America Latina: non era al riparo, qui la crisi ha colpito duro

13 Novembre 2015 /

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di Maurizio Matteuzzi
Ci sono stati tre o quattro anni, dopo lo scoppio della grande crisi economico-finanziaria partita dagli Stati Uniti nel 2008 con la bancarotta della banca Lehman Brothers, in cui sembrava che l’America latina, terra di uragani, fosse al riparo dall’uragano che stava squassando il resto del mondo, e che potesse continuare sulla strada della crescita (o addirittura della rinascita) economica e sociale avviata nel primo decennio del secolo XXI. Una pia illusione, molto naïve vista col senno di poi. Mondo globale, crisi globale.
L’1 gennaio 2015 la presidente “di sinistra” del Brasile Dilma Rousseff la prima cosa che ha fatto all’insediamento del suo secondo mandato è stata di nominare all’economia Joaquim Levy, un neo-liberista uscito dall’università di Chicago. Un “Chicago boy” che ha subito annunciato tagli alla spesa pubblica e programmi di aggiustamento fiscale. “Não há almoço grátis”, disse traducendo in portoghese una delle frasi celebri attribuita al nefasto guru del neo-liberismo, il professor Milton Friedman: “There is no free lunch”. Nel 2015 il Brasile è entrato in recessione (meno 2.4%), il real si è deprezzato del 60%, Dilma governa con “il programma dei conservatori” e per di più è a rischio di impeachment per via dell’enorme scandalo di corruzione in cui è coinvolta la Petrobras, la compagnia petrolifera statale.
Se il gigante soffre anche l’America latina soffre. Nel 2015 la crescita sarà solo dell’1-2%. O anche peggio, dello 0.5%. Praticamente si è fermata. L’Argentina è attesa da un problematico ballottaggio il 22 novembre, quando se la vedranno Daniel Scioli, il peronista candidato della presidente uscente Cristina Kirchner (candidato sì ma non troppo: misteri del peronismo), e Mauricio Macri, il “solito” miliardario entrato in politica con un proprio partito personale tipo Forza Italia. L’esaurimento del modello kirchnerista – consumi a tutto vapore e soya, terzo produttore mondiale, 25% dell’export -, l’inflazione, la corruzione, il blocco della crescita hanno spinto Macri, alimentando “l’entusiasmo degli investitori” e “la speranza” dell’immarcescibile Vargas Llosa.

Anche l’Ecuador di Rafael Correa è alle strette, per la caduta brutale del prezzo del petrolio (52% dell’export) che ha reso vicina la recessione e messo a rischio i programmi sociali, mentre si rafforzano le proteste delle opposizioni che, al contrario del Venezuela, non sono solo la vecchia e nuova destra. E Correa, il carismatico leader della “revolución ciudadana” e del movimento Alianza PAIS, eletto nel 2008 e nel 2013, è tentato dalla scorciatoia della “rielezione indefinita” attraverso un emendamento della sua costituzione.
Il Venezuela è l’anello più critico. Il presidente Nicolás Maduro e Diosdado Caballo, presidente dell’Assemblea nazionale, gli eredi di Hugo Chávez (morto nel 2013), non mostrano di avere il carisma e la capacità di proseguirne – e correggerne – il progetto politico. L’implacabile e ottusa ostilità USA (quell’Obama che dichiara il Venezuela “un pericolo per la sicurezza nazionale” e impone sanzioni economiche), il crollo del prezzo del petrolio, il clima perdurante di guerra interna, la scarsità di prodotti di prima necessità, la criminalità rampante, la mano dura contro l’opposizione, l’impossibilità-incapacità di creare un modello economico alternativo alla bonanza petrolifera, il boicottaggio, le astruse manovre sul cambio hanno creato un mix esplosivo.
Penuria (il 70% delle merci consumate nel paese è importato), recessione economica (meno 4%, o 8%), inflazione al 200% (con l’iper-inflazione dietro l’angolo) . Maduro minaccia di “radicalizzare la rivoluzione”. Studi della intelligence USA sostengono – e forse sperano – che il Venezuela sia “vicino al collasso e all’implosione”. Il 6 dicembre si voterà per il rinnovo dell’Assemblea nazionale e, secondo alcuni sondaggi, per la prima volta l’opposizione è in vantaggio. Si vedrà se il chavismo riuscirà a vincere ancora una volta come ha sempre fatto dal 1998. Ma anche in questo caso il problema sarà il dopo.
La situazione non è così critica ma non è buona anche in altri paesi, la Bolivia, l’Uruguay, il Perú , il Cile. Nella Bolivia di Evo Morales gli introiti dall’export del gas, l’oro bianco boliviano, sono caduti e lo stesso Evo ha accennato a una “incipiente” crisi economica. Ma l’economia, dopo la spettacolare crescita del 5% l’anno nell’ultima decade, non è in recessione ed Evo, a 10 anni dalla sua prima elezione alla presidenza, gode ancora di un massiccio appoggio popolare fra le masse indigene, e lavora anche lui per la “rielezione indefinita”: in pochi dubitano che voglia essere lui il presidente che il 6 agosto 2025 celebrerà il bicentenario dell’indipendenza.
Anche il Cile, il paese-modello del liberismo, risente della brusca caduta del prezzo del rame. Dopo il 5.8% degli anni ’10-‘12, quest’anno la crescita si fermerà al 2.3%. Per di più la socialista Michelle Bachelet sembra finalmente decisa a onorare il debito storico con il Cile anti-pinochettista: una nuova costituzione entro il 2017 al posto di quella scritta e imposta da Pinochet nel 1980; le riforme di educazione, fisco e lavoro, tutte eredità avvelenate della dittatura. Apriti cielo: “dal miracolo cileno alla delusione cilena”, sondaggi negativi al 75%, accuse di populismo.
Il Perú è il paese che più è cresciuto nell’arco di un decennio: oltre il 6% l’anno fra il 2004 e il 2014. Quest’anno le previsioni indicano una crescita dimezzata, intorno al 3%, per via degli effetti della crisi sulla “minería”, le risorse minerarie di cui il paese è straordinariamente ricco. Il presidente Ollanta Humala, un ex militare nazionalista, eletto nel 2006 e rieletto nel 2011 (alle elezioni dell’anno prossimo non potrà ripresentarsi ma sembra pronta una staffetta con la moglie Nadine) con un’aura vagamente social-democratica, si è presto disfatto delle sue alleanze e delle sue apparenze di sinistra. Il Perú è tornato a essere, o è rimasto, l’Eldorado delle grandi multinazionali della “minería”, che hanno avuto mano libera e moltiplicato i profitti. Il trionfo del modello estrattivista nudo e crudo senza neanche la foglia di fico del “progressismo estrattivista”.
L’Uruguay rientra nella schiera dei paesi “di sinistra” o quantomeno progressisti dell’America latina. Ma per lunghi tratti della sua storia è risultato troppo tranquillo per fare notizia, con il suo welfare garantito “dalla culla alla tomba” e la sua fiorente (e sospetta) attività finanziaria di “Svizzera dell’America latina”. Da tre mandati presidenziali si affida al Frente Amplio, la coalizione di centro-sinistra, e l’ha confermato anche nel voto del 2014. Senza scosse la vittoria del 2005 del socialista Tabaré Vázquez, dopo i governi di centro-destra apparentemente inamovibili e per la prima volta nella storia del paese.
Senza scosse (eccessive) nel 2010 il passaggio dal pallido Tabaré al pirotecnico Pepe Mujica, l’ex leader tupamaro che per una volta portò l’Uruguay sulle prime pagine dei media come il presidente che ha legalizzato l’aborto, i matrimoni gay e la marijuana; “il presidente più povero del mondo” che lasciava allo Stato per opere sociali oltre il 90% del suo appannaggio da 8000 euro al mese, che si muoveva in città con il suo “Maggiolino” Volkswagen del 1987 e continuava ad abitare nella sua piccola casa di campagna alla periferia di Montevideo. Senza scosse anche il ritorno alla presidenza nel 2015 di Tabaré, pur se personalmente contrario, in quanto cattolico, alle leggi su aborto, matrimoni gay e marijuana.
Bene o male la carne delle vacche e i servizi finanziari continuano a “tirare”, quest’anno la crescita non dovrebbe essere inferiore al 2.4%, pur dimezzata rispetto alle previsioni e agli anni precedenti. Anche se l’indice di popolarità di Tabaré appare in forte calo, l’Uruguay è uno dei pochi paesi dell’America latina e forse del mondo in cui la crisi globale non ha sconquassato le strutture politiche in carica spianando la strada all’opposizione.
Un discorso a parte meriterebbero Messico, Colombia e Cuba. E anche il povero Centramerica, assurto agli onori delle cronache negli anni ’70-’90 del ‘900, quando fu sanguinoso teatro delle lotte dei movimenti di liberazione e delle guerre sporche degli Stati Uniti, e poi ripiombato nel nulla in cui era stato per 500 anni (anche se il big business non dorme mai, crisi o non crisi: non solo banane e ananas, si veda l’allargamento del canale di Panama o i piani per l’apertura di un altro canale inter-oceanico in Nicaragua).
Il Messico, fra corruzione e violenza, nonostante le speranze suscitate 25 anni fa dall’apparizione del subcomandante Marcos e degli indios zapatisti nel Chiapas, è ridotto al ruolo di produttore-fornitore di coca per l’inesauribile mercato USA. Come fu per la Colombia dei Cartelli di Medellin e di Cali negli anni ’80-’90 del ‘900. Quest’anno crescerà del 3%, “grazie alle riforme” liberalizzatrici del presidente Peña Neto e alla dipendenza, ormai indissolubile grazie al NAFTA, dagli Stati Uniti. Il Sudamerica è lontano.
La Colombia è un caso a parte. Ha forse vinto la guerra con i narcos ma, nonostante i miliardi e le truppe speciali del Plan Colombia fra le amministrazioni USA e il presidente Àlvaro Uribe, non ha vinto quella con le FARC, la guerriglia più antica dell’America latina (sorse nel 1964). C’è stato bisogno di una “pace negoziata”, con la mediazione di Cuba, per risolvere in termini politici un problema politico e arrivare alla scenografica stretta di mano del 23 settembre all’Avana fra il presidente liberale Juan Manuel Santos, che aspira alla rielezione nel 2016, e il leader guerrigliero “Timochenko”. Con la fine della guerra civile, l’economia, cresciuta del 4% l’anno nell’ultimo decennio, secondo Santos aumenterà d’acchito di altri 2 punti.
Resta Cuba. Un’incognita il suo futuro dopo il tardivo riconoscimento del fallimento di 50 anni di politica USA da parte di Obama e la fine fattuale se non ancora formale del “bloqueo”. L’America latina è a un cambio di stagione, a un bivio. Investita dalla crisi globale vive sulla sua pelle le contraddizioni interne e le pressioni esterne. Vive il declino di un decennio eccezionalmente vantaggioso per il commercio estero latino-americano, con i prezzi dell’export delle sue materie prime e delle sue risorse naturali alle stelle, e quelli dell’import fra i più bassi dell’ultimo mezzo secolo.
Vive il brusco rallentamento dell’ingorda domanda della Cina, orma il terzo investitore in America latina, che mette in pericolo gli obiettivi fissati in gennaio nel vertice di Pechino in cui il presidente Xi Jinping si è impegnato a realizzare investimenti cinesi nella regione per 250 miliardi di dollari nei prossimi 10 anni e a portare l’interscambio commerciale bilaterale a 500 miliardi di dollari l’anno. Vive il vecchio e irrisolto dilemma del modello di sviluppo: l’estrattivismo, magari ritoccato in “progressismo estrattivista” , o la salvaguardia e la valorizzazione dell’ambiente? La conferma del desenvolvimentismo a tutto vapore, magari con tinte di “populismo di sinistra”, o il ritorno alla micidiale austerità dell’ortodossia liberal-liberista? Vive i limiti dell’ “uomo solo al comando” e delle tentazioni della “rielezione indefinita”.
Vive i rischi, acuiti in tempi di crisi, di una paralisi, o peggio, del già difficile avanzamento dell’integrazione latino-americana – cominciando dal Mercosud, la struttura più consolidata, scendendo verso quelle più recenti, CELAC, UNASUR, ALBA, PetroCaribe, ecc. -: rischi che favorirebbero, direttamente o indirettamente, l’aggregazione nei grandi blocchi multiregionali di libero scambio al momento in gestazione, come il TPP (Trans Pacific Partnership, appena firmato) o il TTIP (TransAtlantic Trade and Investment Partnership, in discussione fra Stati Uniti e Unione Europea), in cui i paesi dell’America latina tornerebbero ineluttabilmente a essere in balìa – come il Messico lo è di USA e Canada dopo l’entrata in vigore del NAFTA il primo gennaio del 1994 – delle potenze economiche e politiche “del Centro”.
Non ci vorrà molto a vedere se l’America latina continuerà a essere “il continente della speranza” o solo il deposito di ricchezze naturali e di folclore esotico in vendita.

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