Con le censure televisive e le prese di posizione anti-antifasciste, Meloni e il suo governo provano a buttare la storia in caciara. La posta in gioco è la possibilità stessa di farsi carico del passato, senza sotterfugi e rimozioni
Ogni governo ha almeno un dente che duole: e la lingua, inevitabilmente, prima o poi, talvolta o spesso, finisce a batterci. In bocca ai governi di destra secondorepubblicani, il dente doleva al battere della lingua sul conflitto d’interessi del capo magnate, o sull’origine indicibile delle sue fortune, o sulle ragioni della sua discesa in campo: anche allora capitava che l’anestesia venisse somministrata alla televisione pubblica. Dalla capitale dello Stato con il cui nome si designano, irrispettosamente per lo Stato, le percentuali schiaccianti, il capo aveva detto: «l’uso che [Biagi Santoro Luttazzi] hanno fatto della televisione pubblica, pagata coi soldi di tutti, è un uso criminoso». Anche allora, dunque, se n’era fatta una questione di soldi. E dato che tra l’allora e l’oggi c’è una certa continuità di uomini e donne di governo, non sorprenderà una certa continuità anche di metodi e argomenti.
L’uso propagandistico del passato
Ma, qui, sono più istruttive le differenze. Chi aveva previsto che l’azione del governo Meloni si sarebbe modellata sulle guerre culturali della destra radicale contemporanea, adattandole al contesto (è il caso di dirlo) patrio, troverà un’ulteriore conferma nelle polemiche di questi giorni a ridosso del 25 aprile. Ho proposto di chiamare uso propagandistico del passato il fronte su cui una di esse è combattuta. Con quest’espressione intendo l’impiego sistematico nella retorica politica di riferimenti a fatti storici, non per accertarli, se del caso rivedendo l’interpretazione tradizionale secondo le regole del gioco storiografico, ma per rivendicarli a sé in chiave identitaria, cioè per attrarre consenso alla forza politica che si rappresenta, oppure per rimproverarli all’avversario, per inchiodarlo alle sue colpe storiche e quindi screditarlo nel presente. Sono fatti del passato usati in chiave identitaria dalla destra italiana, ad esempio, l’omicidio di Sergio Ramelli a Milano nel 1975, e quello plurimo di via Acca Larentia a Roma nel 1978. Sono fatti usati dalla destra italiana contro le sinistre, ad esempio, le vicende del confine altoadriatico, compresse nella sineddoche «foibe», o nell’antonomasia Norma Cossetto. Il primo insieme può intersecare il secondo, perché Ramelli e i morti di Acca Larentia possono essere presentati, lo ha fatto Meloni chiedendo la fiducia alla Camera, come vittime dell’antifascismo militante, oltreché come propri caduti. Oppure, virata la sua vera fede fascista in nazionalismo, magari un po’ aggressivo, Norma Cossetto può essere presentata, oltreché come vittima della violenza dei partigiani titini, come martire dell’italianità.
Davide Conti lo chiama populismo storico, tentando di recuperare al sostantivo «populismo» il significato pregnante, che l’abuso gli ha sottratto, di traduzione immediata del sentire popolare nell’azione di governo: immediata, cioè senza il tramite dei corpi intermedi. Il che, trattandosi di storia, significa la pretesa da parte della politica d’interpretare, ossia di dettare, un senso comune del passato, senza transitare per la mediazione delle storiche e degli storici di mestiere, quando non in aperta opposizione alla loro verità d’èlite. È il gesto del calciatore che corre verso la porta con la palla in mano, incurante delle proteste degli avversari. Ma non è questo un gesto creativo, di qualcuno che voglia costituire le regole di un gioco diverso, invitando altri ad accettarle e a unirsi al nuovo gioco; è il gesto imperativo di chi dice: «il pallone è mio».
L’approdo di questa tendenza è l’arbitrio: perché, sottratto all’obbligo delle regole, che è poi quello di confrontarsi criticamente con documenti e testimoni di un fatto storico secondo le pratiche verificate tra pari da studiose e studiosi, l’evento storico si riduce al suo nome (si chiami, quest’evento, Attentato di Via Rasella, Strage di Acca Larentia o biografia di Giorgio Almirante), mero contenitore verbale riempito del contenuto deciso da chi prevale nei rapporti di forza. Fortunatamente quella al puro arbitrio è, appunto, una tendenza: e non potrebbe essere altrimenti, dato che solo un totalitarismo compiuto, che come si sa è un’astrazione, non avrebbe resistenza, dunque potrebbe disporre a piacimento anche del passato.
La censura boomerang
L’uso propagandistico del passato può avere una funzione offensiva (screditare l’avversario) o legittimante (accreditare sé stessi come continuatori di un passato glorioso, oppure come innovatori contro un passato nefasto): in ogni caso, presupposto di quest’atteggiamento è la pretesa di disporre del passato come proprietari, che è una disposizione soprattutto difensiva. Solo il proprietario può disporre del suo dominio, e per poterne disporre esclusivamente lo difende dalle aggressioni altrui. La storia, però, non è di proprietà di nessuno, cioè è di tutte e di tutti: nessuno, quindi, ha il diritto di disporne esclusivamente. Eppure la tendenza è questa.
Non c’è dubbio che del monologo di Antonio Scurati sul 25 aprile sia stato sgradito il contenuto, non il corrispettivo pattuito tra la Rai e l’autore; che per il contenuto, non per il compenso, si sia impedito a Scurati di leggerlo in onda, con gli esiti che sappiamo: lo dice l’Usigrai, che opportunamente mette la vicenda nel contesto più ampio della politica aziendale di quest’’ultimo anno e mezzo; ma lo dice senza mezzi termini, e a ragione, anche un’esponente politica al riparo da qualsivoglia accusa d’estremismo come Rosy Bindi.
Di sicuro a provocare il non placet non possono essere state le affermazioni dello scrittore a proposito del fascismo storico, tutte storiograficamente fondate, anzi ovvie. A far scattare la censura boomerang, chiunque ne sia il responsabile (le indagini, ci assicurano, proseguono indefesse e caparbie), è stato il fatto che Scurati ha definito Fratelli d’Italia un partito postfascista. Definizione, pure questa, difficile da contestare, sia da un punto di vista banalmente cronologico, sia da un punto di vista genealogico: non è stata forse Meloni, nel discorso della fiducia alla Camera, a sgranare il rosario della sua tradizione politica, e a compitare diligentemente il ruolo di Almirante nella costruzione della destra democratica del paese? Certo, pubblicando il monologo di Scurati Meloni ha fatto fare all’ignoto censore la figura di più realista del re, e la linea del «dagli al burocrate» è passata senza problemi: l’Editto di Sofia avrà pur insegnato qualcosa, alla classe dirigente aprés Berlusconi.
La proprietà dell’eredità del fascismo
Ma al netto dei risvolti mondani, a me pare che la vicenda del monologo di Scurati riveli qualcosa di più profondo sul rapporto che questo apparato di potere intrattiene con il suo passato. Il messaggio implicito è: «noi, destra di governo venuta dopo il Msi, siamo i soli a poter decidere come e quanto fare i conti con l’eredità del fascismo e del neofascismo; solo a noi compete di raccontare il rapporto con la tradizione da cui veniamo». La qual cosa non farebbe problema, se si trattasse dell’elaborazione di una memoria privata: solo che qui non si tratta di una memoria privata ma di una storia comune, non di un’elaborazione privata ma dell’esercizio di un potere di vertice.
Che poi Fratelli d’Italia si ricollochi dentro a questa sua tradizione con passi diseguali, che il suo regime istituzionale fatichi a disciplinare, diciamo, la ritrosia di più d’un dirigente a lasciare indietro i vessilli aviti (e i vessilli dovranno pur simboleggiare le idee: altrimenti a che pro?), anche tutto ciò non può sorprendere: si dovrà pur riconoscere che per una via in equilibrio tra manganello e doppiopetto è già capitato di transitare agli ascendenti, più remoti e più prossimi, della grande famiglia che è la destra democratica di marca almirantiana.
Per sollecitare l’automatismo al far quadrato basta il sentore che qualcuno d’estraneo alla comunità (peggio ancora se rinnegato!) voglia parlare di un evento di quel passato identitario. È bastato ad esempio l’annuncio che il libro di Valentina Mira, Dalla stessa parte mi troverai, avrebbe trattato in qualche modo la strage di Acca Larentia, ed ecco fatto il quadrato: libro revisionista. Pazienza se su Acca Larentia il libro non dica niente di nuovo, come ammette onestamente la stessa Mira. A riprova che l’uso propagandistico del passato è fatto di nomi più che di cose, di simboli più che di argomenti.
La propaganda penale
Un ultimo aspetto, per esaurire gli spunti offerti in materia dalla cronaca di questi giorni. Si può discutere se il processo in cui Luciano Canfora è imputato di diffamazione a Giorgia Meloni per averle dato di «neonazista nell’anima» faccia o meno collassare indebitamente il diritto penale sulla polemica politica. Dipende da come si svolgerà il dibattimento. Una considerazione però bisogna farla, ed è una considerazione che riguarda il piano, diciamo così, spettacolare. Giorgia Meloni che querela Roberto Saviano e Luciano Canfora, Matteo Salvini che querela Roberto Saviano, Francesco Lollobrigida che querela Tomaso Montanari e Donatella Di Cesare: certo c’è in questi casi un ovvio squilibrio tra querelanti e querelati, essendo esponenti di governo i primi e privati cittadini i secondi. Lo squilibrio, che pure esiste, è qui però meno grave che altrove, perché i querelati hanno, e auspicabilmente continueranno ad avere, spazi in cui proporre al pubblico le loro opinioni. Quindi, più che servire a silenziare i dissenzienti, come accade di solito quando è fatto uso politico del reato di diffamazione, l’impressione che si ricava nel complesso è che queste querele assolvano soprattutto alla funzione di allineare idealmente sul banco degli imputati alcuni tra i simboli della cultura avversa e ritenuta egemone. Quasi che il processo in sé avesse valore pedagogico di un modo d’intendere il rapporto tra politica e intellettuali non organici: propaganda penale.
Di fronte a tutto questo palese buttare la storia in caciara (vedi ancora Lollobrigida che dichiara che i costituenti, nel vietare la ricostituzione del partito fascista, pensavano alle proteste studentesche) è quantomai necessario restare seri, rigettare il livello vile della polemica e rimanere sul punto. Perché il punto, la posta in gioco, vale molto più di un’ospitata televisiva, di un premio letterario o dell’arguzia che ti fa vincere la battaglia del talk show. La posta in gioco, da cui la caciara ci allontana, è la possibilità stessa di farsi carico del passato, senza sotterfugi e rimozioni: di consegnarlo davvero alla storia e di fare in modo che, sul serio e non per finta, passi.
Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin il 14 aprile 2024