditemi dove è il beneficio.
  • 2. Far fronte alla realtà. Creare il futuro di Taranto, andando ad incidere su tutta la Regione Puglia, con un vigoroso piano di smantellamento dell’Ilva, di occupazione degli operai nelle bonifiche del sito e della città. Che si lavori alla progettazione ambiziosa di un modello di sviluppo sociale ed economico. Basta guardare al passato. Il futuro esiste. Altrove è arrivato, ha cambiato il tessuto di intere regioni europee e ridato prosperità a migliaia di persone. Si può ripartire dagli assets disponibili sul territorio jonico con progetti di innovazione sociale, spazi aperte per le imprese, investimenti a tutto campo di varia natura. Progetti e materia prima ce ne sono tanti. Basterebbe mettere insieme le migliori competenze e disegnare una mappa di lavoro. In modo sinergico, con un filo conduttore e con un punto di arrivo chiaro.

Chi beneficerebbe del cambio di paradigma? Tutti. I cittadini ed i lavoratori di Taranto. Il Sud tutto. Il Governo. Lo Stato. Per questo motivo, ci si chiede come faccia Massimo Mucchetti, Presidente della Commissione Industria del Senato, a scrivere sul suo blog che la cassa integrazione straordinaria per i quasi cinquemila dipendenti Ilva “è un dato che tenderei a non drammatizzare”. E poi continua, dicendosi convinto che l’obiettivo si possa raggiungere “soltanto se l’Ilva tornerà a produrre a pieno regime con un impatto ambientale sostenibile”.
Non esiste l’impatto ambientale sostenibile per l’Ilva con una produzione di 8 milioni di tonnellate. Lo hanno detto gli esperti, lo ha detto la Procura di Taranto che ha istruito un processo che è in corso, lo dice lo Studio Sentieri, lo dicono medici e lo dicono i dati dell’inquinamento: al momento attuale non esiste l’impatto ambientale sostenibile. E’ insostenibile, invece.
Basta guardare gli impianti siderurgici di importanti industrie mondiali. Noi non abbiamo ancora la copertura dei cumuli di minerale! Sostenibile cosa, se le immagini di slopping e fuoriuscita di fumi e polveri vengono documentate ogni giorno?
Secondo Mucchetti il vero punto di svolta sarà la scelta fra le due cordate, AcciaItalia (la NewCo guidata da Arvedi con Cdp, la Delfin di Del Vecchio e l’indiana Jindal) e Am Investco Italy (ArcelorMittal con Marcegaglia).
Come si fa con impianti così antichi, con la grave crisi mondiale dell’acciaio e soprattutto (ci scusiamo noi tarantini di esistere) con la gravità della situazione ambientale e sanitaria ormai sbandierata urbi et orbi a pensare ancora di poter produrre acciaio pulito in uno stabilimento come l’Ilva e ad affidare la sostenibilità ambientale ad un privato?
La propaganda politica non va più di moda.
Questo articolo è stato pubblicato su Micromega online il 3 febbraio 2017

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