Pubblichiamo qui di seguito i due contributi, di Loris Campetti e Ida Dominijanni, scritti in ricordo di Paolo Griseri, firma storica del giornalismo italiano, venuto improvvisamente a mancare nella giornata di ieri, 25 ottobre
Una delle cose più belle del mestiere di giornalista è la formazione dei giovani apprendisti stregoni. Metti a disposizione le tue conoscenze, le sensibilità, i trucchi, insomma appoggi sul tavolo – il desk – il poco o molto che hai da offrire per far crescere il giornalista in nuce che hai di fronte. Devi soprattutto valorizzare le sue qualità, aiutarlo a costruirsi un’autostima, ma anche colpire sul nascere i suoi vizi nonché l’eventuale eccesso di autostima. Se lo fai bene, questo lavoro vale più di cento articoli e ti regala soddisfazioni. E’ un lavoro di semina. A volte riesce bene e il frutto che ne nasce è buono e succoso e l’allievo supera il maestro, altre volte va peggio, forse hai sbagliato tu, forse quel seme era sterile o entrambe le cose. Nel caso di Paolo Griseri il mio lavoro di “formatore” era stato facilitato dalle qualità del seme che già aveva iniziato a germogliare prima del nostro incontro. La notizia della morte improvvisa di Paolo mi ha colto impreparato e incredulo, un pezzo della mia storia, dei miei affetti, se n’è andata.
Un ragazzone allegro e positivo preceduto dai suoi riccioli aveva bussato alla porta della redazione torinese del manifesto, un buco di 30 metri quadrati che pure era un punto di riferimento per la sinistra sociale e politica negli anni bui seguiti alla sconfitta operaia alla Fiat del 1980. Paolo si era presentato, aveva già un’esperienza di lavoro radiofonico. Curioso, ironico e autoironico, si era subito messo al lavoro e si capiva che aveva già il mestiere nella testa e nelle dita, si cercava le notizie, faceva inchiesta, rispettava le persone che raccontava. All’inizio erano soprattutto gli operai, poi la curiosità l’aveva spinto su territori inesplorati, dallo sport alla cultura, dalla politica alla “cronacaccia” perché era un cronista di razza. Con Paolo si rideva, si cazzeggiava, si litigava. Insomma, si lavorava bene insieme. E’ rimasto al manifesto per un bel po’ di anni, poi ha deciso che a uno che voleva correre come lui era necessario un motore più potente, le prestazioni della gloriosa Trabant gli andavano strette e andò a Repubblica gettando nello sconforto noi piloti sognatori, fottuti sessantottini di Formula 1. Aveva Torino nel cuore e finì per tornarci, promosso a vicedirettore della Stampa, il giornale che i vecchi torinesi (e con loro io, Paolo e altri giovanotti promettenti e cazzeggianti come Marco Contini, prima di loro era passato dalla redazione torinese Rocco Moliterni e dopo Gabriele Polo) chiamavano la busiarda. Paolo è diventato uno dei giornalisti che con più professionalità ha raccontato la Fiat e un pezzo di capitalismo italiano, senza mai vendersi l’anima, senza dimenticare chi le automobili le costruisce davvero che sono gli operai e chi li rappresenta sindacalmente (anche perché politicamente non li rappresenta più nessuno).
Continuammo a cazzeggiare a distanza, quand’era possibile vis a vis, e a litigare, sulla Tav in val di Susa o sulle performances di Sergio Marchionne. Da poco era andato in pensione e da pensionato ha lavorato più di prima, da inviato, da editorialista, ha raccontato sia il lavoro che i padroni. Il penultimo articolo è sul rider bolognese costretto a spingere sui pedali durante l’alluvione e, infine l’ultimo: un’intervista al nostro comune amico Marco Revelli per parlare degli operai ammazzati alla Toyota di Bologna.
Paolo veniva da una famiglia cattolica torinese, i cattolici dei santi sociali; secondo me alla fine, se la morte fulminea gli ha lasciato il tempo di sognare qualcosa, ha pregato di poter continuare a scrivere e cazzeggiare ancora, da qualche parte. Ciao amico mio, un abbraccio al figlio Gabriele, alla moglie Stefania, a Enrica e a chi gli ha voluto bene.
Loris Campetti
Dei miei trentuno anni al manifesto i più felici sono stati i primi undici, nel servizio culturale. E fra i ricordi più belli di quegli undici anni ci sono le gite di lavoro a Torino: per il Salone del libro, e per seguire la crisi della Einaudi (allora queste cose non si facevano per telefono). Quelle gite erano belle due volte: per gli argomenti, e perché a Torino c’era sempre Paolo ad accogliermi, spesso e volentieri a casa sua e di Enrica (e di altri inquilini come conigli e ricci che Enrica, biologa, allevava). Torino non era la città di Paolo: era la sua seconda pelle, ne conosceva ogni anfratto, ogni pietra e ogni conflitto, fra tutti, e in testa, quello fra gli operai e la Fiat. E poi, Torino o no, Paolo era una delizia. Col suo carattere bonario (ma fermo), con la sua ironia e autoironia, con i suoi riccioli sempre spettinati in testa, con la sua calma olimpica di fronte al pezzo anche più difficile da scrivere. Anche quando veniva in redazione a Roma, qualunque fosse il clima, e spesso non era dei più distesi, con lui il cielo si schiariva. Un attimo prima delle nostre infuocate assemblee, arrivava Paolo e trovava il modo di farci sorridere e di moderare i toni.
Gli volevamo bene tutti, ma proprio tutti, e per tutti fu un brutto colpo quando cominciarono a corteggiarlo a Repubblica: la prima volta, ricordo ancora una lunghissima telefonata, riuscii (con altri) a convincerlo a restare da noi, ma qualche anno dopo ci dovemmo rassegnare a lasciarlo andare. Tanto, nessuno dubitava che saremmo rimasti amici, come infatti accadde. Ma io qui non piango solo il collega, un giornalista notoriamente di gran razza, né solo il compagno del manifesto: piango un amico che quando ce n’è stato bisogno ha saputo starmi vicino con affetto e delicatezza, e facendo la cosa che sapeva più giusta per me, cioè portandomi al mare e chiacchierando per ore e ore.
Ci eravamo rivisti dopo tanto tempo pochi mesi fa, a casa di Loris e Eliana, con enorme gioia. Mi aveva raccontato come al solito un sacco di cose, poi mi aveva riaccompagnato a casa – a Roma abitava vicino a me – e mentre scendevo dalla macchina mi aveva bloccata: “fermati, ti voglio fare una foto”. Venne fuori una foto sorridente e coloratissima. Con la promessa che non ci saremmo persi di nuovo di vista. Così stamani non riuscivo proprio a crederci che invece non ci vedremo più. E scusate il ritardo, ma prima non ce l’ho proprio fatta.
Ida Dominijanni