L’Alta Corte del Regno Unito ha deciso, dopo le udienze degli scorsi 20 e 21 febbraio, di accedere alla richiesta del collegio di difesa di Julian Assange di fare appello contro l’estradizione negli Stati uniti.
Vittoria per il fondatore di WikiLeaks? No, ma – per usare una nota immagine di Pier Luigi Bersani – poteva andare peggio. Infatti, se è vero che il resto dei capi di accusa rimane intatto, è assai significativo almeno uno dei punti di garanzia richiesti alla giustizia d’oltre oceano: vale a dire, il rispetto del primo emendamento della Costituzione di Washington e della correttezza del processo; oltre alla promessa di non includere nelle potenziali pene quella di morte e di evitare il trattamento riservato alla peggiore criminalità in un penitenziario del Colorado.
Se prendiamo come criterio di valutazione proprio il richiamo al primo emendamento, che permise all’analista dell’esercito Daniel Ellsberg (recentemente scomparso) e ai giornalisti che pubblicarono i Pentagon Papers sul New York Times e sul Washington Post senza conseguenze penali e civili, si coglie che qualcosa si sta muovendo.
Sopra e sotto la superficie, come adombrò giorni fa un articolo al riguardo del Wall Street Journal, testata assai vicina all’establishment. Lì emergeva una pressione sul collegio difensivo perché accettasse un patteggiamento (pratica assai usuale nel cosiddetto rito accusatorio degli Usa, un po’ diverso dalla fascinazione dei legal thriller hollywoodiani). Ma pure una simile strumentalità forse costituiva un segnale di qualcosa.
Del resto, Jo Biden non ha tanto interesse a presentarsi in una campagna elettorale all’ultimo voto contro Trump con il fardello di un peccato così pesante, certamente mal visto in Vaticano. Prova ne sia l’udienza privata concessa da Papa Francesco alla moglie avvocata di Assange Stella Moris e ai figli.
Il tempo concesso dall’alta Corte dell’Uk agli Stati uniti per le risposte alle richieste scadrà il prossimo 16 aprile.
Che potrà accadere? Comunque, una bella gatta da pelare per un paese alle prese con un voto di carattere storico, in cui il fantasma di Assange si appalesa di giorno e di notte come in una tragedia degna di Shakespeare.
Per la prima volta un giornalista subirebbe una condanna persino con l’accusa di spionaggio in base a una decrepita legge del 1917, che portò sulla sedia elettrica Julius ed Ethel Rosenberg nel 1953.
Non per caso Obama diede la grazia all’interlocutore principale di WikiLeaks Chelsea Manning dopo sette anni di carcere (e tre tentativi di suicidio), mentre Donald Trump infierì su Assange anche su input dell’ex capo della Central Intelligence Agency (Cia) Mike Pompeo.
Perché tanta crudeltà, arrivata al punto di programmare l’omicidio del giornalista australiano? Il motivo, sottolineato nel suo prezioso testo Il potere segreto (2021) da Stefania Maurizi, è l’aver svelato i misfatti tenuti nascosti delle guerre in Iraq e in Afghanistan, le atrocità di Guantanamo, le imbarazzanti conversazioni tra le cancellerie in cui emergeva il livello di cinismo bellicista e il fariseismo di governi «amici» che si spiavano come se niente fosse, nonché i traffici orribili della evocata Cia o della National Security Agency (Nsa).
Insomma, Assange – come fu Dreyfus – è il comodo capro espiatorio utile ai gruppi che hanno in mano il pallino del mondo e lo stanno portando alla rovina.
Se, però, si affermasse la tutela del primo emendamento, avverrebbe la svolta da tempo inseguita da difensori e movimenti FreeAssange. E non per caso l’Ordine dei giornalisti italiano ha dato la tessera professionale a colui che artatamente fu definito un hacker dedito a entrare negli omissis dell’Occidente.
Ugualmente, almeno venti sindacati di settore europei (in Uk pure) hanno fatta propria la lotta per la libertà di un collega coraggioso e bravissimo. Così pure la federazione della stampa con l’omologo internazionale, oltre ad associazioni come Articolo21, Rete NoBavaglio, Moveon, Amnesty International, La mia voce per Assange.
In conclusione, allora. Non ci si facciano illusioni, ovviamente. Ma non tutto è perduto. La mobilitazione civile e morale conta, eccome.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 27 marzo 2024