Lidi in Italia, le dune cancellate

di Alex Giuzio /
5 Settembre 2024 /

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Guardando dall’alto una spiaggia della riviera adriatica, noteremmo una striscia di sabbia piatta e sottile, senza un filo d’erba e coperta da file ordinate di cabine e ombrelloni. Se ci spostiamo nell’isola di Sjælland in Danimarca, le spiagge sabbiose sono invece molto irregolari, ricche di vegetazione e prive di grandi strutture artificiali. In entrambi i luoghi, d’estate è possibile e piacevole stendersi al sole e fare un tuffo; ma i due modelli di gestione della costa sono agli antipodi. Ciò non riguarda solo la presenza degli stabilimenti balneari che caratterizza l’Italia, bensì l’intero concetto di cura della spiaggia. Con la scadenza delle concessioni imposta dalla direttiva Bolkestein, guardare al resto del continente può essere d’esempio per immaginare una diversa direzione, che non neghi la fruizione turistica della costa ma nemmeno privatizzi, alteri e sfrutti tutto lo spazio possibile. Restituendo alla spiaggia il suo ruolo di ambiente pubblico e barriera naturale contro l’innalzamento del mare in corso.

L’ASPETTO PRINCIPALE riguarda il mantenimento della vegetazione spontanea, che a sua volta favorisce la formazione delle dune costiere. Sulla spiaggia nascono piante psammofile in grado di resistere a questo ambiente arido, salmastro e ventoso. Con le loro robuste e lunghe radici, trattengono i granelli di sabbia spostati dal vento e per non farsi seppellire, continuano a crescere facendo alzare sempre più le dune. Si tratta di un ambiente naturale unico, che ospita molte specie animali e vegetali. A loro la biologa marina Rachel Carson, madre dell’ambientalismo, ha dedicato il suo capolavoro La vita che brilla sulla riva del mare. Le dune costiere sono delle solide barriere contro le mareggiate e dei ricchi serbatoi di sabbia che attenuano l’erosione. In Italia sono state abbattute per fare spazio a stabilimenti balneari, ristoranti, alberghi e altre strutture in prima linea sul litorale; mentre nel resto d’Europa sono state per lo più mantenute tra gli edifici e il mare. Oltralpe la spiaggia è un ambiente intatto e mutevole, che fa da cuscino di protezione agli insediamenti urbani; mentre in Italia siamo abituati alla sabbia pianeggiante e priva di vegetazione, che però non è la sua condizione naturale.

LE DUNE COSTIERE non impediscono al turismo di esistere; anzi ci sono tante armonie possibili. Due esempi: in Francia la più alta d’Europa, la Dune du Pilat, è molto frequentata dagli escursionisti che salgono sui suoi 115 metri per ammirare l’oceano e la foresta circostanti; mentre in Spagna, sulla Playa el Saler a Valencia, i chiringuitos sono strutture basse e in legno che convivono con le dune. In generale, in Europa la spiaggia è un luogo naturale dove è possibile accedere liberamente e piantare il proprio ombrellone oppure, dove esistono concessioni, affittarne uno. In Italia invece, nelle aree di maggiore valenza turistica lo stabilimento balneare è l’unica possibilità di frequentare il mare, e le spiagge pubbliche sono poche e marginali. Ma soprattutto, che si tratti di aree in concessione o meno, la vegetazione non viene lasciata crescere. Comuni e gestori privati utilizzano macchine e ruspe per spianare e pulire la spiaggia, strappando ogni germoglio che sboccia. Perciò le dune non si formano più e per il mare sarà facile inondare i centri abitati costieri, che peraltro sono molto fitti e numerosi.

SECONDO ISPRA, la densità di edifici nella fascia di 300 metri dal mare è doppia rispetto alla media del resto della penisola. Questo sviluppo urbano ha rimosso la memoria storica sui pericoli del vivere sulla costa: le grandi città portuali del passato erano costruite vicino al mare per poterne sfruttare lo sbocco a scopi di pesca o commercio, ma non sul mare affinché non fossero esposte agli attacchi nemici e agli eventi marosi. Invece, nel corso del Novecento sono sorti interi agglomerati urbani in prima linea sulla costa. Oggi la vicinanza al mare aumenta il valore di un immobile, ma la mancanza di dune costiere lo rende più esposto alle inondazioni, che saranno sempre più frequenti.

IN ITALIA esistono poche aree dove la spiaggia naturale convive con le strutture turistiche, per esempio a Marina di Ravenna e nel Parco della Sterpaia a Piombino. Qui gli stabilimenti balneari sono in mezzo alle dune e tra un’attività e l’altra ci sono alcune decine di metri di spiaggia libera, come in Andalusia dove esiste per legge un limite di 150 metri tra un chiringuito e l’altro. Altre località turistiche hanno perso l’occasione per fare lo stesso, ma nel passato la sensibilità era diversa. Prendiamo Rimini: distrutta dai bombardamenti del 1943-44, viene governata quasi ininterrottamente dal Partito comunista dal 1946 al 1980, che ne avvia l’enorme urbanizzazione. Secondo il geografo del turismo Carlo Perelli, «la scelta strategica del Pci è quella di non interferire sulla ripresa, governando ad esempio con strumenti urbanistici il boom edilizio, ma al contrario, di incentivare gli investimenti particolari senza pianificazione».

CIÒ CONSENTE A UN’AREA povera e marginale di diventare la ricca capitale del turismo, ma al costo di una cementificazione selvaggia che colpisce anche la spiaggia. Per rimediare, nel 1991 si incarica l’archistar argentino Emilio Ambasz di disegnare un arenile più naturale, con dune e vegetazione. Il suo visionario progetto prevede di accorpare, ridurre e spostare gli stabilimenti a spese dei gestori. I concessionari si oppongono e il piano va nel cassetto. Da allora i balneari hanno goduto dei rinnovi automatici senza essere obbligati a investire; ma con la scadenza delle concessioni, è possibile riprendere i principi di Ambasz, per ripristinare spiagge più pubbliche e naturali. I comuni non sono obbligati a riassegnare tutti i titoli preesistenti, ma non si vedono segnali in questo senso. Anche il governo Meloni sembra andare in direzione opposta, col suo ddl sulle concessioni che vuole imporre a ogni regione di assegnare il 15% delle coste libere per far aprire nuovi stabilimenti. La spiaggia in Italia continua a essere considerata solo come una risorsa economica da sfruttare, anziché una risorsa ecologica da preservare.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 3 settembre 2024

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