Una guerra civile fotogenica: CIVIL WAR

di Valerio Romitelli /
12 Luglio 2024 /

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I pacifisti tra i quali certamente mi schiero (ma sia pur in modo disincantato[1]) si pongono spesso una domanda che pare senza risposta: perché la guerra? Detto altrimenti, perché l’umanità nel corso della sua millenaria carriera di civilizzazione non è ancora giunta a rinunciare a un mezzo così barbaro come la guerra? O ancor peggio: perché si è arrivati addirittura a un punto tale da civilizzarla, la guerra, nel senso tragicamente ironico per cui dalla Seconda Guerra Mondiale in poi è divenuto fenomeno normale che i civili ammazzati in conflitti armati risultino più numerosi degli stessi militari (come peraltro sta clamorosamente e orrendamente accadendo nel corso della pulizia etnica intentata da parte del governo Netanyahu nei confronti degli abitanti di Gaza)?

Volendo, però, una risposta semplice semplice a tali complicati quesiti c’è. Ed è che senza una qualche buona idea universalistica capace di unire l’intera umanità questa tende a dividersi sempre più e più si divide più finisce per farsi a pezzi secondo schieramenti etnici o identitari, i quali a loro volta prima o poi degenerano in guerre inevitabilmente sempre più estese e senza limiti. Troppo semplice per essere vero? Così certo appare all’opinione contemporanea, disillusa come è dalle due ultime grandi idee politiche universaliste, quali sono state prima (fino all’89) il comunismo, poi la democrazia (la cui epoca d’oro cominciata più o meno proprio da quell’anno si sta sempre più allontanando, come insegna tra gli altri Colin Crouch[2]).

Questo vuoto di riferimenti che azzera ogni capacità di analisi riguardo alla cupa contemporaneità in cui siamo finiti è proprio ciò di cui narra il film Civil War, regia e sceneggiatura di Alex Garland (uscito quest’anno e dal non trascurabile successo anche in Italia): ce lo narra, non certo perché allude anche solo vagamente all’esigenza di avere una qualche idea per capire le guerre e/o avvicinare la pace. Ma ce lo narra perché, ostentando la più assoluta indifferenza rispetto a qualsiasi afflato razionale, mostra come la guerra, per quanti orrori, morti e distruzioni comporti nella realtà, possa attualmente essere vista, percepita e vissuta né più né meno come un insensato videogioco.

Nella trama di questo film, nulla di nulla infatti è detto delle ragioni per le quali gli Stati Uniti sarebbero finiti in questa Civil War. A convincere lo spettatore di una simile probabilità si suppone bastino le impressioni lasciate a suo tempo dalle immagini dell’assalto dei trumpiani a Capitol Hill il 6 gennaio 2021 o le frequenti cronache sulle dispute che dividono oramai senza soluzione di continuità tutto e tutti (stati, partiti, schieramenti culturali e semplici cittadine/i) nella patria di Washington. Resta che una cosa così clamorosa e complicata quale potrebbe essere un conflitto armato senza esclusione di colpi all’interno della massima potenza militare mondiale viene rappresentato allo stesso modo in cui potrebbe esserlo una fantascientifica invasione di alieni. Nessun ben che minimo cenno viene fatto tra l’altro alla questione ben più terribile e urgente in simili circostanze: l’eventualità di un ricorso all’imponente arsenale di bombe atomiche di cui gli Stati Uniti sono come noto primi detentori al mondo. Nessuna delle diverse fazioni guerreggianti tra loro pare averci pensato.

A guidare lo spettatore nel girone infernale di sparatorie, cannoneggiamenti, stragi e ammazzamenti vari provvede un quartetto manco a dirlo di giornalisti, riuniti più dal caso che per scelta in una squadra estemporanea, dalla composizione che più scontata di così non si può: il vecchio nero ciccione e altruista, la ragazzina scema ma dal sicuro avvenire, l’uomo un po’ rude, realistico ma senza fascino, la donna, questa sì fascinosa, ma troppo provata dalle esperienze pregresse su teatri bellici. Il tutto narrato secondo lo scontatissimo schema del road movie a stelle e strisce. Guardando Civil War ci si trova quindi immersi in una sorta di esperienza di viaggio nel più profondo e terribile caos, di cui i protagonisti si guardano bene anche solo dal provare a comprendere e discutere le cause più profonde. Unica loro priorità è lo scattare quante più foto possibili di sicuro impatto: va da sé, tanto meglio se raccapriccianti e scioccanti. L’agognato obiettivo finale è ovviamente lo scoop degli scoop. Cosa può essere infatti a spingere i nostri quattro giornalisti a muoversi in auto da New York verso Washington nonostante gli infiniti e abissali pericoli incombenti? Ovvio che altro non può essere che l’intento di incontrare, fotografare e intervistare Lui: sì proprio lui, il presidente in carne e ossa, rintanato in una Casa Bianca super militarizzata!

Il finale consisterà dunque, naturalmente, nel confermare tutto il nichilismo di maniera ostentato fin da principio nella pellicola. Che il marcio del marcio, causa di ogni male quindi anche della Civil War, stia proprio al top del potere statale è morale la quale non può mai dispiacere al popolo della cosiddetta “più grande democrazia del mondo”, nonché dei suoi paesi vassalli come il nostro. In conclusione, non va comunque dimenticato che Alex Garland, autore di Civil War, può vantare una biografia di tutto rispetto: oltre che regista e sceneggiatore di altre note pellicola (come Ex Machina nel 2015 e Annientamento nel 2018) è anche scrittore di libri di successo come The beach (L’ultima spiggia), da cui è tratto il famoso film di Danny Boyle con Leonardo Di Caprio  protagonista. Per ponderare in maniera adeguata pregi e difetti di questa ultima fatica del Nostro sarebbe quindi consigliabile ripensarla alla luce di tutta la sua notevole carriera. Resta comunque il dubbio che Civil War non passerà per il suo film più convincente.

[1]https://www.machina-deriveapprodi.com/post/per-un-pacifismo-disincantato

[2] Postdemocrazia, Roma-Bari, laterza 2003

Questo articolo è stato pubblicato su Juliet il 4 luglio 2024

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