di Angelica Erta
Dall’assoluzione alla condanna. È passata quasi sotto silenzio la sentenza del Tribunal Supremo (tribunale spagnolo di ultima istanza) che infligge tre anni di carcere a otto degli imputati colpevoli di paralizzare l’attività del Parlamento catalano il 15 giugno del 2011. Una marea umana si concentra davanti al Parlament per impedire l’accesso agli onorevoli, e quindi il varo di misure di macelleria sociale. Il dispositivo di controllo della polizia fallisce e qualche parlamentare è costretto alla fuga fra insulti, spintoni e macchie sui vestiti.
Fra lo spiegamento di forze dell’ordine e l’arrivo in elicottero del presidente Artur Mas quelle immagini fanno il giro del mondo, mentre i giornali titolano “assedio al Parlamento”. Un brutto spettacolo, ma tre anni di carcere, tre anni di carcere senza nulla di concreto, se non un generico delitto contro le Alte Istituzioni dello Stato castigato dall’articolo 498 del Codice Penale, senza un video con cui si possano identificarne con certezza gli autori, sono degni dell’arbitrarietà della dittatura franchista e non della costituzione spagnola che nacque nel ’78.
Il TS annulla così, con una severità comprensibile solo nell’ottica dell’estrema politicizzazione del giudizio, la precedente sentenza dell’Audiencia Nacional, accusata di “banalizzare la democrazia” alterandone le chiavi costituzionali. La colpa, quel verdetto chiuso con 19 assolti e una condanna di 4 giorni all’unico manifestante identificato mentre dipingeva una croce sulla schiena di una deputata socialista. Il 17 marzo scorso, giorno in cui si conosce la nuova delibera, il racconto dei fatti non cambia, non emergono nuovi elementi di prova eppure il giudizio è rovesciato, durissimo, e mette a nudo uno scontro di potere al cuore stesso della magistratura.
In quella prima sentenza i magistrati Ramón Sáez y Manuela Fernandéz considerarono che “la democrazia si regge su un dibattito pubblico autentico, nella critica a quanti detengono il potere”. E “quelle condotte – si legge fra gli argomenti dell’Audiencia Nacional – erano destinate a rivendicare i diritti sociali e i servizi pubblici di fronte ai tagli del budget e ad esprimere il divorzio fra rappresentanti e rappresentati”.
Per il TS niente di più sbagliato, prima viene il diritto all’onore dei rappresentanti dei cittadini, sempre e comunque, anche quando somiglia ad un’autorappresentazione autistica. E con il senno di poi, quale onore, quando il leader storico del partito indipendentista, Jordi Pujol, lascia la scena con l’accusa infamante di corruzione e evasione fiscale, mentre l’intero sistema cade a pezzi e a livello nazionale non si contano i macro – processi in cui siano implicati esponenti di partito.
Ma in questa sentenza shock a far impallidire non è solo la non-proporzionalità del giudizio, ma la volontà di sparare nel mucchio, di dare una lezione indipendentemente dalle prove; non si condannano gli atti di violenza in sé, ma l’affronto contro questa democrazia rappresentativa, poco importa se si gridassero gli slogan con le braccia alzate o si sputasse contro qualcuno. Nella precedente sentenza l’identificazione e la certezza del reato rimanevano punti fermi, ora sotto accusa è una visione ‘antagonista’ e si mettono in competizione libertà d’espressione e democrazia rappresentativa, in un conflitto fra diritti fittizio. Secondo il magistrato Andrés Ibañez, che votò contro il giudizio del TS, “l’oggetto di questa causa ha connotazioni politiche tanto intense che difficilmente potrebbe darsi un’approssimazione di diritto che non comporti o traduca anche una precedente presa di posizione dell’interprete sull’altro piano”.
Una sentenza, insomma, in cui non si fatica a leggervi un chiaro avvertimento ai movimenti sociali di protesta, che hanno di fatto costituito la sola opposizione in anni di Austerity e sacralità delle istituzioni economiche sovranazionali. È la Ley Mordaza (Legge Bavaglio) del Tribunal Supremo, che fa da controcanto a quella votata in aula lo scorso dicembre e commina sanzioni esorbitanti, da 300 a 600.000 euro di multa, a chi protesta davanti al Parlamento, mette in scena un sit-in non autorizzato, resiste ad uno sfratto o occupa una proprietà perché non ha un tetto sopra la testa.
Con questo verdetto si segna la sconfitta della giustizia, vittima di una politicizzazione estrema, che fa campagna elettorale sotto mentite spoglie. L’attacco non è solo ai movimenti sociali, ma si allarga a chi quella frustrazione ha cercato di comprenderla e convogliarla nell’agone politico. Non occorre essere indovini per scorgere fra le ragioni della condanna una sciabolata al partito di Pablo Iglesias che da quell’opposizione a tratto la propria forza. “La storia europea – argomenta il TS – offre eloquenti esempi in cui la distruzione del sistema democratico e la pazzia totalitaria iniziò con un atto violento contro l’organo legislativo”. Accuse infamanti e completamente prive di fondamento, ma che non sorprendono più in una campagna elettorale in cui tutto è lecito pur di salvare l’establishment.