Ekpyrosis, la dissoluzione del mondo nel fuoco

di Franco Berardi Bifo /
23 Agosto 2024 /

Condividi su

Da un mese il caldo è ininterrotto, giorno e notte, con punte di trentotto gradi. Ricordo talvolta, quando ero ragazzino, la temperatura raggiungeva i quaranta gradi, ne ho un ricordo confuso. Ma succedeva per un giorno o due. Ora il vero problema è la persistenza tetra di questo sole immobile, di questa afa che grava sulla città e sembra eterna.

Sto disteso sul letto oppure su questa poltrona con il deumidificatore acceso. E leggo. In questo periodo, forse per farmi del male, mi sono incaponito a leggere un po’ di cose sul riscaldamento globale, o collasso climatico, scegliete un po’ voi. Forse ekpyrosis, dissoluzione del mondo nel fuoco, come la chiama Eraclito, il filosofo che pensò il mondo come ininterrotta trasformazione.

Eccomi allora a leggere Falso allarme, il libro di Bjorn Lomborg, un danese che dirige un think tank e fa il ricercatore a Stanford, e cerca di convincermi che non c’è problema. Io boccheggio ma lui mi assicura che tutto va bene, è meglio non ascoltare gli allarmi. Sarà che lassù a Copenaghen il clima è diverso da quello di Bologna, ma in un primo momento ho pensato che Lomborg fosse solo un imbecille. Non lo è.

La tesi di Falso allarme è sensata: Lomborg non nega il riscaldamento globale, anche se consiglia di non chiamarlo collasso climatico, per evitare di drammatizzare. Neppure nega che si tratti di un effetto dell’azione umana. La sua tesi, però, è che il fenomeno è controllabile, seppur destinato a provocare qualche danno, ma niente a confronto dei grandi vantaggi economici e sanitari che ci ha portato la modernità. Quel che occorre fare è semplice: investire risorse nella geo-ingegneria che potrà contenere il riscaldamento con piogge artificiali di acqua di mare o roba del genere.

Cerco di prescindere dalla mia condizione boccheggiante, che mi spingerebbe a buttare il libro dalla finestra, che peraltro è rigorosamente chiusa per evitare che l’aria incandescente penetri nella penombra della mia camera. E nella prima parte del libro Lomborg spiega che gli incendi non sono affatto aumentati nell’ultimo secolo, solo che sono diventati più disastrosi perché la popolazione è aumentata e nelle aree urbane i danni si moltiplicano.

Vai a spiegare agli ateniesi che nei giorni scorsi hanno lottato contro le fiamme che la colpa è loro, perché non dovevano affollarsi in un unico posto. Ma la parte più interessante – e purtroppo condivisibile – è quella dedicata all’inutilità delle energie rinnovabili e delle politiche di transizione energetica in generale.

È difficile negare che i tentativi politici di rallentare l’ekpyrosis sono inefficaci al punto che l’intera macchina politica appare ogni giorno più impotente ad affrontare il più grande dei problemi del genere umano. Ma occorre risalire alla radice dell’attuale impotenza: quando, nel 1992, si tenne il primo vertice globale sul problema climatico, il presidente degli Usa, George Bush padre disse una frase che spiega tutto: “Il tenore di vita degli statunitensi non è negoziabile”. Il che significava: della catastrofe ce ne fottiamo perché intendiamo continuare a consumare quattro volte più elettricità della media planetaria. Come sappiamo gli statunitensi non hanno cambiato idea, e forse presto avranno un presidente al quale il global warming appare come uno scherzo stupido perché gli statunitensi vogliono continuare a mangiare hamburger.

Come George Bush, come Donald Trump, anche Lomberg non prende neppure in considerazione il fatto che non si può ridurre il consumo di energia fossile senza un abbandono del modello economico esistente, fondato sull’accumulazione di capitale e sull’espansione costante dei consumi.

Lomberg non nasconde, però, che il riscaldamento è spaventoso e incombente. E dopo avere smontato l’intero castello degli accordi di Parigi, e dopo aver dimostrato che “tutti i maggiori paesi industriali non stanno rispettando gli impegni presi per ridurre le emissioni di gas serra”, conclude che “il XXI secolo vedrà il pianeta diventare più caldo di 4.1 C.”(p. 170). Perciò occorre investire nella geo-ingegneria, nelle tecnologie che rendano possibile la sopravvivenza in un pianeta surriscaldato, mentre i processi che provocano il surriscaldamento continuano inalterati: sempre più petrolio sempre più merci sempre più guerra. E una pioggerella artificiale per proteggere qualche area privilegiata della terra.

Anche Gaia Vince (sembra un felice pseudonimo, invece è il nome vero di una giornalista inglese che si occupa di clima) propone una visione, se non proprio ottimistica, però a suo modo rassicurante. L’umanità ne uscirà, dice Gaia in un libro dal titolo Pianeta nomade, grazie a grandi migrazioni che concentreranno la popolazione planetaria nei dintorni di Londra e di Edimburgo.

Nella prima parte del libro l’autrice descrive l’effetto devastante del cambiamento climatico nella fascia tropicale del pianeta, e annuncia che nei prossimi cinquant’anni, temperature più elevate, unite a un’umidità più intensa faranno sì che per 3,5 miliardi di esseri umani sarà impossibile sopravvivere nelle zone in cui si trovano. In fuga dai tropici, dalle zone costiere e dalle terre un tempo coltivabili, enormi masse di persone dovranno cercare nuovi luoghi in cui poter vivere. Poiché, spiega Gaia, gli umani sono una specie nomade, potremo evitare l’apocalisse spostandoci tutti al di sopra del quarantacinquesimo parallelo, per intenderci, al di sopra del fiume Po. Tutti in Lombardia, dunque. Il delicato equilibrio climatico che ha permesso alla specie umana di sopravvivere è stato distrutto da pochi decenni di utilizzo intensivo dei combustibili fossili, e non c’è programma realistico capace di ritornare all’indietro. Tant’è vero che il sistema produttivo non accenna minimamente a ridurre l’uso dei combustibili fossili, tanto rotto per rotto, meglio godersi tutto il petrolio che c’è.

E allora? La soluzione proposta da Gaia Vince sarebbe geniale se non fosse del tutto irrealistica, come mostra l’esperienza degli ultimi anni. Tre miliardi e mezzo di migranti che si spostano dal tropico verso il polo nord, dice la spiritosa giornalista. Purtroppo come sappiamo, sono bastate alcune decine di milioni di migranti per provocare una reazione violenta di xenofobia che corre lungo tutta la linea del quarantacinquesimo parallelo.

L’onda nera che travolge la politica è la reazione dei predatori che hanno colonizzato e inquinato per cinque secoli, e non hanno nessuna intenzione di condividere il loro pericolante privilegio. Il genocidio che si svolge lungo tutta la linea di divisione tra il nord e il sud del mondo – campi di concentramento per migranti, annegamento di massa nel Mediterraneo, incarcerazione – è la dimostrazione del fatto che ciò di cui parla Gaia Vince è un’utopia. La grande migrazione di cui lei vaneggia si sta verificando, e continuerà, ma coincide con una guerra mondiale tra i bianchi ricchi e super armati e una popolazione immensa, disarmata e inarrestabile che deve fuggire da luoghi desertificati e inabitabili.

Per tornare alla realtà, dopo le fantasie geo-ingegneristiche di Lomberg e le fantasie geo-migratorie di Vince, basta leggere L’età del fuoco del canadese John Vaillant, che racconta il mastodontico incendio che colpì nel 2016 la città di Fort McMurray, centro di produzione del petrolio bituminoso. “L’incendio di Fort McMurray, la catastrofe naturale più costosa della storia canadese, non si spense dopo giorni, ma dopo mesi” (John Vaillant, L’età del fuoco). Il libro di Vaillant racconta, come fosse un romanzo, le giornate in cui migliaia di pompieri convenuti dall’intero paese, cercarono di contenere il fuoco, riuscendo a salvare gli abitanti, ma non la città. Ma non si tratta di un romanzo, perché qui la fantasia non c’entra niente. Checché ne dica lo spensierato Lomberg, secondo il quale il volume di fuoco è diminuito nell’ultimo secolo anche se le temperature sono aumentate, quel che dice Vaillant è più convincente, perché corrisponde all’esperienza contemporanea.

Fort McMurray è uno dei più importanti centri di produzione del petrolio, perciò il petrolio invade ogni spazio della stessa città, e questo rese l’opera di spegnimento più difficile, perché le case dei dipendenti dell’industria erano fatte di derivati del petrolio.

“Le tegole di catrame, i rivestimenti esterni, le finestre in vinile, il legno impregnato di colle e resine, i pavimenti in linoleum, la tappezzeria in polipropilene, i laminati rivestiti di smalti e lacche infiammabili, e poi gli elettrodomestici, i vestiti, gli arredi, i mobili da giardino, le coperte e i materassi le confezioni del cibo, tutto praticamente veniva dal petrolio” (pag. 197).

Vaillant parla di Petrocene e spiega:

“Nel 2019 l’economia mondiale valeva novantamila miliardi di dollari e derivava quasi tutta la sua energia (84%) dai combustibili fossili. Stiamo dando fondo a questo fondo fiduciario di energia come se non dovesse finire mai: ogni giorno gli umani consumano circa cento milioni di barili di greggio, e ne spostano quaranta milioni in tutto il globo. Più di un terzo dei trasporti è dedicato al trasporto di petrolio”. (pag. 90)

Di conseguenza le speranze di fermare l’incendio sono poche.

“Al pianeta sono occorsi milioni di anni per accumulare l’energia fossile che abbiamo sfruttato nell’ultimo secolo e mezzo, e averla bruciata in pochi decenni sta causando e causerà ricadute drammatiche… la resa dei conti tra l’anidride carbonica e gli umani sta solo muovendo i primi passi, e per le generazioni future sarà un fardello più pesante di quanto lo sia per noi… Il castigo colpirà tutti, ma in particolare modo i giovani, gli innocenti, chi non è ancora nato. Nel frattempo la vita andrà avanti…”. (pag. 470)

La resilienza appare qui per quello che è: una maledizione a cui ci si può sottrarre in una sola maniera: sospendendo la riproduzione del genere umano, che appare condannato da quello che Peter Sloterdijk definisce “nichilismo estrattivo”.

“Le foreste primordiali di un passato lontanissimo, fossilizzate e liquefatte, venivano riportate nel tempo storico e attualizzate nel qui e ora dell’età industriale da innumerevoli fuochi generati dalle macchine. Quelle che consideriamo civiltà moderne sono in realtà effetti degli incendi di foreste che il nostro presente appicca nei relitti dell’antichità della terra. L’umanità moderna è un gruppo di piromani che appiccano il fuoco a foreste e brughiere sotterranee”. (Sloterdijk, Il rimorso di Prometeo)

Nel suo libretto Sloterdijk ricostruisce in termini marxiani la genesi del Petrocene: l’aumento della composizione organica di capitale (l’introduzione di macchine che riducono il peso relativo del lavoro umano nella produzione di merci) è stato reso possibile dalla rivoluzione tecnica di cui l’elettricità e il petrolio sono gli strumenti essenziali.

“Il risultato (dell’applicazione di queste tecnologie) per ogni individuo adulto corrisponde alla capacità che avrebbero avuto dai venti ai cinquanta schiavi domestici, e in certi casi molto di più”. (pag. 60)

Per questo nessuna politica può indurre i cittadini del mondo contemporaneo a rinunciare al dono del fuoco, o almeno limitarlo in modo compatibile con la salvaguardia di un clima vivibile: non c’è dunque nessuna possibilità “politica” di fermare l’autodistruzione, che Sloterdijk definisce citando Eraclito ekpyrosis (dissoluzione del mondo nel fuoco).

Probabilmente solo una tecnologia oggi inimmaginabile (forse la nanotecnologia) potrebbe interrompere questa corsa, ma è improbabile (seppur impossibile) che qualcuno sia in grado di investire le risorse necessarie per questa riconversione, tanto più che l’ekpyrosis è già in corso e le risorse di cui disponiamo vengono investite nello spegnere il fuoco delle foreste, e nell’accendere sempre nuove fuochi di una guerra che gli umani in preda al panico appiccano in tutti i luoghi della terra.

Questo articolo è stato pubblicato su Comune il 21 agosto 2024

Aiutaci a diffondere il giornalismo libero e indipendente.

Articoli correlati