"Caffè amaro": la giovane Maria nella Sicilia fascista

16 Giugno 2016 /

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Caffè amaro di Simonetta Agnello Hornby
Caffè amaro di Simonetta Agnello Hornby
di Valeria Gandus
Dice che è stato il suo parto più lungo e faticoso. Che continuamente le si aprivano nuovi scenari, episodi storici da approfondire, oggetti da riconoscere e restituire. Così, dell’idea iniziale di raccontare la storia della sfortunata nonna Maria, segnata e oppressa da un matrimonio infelice, è rimasto solo il nome della protagonista. E un particolare tramandato in famiglia di un’abitudine della nonna: prendere il caffè senza nemmeno un grammo di zucchero. Ecco dunque Caffè amaro, l’ultimo, bellissimo romanzo di Simonetta Agnello Hornby (Feltrinelli).
Era dai tempi de La mennulara (il romanzo rivelazione d’esordio) o de La monaca (indimenticabile affresco risorgimentale) che la scrittrice siciliana trapiantata a Londra non disegnava un così felice personaggio femminile. Facendolo crescere di pagina in pagina e di anno in anno, in un periodo storico lungo e cruciale: quella parte del Novecento compresa fra la prima guerra mondiale e il secondo dopoguerra.
In una Sicilia afflitta da miseria, mafia e una classe dominante inetta e corrotta, dove pochi – fra questi il padre di Maria, avvocato socialista – osavano marciare in direzione ostinata e contraria, nascere donne significava, anche nelle famiglie più acculturate e benestanti, avere un solo scopo nella vita: trovare un marito, accudirlo, dotarlo di prole e vivere nell’obbedienza.

Questo sembra anche il destino di Maria quando, bellissima e appena quindicenne, viene adocchiata da Pietro, nobilotto charmant, che se ne innamora a prima vista e la chiede, la pretende in moglie, anche senza dote. Esattamente quello che accadde alla nonna dell’autrice. Ma le similitudini finiscono qui. Perché la Maria inventata da Hornby non ha nulla della sua sventurata nonna. Maria conosce l’amore, soprattutto quello carnale, attraverso questa unione con un uomo ricco, colto, affascinante e molto più grande di lei. Ma col tempo impara a conoscerne anche i limiti, le gravi mancanze, le dipendenze. Mentre cresce in lei la consapevolezza di amare, da sempre, un altro: Giosuè, quello che ha sempre considerato un fratello acquisito.
La trama, apparentemente melodrammatica, non deve trarre in inganno. Ciò che fa di Caffè amaro un gran romanzo, è altro: l’accurata ricostruzione storica, l’ambientazione famigliare e sociale, la cura e credibilità dei personaggi. Hornby evade dalla Sicilia, dove ancora una volta non può esimersi di ambientare le sue storie, per portarci in Africa, nelle colonie dove gli Italiani brava gente dicevano di portare civiltà e prosperità e perpetrarono invece crimini orrendi. Affronta il fascismo e le leggi razziali (Giosuè è ebreo).
E la guerra con il suo carico di violenza, paura, dolore. Infine, come dice lei, non dimentica mai di essere avvocato (condizione che la spinge a curare maniacalmente tutti i particolari) e dissemina il racconto di piccole perle “legali”, come quando fa redigere alla quindicenne Maria, sia pure solo verbalmente, un accordo prematrimoniale che le assicura un certo numero di diritti, fra i quali quello di avere a disposizione in ogni casa, per un numero concordato di ore, un pianoforte che le consenta di continuare a coltivare la sua passione per la musica. È una gran donna, quella che esce dalle pagine di Caffè amaro. Quasi come l’altra che l’ha inventata e raccontata.
Questo articolo è stato pubblicato sul FattoQuotidiano.it il 25 maggio 2016

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