di Claudio Cossu
Il caso triste dei malati curati per terra nei locali del pronto soccorso dell’ospedale Santa Maria della Pietà di Nola (Campania) ha destato orrore e sconcerto in tutto il Paese, addossando in una prima fase, tutte le responsabilità ai medici e ai dipendenti del quel presidio sanitario. Ma in seguito, con la riflessione e la ponderadezza che il caso esige, si è razionalmente compreso che la causa di tutto ciò va ricercata nella programmazione effettuata dallo Stato e dalle Regioni (Conferenza Stato-Regioni), ma soprattutto nei continui tagli, decisi in quella sede al Fondo sanitario nazionale.
Tali operazioni si riverberano, di conseguenza, sulle dotazioni dei vari presidi sanitari regionali e ai servizi offerti sul territorio che in tal modo non possono “decollare” mai. Come a Trieste e in tutto il Friuli Venezia Giulia, dove nonostante le edulcorate rassicurazioni della Giulia Maria Sandra Telesca (assessore regionale competente, pare), gli attuali 674 posti-letto saranno ulteriormente ridotti a 608 dalla riforma sanitaria regionale, anche se il rasserenante direttore Delli Quadri ha detto che si sarebbe opposto a tale mutilazione, nel consiglio comunale. Per ora, sono solo parole.
In un contesto in cui l’ospedale ha ormai perso la sua autonomia e rientra nella gestione globalizzante dell’azienda sanitaria, cui sono state unite anche le cliniche universitarie, in una bella, ridondante e ipertrofica sigla Asuits, nella volontà di risparmiare, e indurre i cittadini utenti, a rivolgersi al privato. Mirando ai servizi sul territorio non ancora predisposti adeguatamente, in maniera tale da sostituire le notevoli riduzioni della organizzazione tradizionale.
Tali servizi territoriali attualmente annaspano, peraltro, non sono ancora pronti, tout court, a subentrare in gran parte ai presidi sanitari. E i pronti soccorso sono bolge dantesche, non riescono ad affrontare le emergenze, presentano tempi di attesa di 8 o 9 ore e forse più per il paziente gettato in una barella, che attende cure e conforto d’ogni genere. I Cap (Centri di assistenza primaria), creati recentemente alla svelta quale supporto, si presentano come contenitori vuoti, senza una gestione medica-assistenziale effettuale.
Solo il Veneto – mi risulta – riesce ad affrontare adeguatamente l’attuale situazione. La legge di stabilità, per il 2016 ha infatti rideterminato il finanziamento del Ssn fissandolo in 111 miliardi di euro per tutte le regioni e le provincie autonome, finanziamento “inferiore a quanto precedentemente programmato”. Le risorse sono ora gestite dall’ente per la gestione dei servizi condivisi “Egas”, altra bella sigla, ma con il compito di trasferire dette risorse su “costi standard” e non più su base” storica”.
A tavolino, pertanto, non avendo una visione diretta e immediata delle esigenze effettive dell’utenza. Mi dispiace sposare una tesi che è della destra, ma questa è la triste realtà delle cose, nel microcosmo sanitario triestino. E non mi stupirei se un domani, con tali amputazioni e riduzioni, trovassimo una situazione non molto dissimile da quella di Nola anche da noi, nel Friuli Venezia Giulia e in particolare a Trieste.
Ma si devono pur costruire le grandi opere, la Tav, si deve pur finire la Salerno-Reggio Calabria (iniziata negli anni Sessanta), si deve pur andare in Afghanistan, si devono costruire portaerei e i costosissimi bombardieri F134. Un parà o un alpino in quelle terre costa, al giorno, senza dubbio, molto ma molto di più di un posto letto o di un’ambullanza. O no?