A Bologna, la lunga estate del cinema entra nel vivo

di Silvia Napoli /
1 Luglio 2024 /

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Come ormai saprete benissimo, bolognesi autoctoni, acquisiti, di passaggio o stanziali che siate e qualunque siano i motivi che vi spingano a trascorrere una parte, o buona parte di una stagione dell’anno ormai ontologicamente impervia come l’estate nella città petroniana, proprio quel complesso di iniziative variegate e spesso in sovrapposizione o contrapposizione che definiamo Bologna Estate, costituiscono uno dei motivi di vanto culturali della città. Una gigantesca festa mobile spalmata un po’ per tutti i gusti sui punti cardinali urbani e che nel tempo ha maturato rituali, consuetudini, riti di passaggio e iniziazione. Saprete anche benissimo e non vi è bisogno alcuno venga a spiegarvelo io, che il festival Biografilm di cui vi abbiamo narrato abbondantemente, apre le danze della stagione cinematografica più pop estesa e allo stesso tempo culturalmente storicizzata e stratificata che esista. Vengo giusto a riparlarne ora che i vincitori ufficiali delle varie sezioni sono stati proclamati con alcune conferme e diverse sorprese. 

Mi consta anzitutto riferire anche di una macchina organizzativa che forse abbandonati i vezzi e i lussi degli inizi ovvero tempi pre-covid di vacche meglio nutrite, riesce con successo, in un mix incredibile e per niente formale di volontariato e collaudate competenze professionali, a soddisfare curiosità, esigenze e istanze dei giornalisti accreditati, dei critici, dei giurati e infine del pubblico sia occasionale che fidelizzato. Il tutto nella sequenzialità impeccabile e dal punto di vista cronologico che delle location, sia nelle proiezioni, che nei dibattiti aperti, che negli incontri riservati con i diretti protagonisti della kermesse stessa, attori, registi, produttori, da tutto il mondo, praticamente, in maniera diretta o per interposta impresa.  

La efficacia del percorso, che come sappiamo fino alla noia ha prodotto meccanismi virtuosi di distribuzione e coproduzione che mettono Bologna al centro del fatto filmico in modo fattivo e plasticamente reso dalla apertura e riapertura di sale cinematografiche, percorso peraltro generativo di links fecondi con la Cineteca, l’Università, le piccole produzioni indipendenti e persino a volte i film di famiglia, si evince da questi preziosi incontri con i casts realizzati nell’avamposto della press area presso Sympo.  

Qui davvero tutto sembra possibile, persino riavvolgere i nastri delle esistenze all’indietro e cambiare le sorti del mondo per come fin qui lo abbiamo conosciuto.  

Sorprendente per quieta padronanza della comunicazione e semplicità di sguardo, da parte di tutto l’ensemble presente risulta in tal senso l’incontro con un lavoro dal titolo singolare quale la Morte è un problema dei vivi, per la regia di Teemu Nikki, un finlandese simpatico che sembra sbarcato da un Summer Jamboree e per il quale il nostro Andrea Romeo nutre una stima incondizionata e devo dire ben riposta. Questa proiezione si pone come evento speciale e a mio avviso il film è davvero speciale.  

Tutti noi conosciamo una certa vena nordica paradossale e attratta dalle criticità sociali e quasi ontologiche del nostro mondo, del resto la scuola del dogma qualcosa ha voluto dire, ma qui stiamo parlando di un gioiellino di humour nero, così profondo e poetico nel descrivere in maniera originalissima i meccanismi dello stigma e dell’emarginazione da lasciarti a bocca aperta. Macabro, spudorato, delicato, sono le prime suggestioni che mi vengono in mente, unitamente ad un certo orgoglio per il fatto che appunto tanta verità venga fuori anche da uno sforzo congiunto di produzione con i nostri eroi di I wonder e non solo dato che anche la splendida colonna sonora, parte integrante della narrazione stessa è opera dell’italianissimo Marco Biscarini. Potrei discettare per ore della maestria degli attori e dell’intelligenza del pretesto narrativo che caratterizza il film, ma non riuscirei poi a raccontarvi tante altre cose di questo e di altri festival come invece intendo fare.  

E infatti, bisogna dire qualcosa anche di questo Hors du temps di Oliver Assayas… regista cui viene attribuito il prestigioso riconoscimento carrieristico che è il Celebration of lives award2024, in condivisione con Ted e Vanessa Hope, documentaristi americani openminded.  

Hors du temps, inaugura da film francese di classe, tutto il Biografilm, come del resto accadde anno scorso con sur l’Adamant e devo dire che oltre l’apparente svagatezza malinconica del film che descrive un lockdown un tantino privilegiato, più simile a un buen retiro, peraltro che, questo lavoro si rivela, pensandoci su, una impietosa carrellata di vezzi e vizi borghesi nonché un implicito rewind sulla cultura francese, le sue forme di sciovinismo e globalizzazione incluse, almeno dalla nouvelle vague in avanti. Un film in cui non accade quasi niente, ma tutto si intuisce in filigrana e che riesce ad assumere un altissimo livello di universalità a dispetto dei presupposti proprio perché apertamente incarnato nella biografia del regista stesso. All’incontro con la stampa si presenterà una delle coprotagoniste, la splendida Nine d’Urso, figlia di un’icona dello stile internazionale quale l’inarrivabile Ines de la Fressange. Vibrante di intensità tutta giovanile l’incontro con Tito Puglielli e Marta Basso realizzatori dello splendido Che ore sono, che poi andrà a vincere la sezione Biografilm Italia, un doveroso omaggio basagliano nell’anno di un centenario che suona come una campanella d’allarme per le mille forme di neosegregazione dell’oggi. Che ore sono, ritrae in una maniera cui nessuno può sottrarsi, tre esistenze apparentemente cristallizzate dentro una residenza psichiatrica palermitana, impegnate in realtà in una gara di resistenza all’annientamento identitario. E suona anche implicitamente come un suggerimento per la resilienza al senso dell’impotenza e di fallimento che domina ormai le vite anche dei nostri giovani oltre che quelle dei maturi protagonisti del film: ovvero un ponte generazionale di ascolto e accoglimento oltre gli steccati e i distinguo. Mi hanno davvero conquistata la freschezza e la voglia di capire che diventa volontà di sapere foucaultianamente intesa da parte di questi promettenti autori. Ma le conquiste emotive, le emozioni, i coup de foudre, sono all’ordine del giorno a presentazioni, meetings e quant’altro…non si può prescindere allora dall’incontro con gli altri due insigniti del celebration award, ovvero la golden couple Hope. Naturalmente leggere le singole biografie dei due eppoi quella che diventa una storia di condivisione offre spunti di riflessione davvero illuminanti… La verità è che Vanessa e Ted Hope oltre ad essere una coppia bella da vedere e da ascoltare ed un sodalizio inimitabile come del resto quello sempre presentato qui al Biografilm e costituito dagli artisti visivi Jacob Perlmutter e Manon Ouimet, stanno a dimostrarci le infinite possibilità di movimento  tra spirito autoriale di matrice europea, mainstream industriale eppoi di piattaforma, produzione rigorosamente indipendente nelle forme e nei contenuti. Ma, soprattutto, gli esiti felici di questo muoversi che approdano infine ad una visione originale perché di prima mano e per nulla condivisa nei media ufficiali degli affari di politica estera più scottanti e significativi a livello geopolitico. La carismatica coppia del documentario sospeso tra reportage e inchiesta come solo loro sanno combinare si presenta nella saletta stampa del festival per parlare soprattutto della Nazione invisibile, un sorprendente affondo sull’isola di Taiwan e i suoi tormentati rapporti con la Cina, il tutto filtrato dall’esperienza umana e politica della sua presidente, la prima donna insignita di questa delicatissima carica. Il film ce la mostra nelle situazioni più disparate e critiche, nei consessi interni e internazionali, sempre compos sui persino al cospetto della temibile presidenza cinese. I due coniugi si dividono generosamente la scena, ma con amabilità e grazia tratteggiano un panorama di ipotesi critiche di livello, non fossimo già stati abbastanza colpiti dalle immagini che ci mostrano un paese piccolissimo e sotto pressione di cui in realtà sappiamo pochissimo, come serbatoio di pratiche democratiche e inclusive assolutamente inedite per il sudest asiatico. I taiwanesi ci vengono mostrati come perfettamente in grado di integrare il pensiero tradizionale con i diritti civili più innovativi persino per noi. Ma, avvertono i nostri eruditi documentaristi il problema è che esattamente come per altre scottanti aree di frizione internazionale, non c’è un vero interesse a chiudere diplomaticamente e con compromessi accettabili queste situazioni da parte delle maggiori potenze sedute ai tavoli delle organizzazioni internazionali ed ambiguo risulta nelle ultime presidenze il ruolo degli Stati Uniti stessi, se non sfocato, non autorevole. Insomma, quando veramente si ha l’opportunità di toccare con mano la ricchezza dei punti di vista… si fa presto a dire documentario, perché gli stili e le modalità di approccio sono molteplici…non mancano all’interno del festival opere di taglio più artistico o storicizzato. Questo è il caso di un ‘opera che si presenta compatta ed elegante, realizzata del resto con la collaborazione di Art’è ed il supporto del Mic, ma è in verità un certosino montaggio o in gergo footage di materiali d’Archivio, sullo “Scandalo della Storia”, che ricostruisce a partire dal clamore suscitato dal Romanzo più romanzo degli ultimi decenni italiani l’enigmatica biografia di Elsa Morante e uno spaccato della vita sociale e culturale italiana specialmente romana tra primo dopoguerra e anni 70/80. Presente in sala lo smagato nipote della grande scrittrice, probabilmente da troppo tempo gravato da questo peso testimoniale probabilmente assai invasivo. Una restituzione in questo caso ricca e sfaccettata dei tempi in cui ci si poteva accapigliare sull’interpretazione di una certa postura letteraria piuttosto che di un’altra.  

Ma se diciamo Italia e se vogliamo scendere su questioni più a noi geograficamente e sentimentalmente vicine dobbiamo naturalmente riferirci anche al docu sul funerale di Berlinguer, o meglio, sugli ultimi giorni della vita di un grande forse controverso ma comunque rimpianto politico e perché no, statista quale Enrico Berlinguer, questo Prima della fine di Samuele Rossi, che va in concomitanza con uno spettacolo di Luca Telese in Arena che a ritmo serrato ricostruisce una lunga epopea italica attraverso la lente della scorta personale del leader, per meta romana e per meta emiliana. Si evince dalle parole appassionate e febbrili di autori tanto diversi tra loro, una urgenza sentita non solo di omaggio biografico, ma evidentemente del ritrovare ragioni e fili da riannodare di decenni che non smettono di interrogarci. Mi pare significativo e sintomatico che mesi orsono abbiano presentato un lavoro su Berlinguer e la liturgia laica che accompagno la sua morte anche i nostrani Rossi e Mellara e che sia in corso al Museo civico Archeologico una bellissima mostra dedicata all’intenso evolvere di pensiero politico di Berlinguer. Una mostra impegnativa che richiede il suo tempo e che non trascura alcun aspetto della dedizione morale e intellettuale del nostro. Ma infine ogni festival che si rispetti ha i suoi outsiders e i suoi beniamini ed eroi locali che si rispettino. Il caso è quello di Romina Cabezas, che dà volto, corpo e voce al film a lei intitolato e ai suoi registi attivisti Valerio Lo Muzio e Michael Petrolini che vanno a vincere il premio dello spettatore e anche diversi altri, compresa la sceneggiatura con questo sorprendente e accattivante docufiction home made, nel senso di essere ambientato e girato tutto in Bolognina il rione più iconico della nostra città almeno dalla famosa svolta e che qui viene proposto come luogo di resistenza culturale in primis.  

La storia che si racconta è quella della sua giovanissima e dolcissima protagonista, ragazza bolognese a tutti gli effetti, ma di origini ecuadoregne, in questa porzione di città dalla nascita, provata ma non segnata, da complesse vicissitudini familiari che piuttosto che condizionarla, la spingono invece verso una possibile realizzazione. Una realizzazione a dir poco sofferta attraverso la pratica di uno degli sport più duri esistenti, quale la boxe. Il contesto, il fuori che la circonda oltre l’ambito familiare è quelle palestre popolari che certo più ascolto e supporto meriterebbero e che bisognerebbe indagare quanto fungano da supporto sociale e meccanismo di recovery anche in questa città, pur famosa per i suoi servizi ai cittadini. Si tratta di piccole realtà indipendenti di qualità, spesso in precarie condizioni di sopravvivenza e che sono invece fiori all’occhiello rispetto alla capacità zione di soggetti giovani ed eventualmente in condizioni di fragilità o disagio. Qui si fa sul serio e campionesse di livello europee quali la mitica Pamela provengono dal medesimo milieu della Bolognina boxe. Per Romina i giochi per ora sono ancora aperti, data la sua situazione personale sospesa e in via di evoluzione, ma la dignità che il film le restituisce io credo, sia oltre al valore aggiunto della possibilità di esprimersi un quid che riguarda tutta una generazione e una classe oltre a un quartiere.  

In sede di incontro con la stampa e poi anche con il pubblico, molti rilevano apprezzando, l’assenza di una Bologna da cartolina e taglieri in questa corale opera seconda dei nostri registi, nello stesso tempo il film accortamente evita la retorica della banlieue disperata e degradata che poteva essere una tentazione e anche quella all’opposto di un film della retorica della riscossa e del successo un po’ tra Rocky e Flashdance, per intenderci. Non è questo però il caso proprio perché l’ancoraggio è la realtà di vite che potrebbero stare forse rappresentate in una serie, ma che rivendicano però orgogliosamente l’appartenenza ad un mondo schierato e ben politicamente orientato. Ce lo dicono i rimandi in conferenza stampa che gli autori inseriscono ripetutamente durante la conversazione ai compagni colpiti dal divieto di dimora, peraltro rientrato mentre scrivo per i fatti della stazione ferroviaria. Case occupate, spazi di quartieri alternativi fuori dalle logiche del commercio la fanno da padroni nel film, ma anche nella vita vera in un quartiere quale Navile che muta pelle velocemente, che scatena dibattito anche acceso sulle peculiarità e caratteristiche che lo animano. Un mix non scontato di partecipazione, gentrificazione e autentico afflato alternativo e popolare sono i tratti, infatti, che emergono in alternanza o in parallelo a seconda dei momenti.  

Molto interessante si rivela a questo proposito la breve intervista che decido di farmi rilasciare dalla protagonista in persona, strappandole peraltro tempo prezioso per le sue numerose attività del quotidiano  

La prima cosa da dire è che Romina non si sente una star e che ha ben presente, lei si che può ragionevolmente dirlo, di far parte di una comunità. Quella della palestra certo, ma anche quella delle corti degli alloggi di edilizia popolare, non necessariamente luogo di spaccio o brodo di coltura di baby gangs, ma anche incubatori di creatività collettiva. 

Se ne andrà, mi dice, non sarà perché non sta bene nel quartiere dove ha tutte le sue amicizie e i suoi affetti più cari, ma perché questo paese in generale offre troppo poco ai giovani e Bologna è una città costosa. 

Non è vero che i ragazzi, almeno quelli della sua balotta estesa abbiano il mito del successo a tutti i costi. Non c’è la retorica del trapper ingioiellato, ma certo si rivendica il diritto ad avere una vita dignitosa e a poter esprimere contenuti di valenza cultural-identitaria come tutti. Non ci sono neppure al di là delle diverse provenienze anche da culture islamiche, a suo dire, differenze di indicazioni comportamentali particolari tra ragazzi e ragazze coetanei, ci sono invece i limiti imposti da una provenienza sociale oggettivamente subalterna. Quando il film inizia ad essere pensato Romina ha a malapena 19 anni e funge in quel momento un po’ da capofamiglia, oltre ad allenarsi duramente. Poi c’è stata in mezzo una lunga pausa imposta dal covid e oggi Romina che ha pochi anni di più, vede addirittura che i più piccoli ancora, anche se maschi, oggi vengono protetti di più per quanto è possibile. 

Se esistesse la bacchetta magica per voi giovani di quartiere, che cosa vorreste? 

Io credo che vorremmo spazi. Spazi dove poterci aggregare, incontrare, fare anche semplicemente festa. Oggi tutto questo non sembra possibile. Se non c’è il pregiudizio generazionale o etnico, c’è la logica commerciale. La socialità è anche profitto, qui come altrove e dunque basta pagare per avere… 

Nel docu, si vedono a un certo punto tanti luoghi vissuti di notte, da te, il tuo ragazzo, gli amici, si vede anche la mediatrice culturale… insomma uscite anche dal vostro perimetro… quanto tutto questo è importante per voi? 

Io credo che sia giusto vivere la città senza ghettizzazioni, nella sua interezza, senza particolari mitizzazioni di questo o quel posto semplicemente perché bianco o più ricco. anche fosse soltanto per conoscere e rendersi conto. Noi conosciamo bene certi posti, persino dentro però l’area Navile, non li conosco tutti… per esempio a Gorki che ha quella scena notturna mentre si rappa, io c’ero stata poco … Invece è bellissimo con i murales. La canzone che senti come colonna sonora si chiama la Zona, ma senza sapere che la storia di quei murales li era legata ad un docu a sua volta intitolato la Zona (n.d.r.: in quel caso citazione da un film famoso) lui è un giovane musicista cresciuto nell’ambito delle corti. Quindi poi gli spazi a noi servono per fare poi tante cose diverse. Si fa molta produzione musicale, ma anche grafica (fumetti, serigrafie, magliette). Il mondo dei grandi, del potere, lascia un sacco di posti vuoti, inutilizzati. Dicono di non avere soldi ma noi diffidiamo che sia del tutto così. Io credo ci sia anche una difficolta di intendersi tra linguaggi e culture diverse e quindi non capire i nostri bisogni o non fidarsi a loro volta del tutto di noi. 

Quanto è importante la politicizzazione all’interno delle vostre collettività? Credi che carriere politiche vere e proprie interesserebbero anche le vostre generazioni? 

Si, non è vero che i ragazzi oggi sono indifferenti o solo consumatori. La causa palestinese è molto sentita in Quartiere e c’è una larghissima e combattiva partecipazione popolare a tutte le manifestazioni che vengono indette ogni settimana. Ma non sono tanti quelli che aspirano magari ad una rappresentanza istituzionale. Tuttavia, ne conosco alcuni. Se ci venissero dati più strumenti, potremmo farci valere di più. Anche le carriere politiche non sono facili. Ma io ne conosco comunque, anche una mia amica, ora che ci penso: ecco lei vorrebbe essere una sorta di portavoce politica. Io però sono consapevole del fatto che oggi non sia facile per nessuno, anche per i miei amici registi che hanno studiato e tutto. Fare e produrre questo film è costato tanto rispetto alle risorse a disposizione, nonostante certamente i costi saranno più contenuti rispetto ad altre cose. 

Dunque, cosa ti aspetti da questo film, che secondo me ha raccolto molti consensi, ha fatto discutere etc.? se dovessimo chiudere con una considerazione’ 

Io non mi aspetto niente… ho girato facilmente, ma adesso andare in promo e parlare in pubblico mi costa fatica… non avevo valutato bene cosa significhi essere mediaticamente esposti anche a questi livelli ridotti rispetto ad altri… pensavo fosse finita qui e invece mi hanno detto di tornare per la cerimonia finale… so che ci sono lavori bellissimi e non sono così ottimista sui riconoscimenti. Però sono contenta di averlo fatto. Ho potuto anche spiegarmi senza filtri al mondo e ne vado orgogliosa. Anche per la mia famiglia, che adoro. Con la boxe è un discorso in sospeso per ora, perché devo pensare sempre in primis alla sostenibilità economica. Però dico a tutti: fidatevi dei giovani e date loro opportunità. Ai miei coetanei dico che è bello viversi il quartiere, che non è mai un posto di serie B, ma dipende da noi farlo crescere e diventare anche una tendenza.  

Direi che una chiusa più eloquente non potrebbe esserci per questo festival che sa unire i famosi puntini tra lontani e vicini e creare l’immagine finale di un mondo tutto sommato almeno un po’ più comprensibile. 

Ma, a proposito di cinema, si accendono i riflettori su piazza Maggiore, il più grande spettacolo dopo il big bang ed è iniziato il Cinema Ritrovato, la rassegna filmica più raffinata al mondo, fiore all’occhiello della nostra gloriosa Cineteca, una delle risultanze più gloriose del welfare nostrano, che ci estasia con un omaggio alla divina Marlene, un altro focus su Delphine Seyrig, attrice- strega-femminista, feticcio e musa di grandissimi maestri, un catalogo semplicemente meraviglioso nonché con la cura e l’amore per il restauro e la valorizzazione. In piazza, democraticamente tutti esposti alle intemperie, tutti pazzi per un Wenders in grandissima forma e la nuova versione tirata a lucido di un commovente Paris Texas, omaggio implicito ai tanti che non ci sono più. Lunga vita, dunque, alla nostra piccola patria cinematografica. 

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