Nell’introduzione al libro di Silvia Giagnoni, Goffredo Fofi ripercorre la storia operaia rilanciando un movimento collettivo che mostri le unghie e proponga pensiero critico.
Scrivo queste brevi pagine con la coscienza di non essere la persona più adatta a farlo. So della Gkn quello che sanno i lettori dei quotidiani che ancora possono venir detti di sinistra e gli ascoltatori di qualche radio libera. Non mi intendo di fabbriche e di lavoro, se non quel tanto che una antica militanza torinese mi ha aiutato a capire al tempo dei grandi scioperi della Fiat e altri, al Nord ma non solo, e ho, come tutti, qualche amica/o che milita nel sindacato, qualche amica/o che, in grazia di una giovinezza vissuta nelle più politiche delle “buone pratiche”, tuttora sa raccontarmi di situazioni e di lotte. Conosco peraltro l’autrice di questo diario-saggio grazie a precedenti lavori, e ho un’assoluta fiducia nella purezza e nell’acutezza del suo sguardo. D’altronde non c’è poi troppo da capire, sul fondo – in tempi di trasformazioni “epocali” che coinvolgono il mondo del lavoro, il mondo della politica, il mondo della cultura. L’economia e la società.
C’è molto da imparare da queste pagine, e molto che può confermare convinzioni antiche e recenti. Partendo dalle recenti, e dicendola rozzamente, il capitale ha vinto su tutti i fronti o quasi, e però il lavoro, il mondo dei lavoratori, non è mai stato sconfitto del tutto – ce lo insegna la Storia, anche se ha più che mai ragione la Morante definendola «lo scandalo che dura da diecimila anni» -, ed è sempre pronto a ricominciare da esperienze concrete, da piccole – ma a volte grandi – azioni di resistenza, di lotta. («Mai dire mai», ci ripeteva Bertolt Brecht, ed è diventata, questa, una nostra divisa…). Di breve o – come nel caso della Gkn di cui Giagnoni racconta le azioni e le convinzioni dei suoi “dipendenti”, dei suoi operai -, di lunga, di lenta, di faticosa e bensì ostinata resistenza.
Di fronte a questa cronaca, è impossibile non pensare a tanti saggi, romanzi, memorie, film, canzoni che hanno scandito la storia del movimento operaio internazionale, le sue vittorie e le sue sconfitte. Dalla Russia della Rivoluzione all’America dei primi del Novecento, dal tempo dei “fronti popolari” a quello delle dittature, nel quale tuttavia rimase vivo “un seme sotto la neve”, nel ricordo delle lotte di ieri e nel sogno di quelle a venire.
Si affollano nella memoria di chi legge questa cronaca così recente e così attuale i ricordi di opere che, sui vari fronti dell’espressione artistica (dove fu un tempo ricorrente il tema della “presa di coscienza”) come delle inchieste e riflessioni della sociologia e delle ricostruzioni della storia, hanno raccontato simili avventure di gruppo, simili imprese collettive. Nei loro momenti di “stasi” come in quelli di “febbre”, o in entrambi e nel loro succedersi, tra alti e bassi, tra vittorie e di sconfitte. E di irruenza o di ripiegamento, di grido o di silenzio, di scontri o di trattative.
Uno dei primi capolavori del cinema muto, nella nuova Russia, si intitolava Sciopero (1924, pochi anni dopo la Rivoluzione e prima della imposizione alle arti del “codice” stalinista, e lo diresse Ejzenstejn), ma quanti sono i film e i documentari che hanno descritto altri scioperi, altre lotte, in ogni parte del mondo? Tanti anni fa a Torino, Paolo e Carla Gobetti, avendomi come assistente ed è per questo che lo ricordo, “per farmi bello”, girarono un lungo documentario, appunto Scioperi a Torino, sullo sciopero della Lancia che annunciava il grande sciopero della Fiat di poche settimane dopo, e con un’amica da tempo scomparsa, Gianna Germano Jona, agimmo da assistenti factotum, imparando giorno dopo giorno e manifestazione dopo manifestazione, il linguaggio degli operai, anzi meglio: delle operaie, ché vi erano in maggioranza.
(Un ricordo bellissimo fu quello di altri momenti rituali, il giorno dell’8 marzo quando dei giovani militanti sindacali o della Fgci e qualcuno dei “Quaderni rossi” si presentavano agli ingressi delle fabbriche dove predominava la manodopera femminile distribuendo mazzetti di mimose… un rito bellissimo e che da qualche parte è forse ancora in uso, che mi era capitato di praticare anche nella periferia parigina dove vivevano i miei, ma lì il fiore era il mughetto….).
È una lotta che non ha mai fine, quella tra il Lavoro e il Capitale, ma sono ben rari – da troppo tempo, nel corso degli anni e oggi soprattutto – i momenti in cui il Lavoro riesce a far sentire la sua voce, vincendo, nel superamento delle divisioni interne e avendo ben chiara la portata politica delle sue azioni. E però qualcosa è cambiato, in questi nostri tempi opachi, cui il Capitale sembra avere di nuovo “il coltello dalla parte del manico”. Non sta mai fermo, il capitale, e ha al servizio, pagando, tutti i cervelli di cui abbisogna, poiché la scienza – nei suoi molteplici aspetti – è pur sempre comprabile, e gli uffici studi del capitale dono più attivi che mai e finanziano la ricerca soprattutto di ciò che gli serve, che dà sempre più forza al capitale.
Si diceva un tempo che nella storia del capitalismo “i figli” (i nuovi arrivati sulla scia delle ultime invenzioni) uccidono sempre i propri padri e prendono il loro posto, si diceva che è ben questo “il progresso”. Ed è per questo che nell’ultimo grande “ciclo di lotte”, internazionale e non solo giovanile, ci fu chi affermò molto saggiamente che i movimenti, rivoluzionari o riformisti che fossero, avessero bisogno dalla loro parte di scienziati che fossero insieme “esperti e rossi”, veri scienziati e bensì con idee di sinistra, disposti a mettersi al servizio non del Capitale ma del Lavoro – e delle avanguardie delle rivolte per un mondo migliore.
Oggi la Scienza vive e sopravvive grazie al Capitale, nel mentre si assiste a una mutazione antropologica quasi mondiale, che i sociologi più attenti definiscono da tempo come la “cetomedizzazione” massicciamente diffusa della popolazione dei paesi più ricchi, dei paesi che, sulla scena mondiale contano di più – e dei quali fa parte anche l’Italia, subendone tutti gli effetti sul piano sociale e culturale.
I mezzi che il capitale ha a disposizione sono infiniti (anche quelli atti a indirizzare la produzione artistica e culturale) e si può ben dire che, almeno questa tornata, sia stata vinta e stravinta dal Capitale a danno del suo antico nemico il Lavoro, non sempre servo. E questa vittoria non poteva non incidere sulla storia della sinistra, mettendone in crisi le sue stesse basi, ché la Cultura capitalistica (nelle sue tante – non infinite – forme) è riuscita a scompaginare le file del suo antico nemico il Lavoro, attraverso la corruzione dei suoi rappresentanti, la corruzione degli uni e la passività degli altri. E “gli uni” sono soprattutto quelli che dovrebbero essere le avanguardie dei lavoratori, i partiti della sinistra (e accessoriamente e in buona parte, per star dietro alle trasformazioni del suo stesso pubblico e mandante, i sindacati).
È questo il nodo più duro da sciogliere, la volontaria agonia della sinistra storica, nel mentre che i movimenti si facevano scarsi e “recuperabili”, e c’è anche chi si azzarda non senza ragione a parlare di “tradimento”. La sinistra ufficiale (l’altra non c’è o è fiacchissima, non solo numericamente) si adegua e, nell’illusione di diventare centro, può mutarsi facilmente in destra, o in una blanda sudditanza nei confronti del potere illudendosi di poterlo condividere…
La lotta di cui Giagnoni si è fatta narratrice, cronista, si muove anch’essa su questo sfondo, fa parte di altre, non poche, che per questo sono tanto più eroiche, tanto più ammonitrici. Sullo sfondo, in una sorta di egoistica indifferenza, le vittime del lavoro, i morti prodotti da incidenti quasi sempre evitabili, prodotti dal cinismo del capitale e dalla indifferenza (sì, indifferenza, ché vengono considerati un prezzo da pagare alla modernizzazione, alle “ristrutturazioni”, alle mutazioni che ne seguono viste come inevitabili, e quasi un destino) della borghesia. Di una buona parte – complice servile anche quando sembrerebbe non rendersene conto – del capitale internazionale, di “nuovi padroni” figli concorrenziali di padri ignobili.
Il nodo da sciogliere perché qualcosa possa davvero cambiare è quello dei movimenti, oggi fiacchi e dispersi (e sì, il proletariato e i ceti che gli sono più prossimi sono davvero diventati o tornati a essere “un volgo disperso che nome non ha”). Tuttavia – citando ancora Brecht – «il giorno più lungo eterno non è», ed esperienze di lotta come quelle per i diritti operai, per la difesa della natura, per la giustizia sociale, per l’onesta accoglienza dei migranti, per una scuola non conformista e liberatoria, per una cultura (che almeno in Italia sta attraversando un periodo di scialbo conformismo, di strapaesano narcisismo, di universitaria compromissione, di insulso sentimentalismo) che torni a mostrare le unghie e a proporre un pensiero critico di analisi e di spiegazione il più possibile attiva – legata cioè alle pratiche, anche le più minoritarie – che spieghi il presente e che inviti e prepari ad azioni sagge e decise, che dia il posto che merita alle lotte operaie, nelle mutazioni attuali del lavoro – e a quelle studentesche avanguardia di un ceto medio di cui devono combattere l’intima corruzione e la colpevole cecità sul futuro suo e di tutti. Che cento lotte fioriscano, che si colleghino tra loro, che diano vita a nuove organizzazioni sagge e decise, che si ritorni a pensare seriamente al domani, e sì, al “sole dell’avvenire”…
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 6 luglio 2024