Santarcangelo, Sementerie artistiche e un debutto di stagione per tutte le stagioni

di Silvia Napoli /
4 Agosto 2024 /

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Si sa che la stagione estiva è in qualche modo uno spazio-tempo in senso fisico e mentale dedicato ai festival, alle premiazioni, alle vetrine: ci si affanna ad esibire giudizi e riconoscimenti forse buoni per risollevarci dai forzati languori ecologico-ambientali, avviando dibattiti discutibili, come quello ad esempio inerente al caso Ferrante. Un caso, a ben vedere, che è un caso da sempre e non mi pare abbia mai avviato una discussione più analitica su ascendenze e canoni letterari, limitandosi a proporre polveroni sconcertanti e in buona parte gossippari 

Ma noi non ci occuperemo del caso dei casi e staremo sul nostro orticello performativo e teatrale a testimoniarvi di alcune cose pulsanti viste qua e là.  

Ad esempio, un Santarcangelo dei corpi ritualizzati, in cui c’è da vedere quanto si stia parlando di rituali in qualche modo chiusi e circoscritti ai celebranti e agli adepti o quanto aperti i ad una interazione più vasta. Oppure ancora, sospesi tra la voglia di rappresentare la ritualità oggi e al contempo, come credo, mantenere una forma teatrale compiuta che riesca a ingenerare la sacralità del recinto, del perimetro. 

Della serie, vedete, facciamo cose diverse, ibridate da linguaggi multipli, ma siamo pur sempre in ambito teatrale, non in una arena di indistinta chiamata alla partecipazione e casomai valorizziamo in quanto teatrale l’apporto, l’afflato che voi, cittadini fruitori. offrite per esempio nel vostro esercizio di dissenzienti politici, di ravers, di migranti in adattamento, di prestatori di cura con l’allattamento, di creatori di comfort food, di traghettatori di anime… di custodi del vivente attraverso il riconoscimento della morte.  

Questo almeno il senso da me ricavato tra le varie esperienze -visioni realizzate su due weekend e che vorrei provare a trasferirvi, anche se la narrazione scritta appare una sfida perdente innanzi a lavori che hanno la mobilità e la fragilità resiliente dell’organismo vivente.  

Si comincia benissimo, seguendo passo passo il programma suggeritomi dall’ufficio stampa, evitando la mia congenita verve anarcoide, con il sorprendente Lessons for Cadavers della brasiliana Michelle Moura, che poi rivedrò nel cortile delle scuole Pascucci per un incontro collettivo di approfondimento. Che dire? Tre “figure”, di specie non ben definita abitano uno spazio scenico fiocamente illuminato e disegnato da un suono elettronico scuro e sporcato che solo a sprazzi si lascia andare ad una dimensione godibile. Espressionismo è il termine che più frequentemente viene usato per definire l’attitudine di maschera smorfia fuori da una identità tribale precisa dei nostri personaggi creature, che potrebbero essere invece una nuova specie a rebours da un futuro prossimo di sopravvissuti. Incredibilmente Moura mescola qualcosa di molto freddo con qualcosa di ustionante, tecniche differenti da cose che non sono danza e in certi momenti è un po’ come se Kentridge, il linguaggio Katakhali e il Kubrik di 2001 odissea nello spazio fossero collassati tutti insieme. 

I performers attingono a posture animalesche, con spalle ricurve e appaiono in scena come se una forza di gravità imprescindibile li tenesse ancorati verso il basso e li volesse forme come da sgrezzare e in totale rifiuto di una logica di slancio e protensione. Brulicano, anche se sono oggettivamente pochi, come forme di vita regressive o viceversa il nuovo che avanza dalla putrefazione. La morte e la vita per noi occidentali in testa, così scisse e contrapposte, sono viceversa qui la stessa cosa e tutto questo appare assolutamente plausibile pur nel complessivo spiazzamento per chi guarda. 

Non coinvolge fino in fondo, ma probabilmente l’intento dello spettacolo è proprio di creare un distacco, una oggettivazione critica con quanto diamo per scontato, il lineare eppur stratificato Il mio Filippino, primo lavoro teatrale in assoluto del videomaker di origini filippine, ma residente a Roma, Lyric Dela Cruz. Ed in effetti l’attacco di questa raggelata rabbiosa riflessione in diretta, affidato ad un sapiente livido e violento footage in bianco e nero di materiali reportages d’archivio è la parte più bella anche perché costringe lo spettatore a confrontarsi con pezzi di storia e costume di un paese e di un popolo che scopre di non conoscere semplicemente perché ne ha volutamente e colpevolmente ignorato una storia fortemente marcata da una impronta di colonizzazione religiosa. Colonizzazione valoriale che produce dunque la presunta obbedienza di questi perfetti servants che popolano le nostre case e i nostri giardinetti pubblici in funzioni di pulizia e accompagnamento. In questo lavoro-mantra il mansionario quotidiano di questi addetti senza volto viene scandito da una ossessiva litania numerica che è il rito nevrotico della routine senza scampo, che ha qualcosa di robotico, se non fosse che anche le pile possono scaricarsi e a un certo punto, i nostri dervisci rotanti factotum di un piccolo mondo colonialista senza contezze e consapevolezze, procedono sempre più spossati e flebili in cerchi incespicati e rallentati. Solo allora può materializzarsi la metafora della barca e del profugo, solo allora il cerchio chiuso degli anonimi workers può aprirsi al pubblico forse altrettanto estenuato con la beffarda esortazione finale ad avvicinarsi al palco per poter toccare un autentico filippino. Un lavoro volutamente ostico che risente a mio avviso della lezione di Rimini Protokoll, forse troppo ansioso di non mostrarsi edulcorato e compiacente, comunque coraggioso nell’attraversare i territori della quotidianità indifferente data per scontata e uniforme a prescindere da qualunque coordinata antropologica. Il festival si concede poi una pausa gastronomica in piazza ed anche una ammaliante esibizione di salto alla corda per poi, prima del mitico imbosco, farci correre tutti all’Itc Molari per la visione, anche in questo caso volutamente raggelata di un rave sui generis, forse per la forma implicita di pudore e rispetto che implica la responsabilità indicata dal titolo stesso, che è poi claim di tutto il festival… mentre siamo qui, a dire che noi possiamo permetterci di danzare e celebrarci, altrove sono morte già 40 mila persone innocenti in pochissime settimane. L’idea centrale dello spettacolo è l’assimilazione dei ritmi e delle gestualità ravers a quelle della danza folclorica di matrice celtica, per come la vede l’artista belga Lisa Vereertbrugghen. Si sviluppa una bizzarra forma di quadriglia spaiata tra cinque danzatori che incalza con bit e beats, ma non consente spazio di sfogo agli astanti e che indispettisce qualche critico perché non vengono rispettate certe forme di grazia canonica e non vengono proposti gli accostamenti con il necessario approfondimento culturale. Ma del resto questo è un festival che invita alla fisicità, ma non alla forma attenzione, vista casomai come imposizione di un canone coloniale. Si può discutere e molto a lungo su questi presupposti concettuali, ma intanto se non vengono compresi e sussunti si rischia di valutare i lavori su criteri fuorvianti.  

Mi rendo conto del fatto che casomai, sarebbe molto intrigante una riconsiderazione degli artisti in campo, sulla base del loro nostos a Santarcangelo festival. Ovverossia alcuni di loro sono alla loro seconda o persino terza volta qui con la direzione di Tomek e molto interessante mi sembrerebbe un confronto su quanta acqua sotto i ponti sia metaforicamente passata fino a qui da tanti altri altrove.  

Un esempio di ritorno è infatti la brasiliana Catol Teixeira che nel parco Baden Powell interagisce con una coppia di danzatori ponendosi come agente di metamorfosi e liquidità tra i generi, attraverso la proposizione di diversi stilemi di uso del corpo, della voce, della forma parlata e cantata per approdare infine ad una nudità non addomesticabile in senso apollineo governata com’è dagli impulsi autoaffermativi della danza twerk.  

Vi chiederete a questo punto se in mezzo a tanta veemenza espressiva, se non corale, almeno di gruppo, ci sia spazio per posture più intimistiche e in qualche misura meno provocatorie o aggressive. anche se il tema non è effettivamente facilmente declinabile in questi termini dicotomici. La sopraffazione etnica, razziale, di genere, si nutre di mille sfumature contrastanti e confluenti. Ne è la prova, un altro primo lavoro assoluto quale quello di Vashish Soobah, film maker, artista visivo e della documentazione nato in Sicilia, cresciuto in Brianza da genitori mauriziani che qui si avvale della preziosa collaborazione alla drammaturgia di Mouna Moussie, per confezionare una sorta di acquerello di sentimenti e narrazioni in cui il mare, la famiglia, una incredibile opera artigianale di tessitura e connessione tra fili diversi, in un mix calibrato di azioni dal vivo e testimonianze riportate, tra tappeti sonori e parlato di interviste come sfondo narrativo che fa della ricerca del momento di equilibrio e armonia il proprio punto di forza e vera ragion d’essere dell’insieme.  

Viceversa la cattura degli squilibri energetici e rappresentativi è la chiave di volta della lettura del lavoro incredibile di Francisco Thiago Cavalcanti, appassionato performer brasiliano di origine portoghese che sfida con incedere atletico e maestoso l’intera piazza Ganganelli, tra oggetti di scena improbabili e inutilizzati, balene spiaggiate, ricreazione di momenti ballet mixati abilmente e apparentemente incongruamente con afflati performativi vocali molto vintage seventies, fino a ricreare con materiale impermeabile isolante forse ignifugo e con l’aiuto del pubblico un esteso e tempestoso mare mediterraneo di inedita potenza evocativa.  

Chiude degnamente il festival, all’Imbosco, l’happening surprise party di Rebecca Chaillon, artista e performer francese dalla Martinica che si muove sfacciatamente in ambito queer decolonial-femminista radicale. Dopo il suo nuovo lavoro la Gouineraie, questo the cake, assume tutto il valore di una provocazione. Chaillon ingurgitando a rischio vomito, tutti gli ingredienti crudi che compongono una torta di media grandezza, arriva a cospargersi di cioccolata e ciliegine, financo di candeline pronta come in una sorta di comunione laica e oscena a farsi divorare da un pubblico nettamente diviso a metà. i detrattori caratterizzati dai commenti più vari che spaziano dal concetto di rifiuto estetico – normativo a quelli di principio etico sullo spreco alimentare in qualche modo inscenato con questa azione. Chaillon in realtà ragazza di campagna abituata a tener da conto ogni intento celebrativo e ogni cibo della festa inscena in realtà un rituale sacrificale di condivisione e non dissipazione portato alle sue paradossali conseguenze. Sta di fatto che dopo le prime esitazioni, una fila di devoti e silenziosi assaggiatori si forma esattamente come in chiesa al momento dell’Eucarestia, per andare devotamente e rispettosamente a leccare il corpo mistico e carnale insieme di una performer over size, eccessiva nel trucco, parrucco e nella ridondanza di forme e calze a rete esibita per affermare una alterità al mainstream e non una attitudine seduttiva in senso classico e di marketing compatibile con il management delle diversità. In definitiva, in ciò che ho visto di questa edizione che conclude un triennio ed apre ad un biennio ancora affidato all’attuale curatela, colgo come una sospensione di giudizio ed una transizione verso sentimenti ed emozioni forse tutti da rintracciare e scoprire, quasi fossimo tutti dr Livingstone di un abbecedario interiore assai composito: la Babele linguistica è in noi e deve ora produrre sperabilmente un esperanto buono non per i commerci ma per quella pietas così difficile da spiegare a noi contemporanei. Non essendo essa pietismo, ma onore riconosciuto alla dignità della persona, al suo provenire da e andare verso, alla sua inevitabile fallacia e fragilità.  

E una atmosfera queer, da opera rock giocata sui toni dell’androginia di illustre ascendenza elisabettiana, domina anche la godibilissima realizzazione di un sogno di una notte di mezza estate in programma per il mese di luglio e i primi di agosto in quel di Crevalcore presso Sementerie artistiche. 

Difficile definire cosa sia la realtà di Sementerie artistiche, dispersa nell’incanto di un umido tramonto di pianura quando ci arrivo pochi giorni fa, se vogliamo andare oltre il fatto sia una delle più note realtà territoriali tra le famose residenze artistiche dedicate alle compagnie teatrali in prova. Per questa estate teatro di paglia, le zone dei serbatoi di sementi, le stalle, tutto diventa convivialità, fruizione, teatro partecipato.  

La compagnia è estesa e variegata, soprattutto arricchita sia nel caso di Lisistrata che del Sogno, dalla imponente partecipazione di cittadini coinvolti nell’impresa… Nessuna tecnica o meglio linguaggio, viene messo tra parentesi per raggiungere il risultato di una messinscena corale, plurale, orizzontale che appunto sfrutta le inflessioni dialettali locali, la commedia dell’arte, il varietà, il camp per comporre quei quadri di varia complessa umanità che tanto piacevano al bardo e ai nostri più antichi antenati. L’assunto filosofico su una realtà che sempre ci costruiamo a nostra immagine per come vogliamo vederla con i nostri strumenti cognitivi e che crea steccati e pregiudizi risibili è chiaro e dichiarato sin dagli inizi. Le relazioni amorose in special modo sono il banco di prova di queste multiple autofiction che ciascuno di noi si crea…. Ed è anche questa però, non solo gabbia, ma anche possibile via di fuga verso una meno scontata indeterminatezza di ruoli e stereotipi… Beffardamente ciò che crea il problema ha in sé anche il suo antidoto. Serata lussureggiante per clima agreste e possibilità di un divertimento popolare nel senso migliore del termine. Trasversale alle generazioni, per esempio, ed oltre le varie appartenenze a parrocchie teatrali…  

Ma la sorpresa in assoluto dell’estate teatrale bolognese è questo anomalo debutto del nuovo lavoro di Ateliersi, un manufatto, più che prodotto, realmente di difficile definizione e collocazione e di cui riparleremo ampiamente quando approderà a breve propriamente a Bologna Sto parlando di questo We did it, che niente ha a che vedere con la Britney recentemente ripresa persino dal Collettivo Gkn Anche Ateliersi peraltro oltre che luogo fisico è collettivo di teste e cuori, che osa in questo caso, spettacolarizzare la giustizia climatica rappresentandola come postura e passione di anima e intenti, prima che attivismo comunemente inteso o opera di razionalizzazione. Io ho avuto la fortuna di assistere ad una filata antecedente alla vera anteprima, il 19 di luglio al festival di Sansepolcro. Ci saranno infatti varie anteprime site specific, considerando che questa allegra baracca di comedians viaggia su furgone elettrico autoalimentato ad energia solare. Così lo spettacolo ha due versioni una per i teatri ed una en plein air perché il furgoncino si tramuta in palco. Il 18 settembre lo spettacolo approda alle serre dei Giardini Margherita, alla fine del mese sarà in Arena orfeonica per il vero debutto, in ottobre al periferico Festival di Modena eppoi più avanti al Teatro Lacucina, borgata Olinda, Milano.  

Inutile dire che l’ideazione si ascrive alla consolidata ditta Menni-Sismondi. In scena, Andrea, ritagliato in posture fisse e a impercettibile evoluzione da un sapiente gioco di luci, ora calde, ora fredde, ma la regia e la creazione tramite giochi di sonorità dello spazio scenico sono di Fiorenza. Le bellissime elaborazioni musicali portano la firma di un mago nel genere quale Vinx Scorza. Le voci che contrappuntano il soliloquiare errabondo di Andrea con inserti romanzeschi e narrativi appartengono ad Anna Amadori, Massimiliano Briarava, Eugenia Delbue, Fiorenza stessa e Alessio Scorza. Lunghissimo l’elenco dei suggeritori letterari che pescano a piene mani dalla saggistica, dalla cronaca e dalla fiction, contribuendo a creare una figura di space cowboy oltre le coordinate spazio temporali, quale l’enigmatico protagonista un po’ esploratore, antropologo, biologo, osservatore, sospeso come un novello contemporaneo Ulisse nella tensione che distingue tutta la storia dell’umanità, tra stanzialità suppostamente pacifica e civilizzante ma forse anche estrattiva e predatoria e nomadismo per scelta o costrizione. Il risultato rispetto alle atmosfere è di una appresa lezione lunghissima da distopie varie targate per esempio tra Kubrik, Dick, Le Guin, Haraway, qui declinata in un orizzonte pieno di senso che ci invita a fare esperienza. Un che di lisergico, utopico, che ha anche il coraggio di verticalizzare come Verne, per esempio, sapeva fare rende il tutto predisposto ad uno scarto forse misericordioso degli errori e speranzoso. Il nostro vulnerabile ecosistema diventa in questo lavoro teatro di sperimentazioni avanzate anche a livello di convivenze, per esempio, che sono necessariamente comunitarie, in un sorprendente gioco di far di necessità virtù, che si esprime massimamente nella storia della rigenerazione di Detroit ad esempio  

Un lavoro che farà discutere e che supera il format conferenza scientifica -comizio per approdare ad una ibridazione così come nei casi precedenti abbiamo visto, producente un sapere meticcio tra scienze pensieri umanistici, storia, futurologia tecnologia, biopolitica, antispecismo. In definitiva se il precedente lavoro di Ateliersi si titolava nell’Impero delle Misure, questo potrebbe sottotitolarsi a buon diritto Nel regno dei viventi. Pertanto, non perdetevelo almeno in settembre qui in casa, fidando in un addolcimento climatico.  

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