Per questa seconda parte del mio discorso (qui la prima parte), ci riferiremo a tre spettacoli teatrali estremamente diversi tra loro per peso, spessore, modalità di costruzione e valenza del femminile in alcuni casi assolutamente sotto traccia tanto da apparire un dettaglio in più rispetto al contesto generale. Una questione talvolta solo di linguaggi e di coraggio, postura dello sguardo e scusate se è poco.
Nel caso di due di loro, essendo inseriti in una progettualità di largo respiro e lunga gittata prometto approfondimenti corredati da interviste a breve, mentre il primo dei tre in ordine di apparizione si colloca a tutto tondo in un discorso di autorialità femminile e di biografia genealogica dello stesso. Mi sto naturalmente riferendo ad una produzione Ert Teatro delle Moline, ovvero Chi resta di e con Matilde Vigna che vede in scena con lei Daniela Piperno, grande interprete di cinema, teatro, televisione. Il tema è delicato e universale: la scomparsa di un nucleo familiare, l’atomizzazione letterale di una dinastia, quando l’unico genitore superstite della smagata protagonista viene a mancare improvvisamente privando l’eterna ragazza non ancora compiutamente donna di ogni punto di riferimento. Lo spettacolo attinge forza ed efficacia poetica proprio da una chiave di lettura che colloca l’esperienza relazionale madre e figlia contemporaneamente in una dimensione di ordinaria quotidianità pratico-burocratica, di concretezza materiale e disagio esistenziale di una per tutte e contemporaneamente in un assoluto abbacinante e indicibile che varca i confini delle storie e della Storia per proiettarsi in una cosmogonia tutta da scrivere e reinventare per quel poi, quel dopo di cui non sappiamo dire. Né rispetto a chi ci ha lasciato, né appunto rispetto a chi ammaccato rimane. La nostra figlia in crisi abbandonica chiama implicitamente a raccolta il pubblico a vegliare in una attitudine di soglia e funebre rispetto non tanto nei confronti di una madre che in realtà non vuole mollare affatto e occupa la scena zampettando su improbabili tacchi a spillo impartendo lezioni di vita consigli dell’acqua calda persino tutorial di beauty routine, ma proprio nei riguardi del suo sé infantile. Un se prepotentemente alla ribalta in posizione fetale, un corpo vissuto come ingombro, quasi carcassa spiaggiata che denuncia insoddisfazioni, pessime percezioni del sé interrogativi sul proprio tipo di femminilità non canonica e sulla propria condizione professionale. Lo spettacolo avvince e convince pur nella sua semplicità scabra e dolorosa per il tocco ironico surreale ispirato come apprendiamo dalle note di regia da mille spunti provenienti dalla miglior letteratura contemporanea internazionale e dal contrasto parlante tra i due tipi di fisicità in scena e dal tipo di recitazione che ne consegue tra naturalismo apparente e didascalica quasi brechtiana. Si fronteggiano due modelli due esperienze due vissuti molto lontani in una manciata di pochi anni di modernizzazione di un paese che intuiamo nelle retrovie come ipocrita impastoiato nelle burocrazie, precarizzato e forse disumanizzato da questa incertezza che impone di pensare solo a se stessi nel proprio qui ed ora. La fuga nello spazio, nell’azzeramento spaziotemporale di ogni barriera consente a Vigna con credibilità teatrale di evitare risposte affrettate e immediate a quesiti complessi e lascia libero lo spettatore testimone, quasi vicino di casa di assumere o no su di sé il peso dellìimmedesimazione e di interrogarsi pur entro un perimetro circoscritto sulle stratificazioni e proiezioni che il lavoro suggerisce. Una bella prova per Matilde Vigna che aveva già convinto e stupito con il precedente Una riga nera al piano di sopra, sospeso tra memoria storica e personale con grande convincimento.
È decisamente dalle parti del rapporto ancora tra Storia e memorie personali, trasmissione d’esperienza, eredità politica siamo con questo lavoro a scatole cinesi per complessità di lettura che è Volevo Risarcirvi per la regia di Gianni Farina di Menoventi. Il pretesto narrativo è in questo caso è l’emergere dal buio ventre della storia novecentesca di una valigia in cui una giovane donna dei nostri giorni preparandosi alla sua futura vita professionale di psicologa, tuttora in esercizio, ha rinchiuso tentando di obliare nel tempo, gli sconvolgenti nastri di interviste da lei effettuate in particolar modo in Emilia Romagna ma non solo a superstiti dai vari campi di internamento. Campi che apprendiamo subito essere di varie tipologie a seconda che gli sventurati reclusi siano prigionieri politici, devianti, vittime di odio razziale, maschi, femmine, destinati al lavoro pesante o allo sterminio pianificato. Lo spettacolo vede in scena due algide figure di fraulein narratrici e dicitrici dell’indicibile nelle persone di Rossella Dassu e Donatella Allegro, mai state sul palco insieme finora e perfettamente sincronizzate nel passarsi il testimone di ricordi e descrizioni sovente di atrocità insopportabile. Siamo dalle parti di Salò per intenderci tanto è il sadismo scientificamente e allo stesso tempo gratuitamente prodotto e somministrato nei campi che ascoltiamo come una eco insistente anche dalle voci registrate decenni fa degli allora sopravvissuti che trovano talvolta la forza di trovare risvolti ironici e la tigna del vivere per raccontarlo in quelle che possiamo considerare a buon diritto come deposizioni. Sorprendente ed efficacemente risolta come richiamo allo scorrere quotidiano della vita nonostante tutto da una regia tagliente e luminosa come una lama balenante nell’oscurità, la voce argentina e scherzosa nell’imbarazzo incosciente di allora di quella che è a tutti gli effetti là deuteragonista. Ovvero la giovane determinata ricercatrice di quei giorni chissà quanto consapevole di assumersi il ruolo più pesante, quello di chi raccoglie il testimone. La sua voce gentile fresca talvolta spiazzante, talvolta straniante scorre come un riverbero sonoro in mezzo ad un tappeto di musica elettronica suggerendo le mille stratificazioni e i mille scambi di parti che la distanza storica autorizza se si è disposti a pagare pegni e prezzi salatissimi. Le due Vestali del racconto inanellano narrazioni quasi senza sosta permettendosi pur nel rigore oggettivo dato dal dato di realtà della sbobinatura barlumi di pietas “collettiva”: il punto di forza di questo lavoro sta a mio avviso infatti di essere una esemplificazione del punto di vista femminista di connettere ciò che è personale, individuale soggettivo a ciò che è di tutti e dunque diventa fatto corale, di polis, tragedia shakespeariana che interroga antenati contemporanei e posteri allo stesso tempo e con la medesima urgenza intanto che le carneficine si moltiplicano sotto il nostro annebbiato sguardo ogni giorno. Ed uno spettacolo che contiene implicita la forza e la freschezza storica di uno sguardo femminile su uno dei capolavori della letteratura e dell’Arte tutta dell’800 come i Fiori del Male di Baudelaire e questo le Fleurs di e con Michela Lucenti, in corso di rappresentazione con molte sorprese e approfondimenti in questi giorni ad Arena del Sole nell’ambito del progetto Carne scritto e diretto da Lucenti stessa. Come dicevamo la ricchezza e varietà del concept ci impone come nel caso di cui sopra di andare nel prossimo futuro a fare un affondo su lavori pensati per restare e avere aperture di senso sempre nuove. Ma per intanto godiamoci tutta la dirompenza e l’energia di uno spettacolo intimamente connesso con l’alterità e forza dello sguardo di soggettività nuove che si affacciano alla storia: un lavoro ibridato di rimandi cinematografici, musicali, giocato anche in questo caso nei termini di una vertigine temporale, perfettamente iscritto in una filosofia queer e sovversiva. Se vogliamo una nuova formulazione anche per quei teatri che si occupano di Salute mentale. Uno spettacolo scatenato, potente e liberatorio che inneggia alle differenze, anche perché tiene in equilibrio danza recitazione,lirismo con presa e magnetismo animali. Quella diversità che oggi vogliamo bonificare e comprimere entro nuove ingegnerie sociali di compatibilità e quella perla meravigliosa che pur tuttavia costituisce la malattia, il difetto della conchiglia, questo l’ammonimento che una Lucenti in scena in versione street style ci consegna. Come in tutti i lavori di balletto Civile azzeccatissimi luci e costumi. Un lavoro che fa sbuffare in platea qualche conformista ma entusiasma finalmente senza retrogusto depressivo come forse solo negli anni 70 poteva accadere in effetti la nostra autrice mostra di aver inglobato e fatto sua una grande lezione di cultura camp forse caduta un po’ troppo velocemente nel dimenticatoio. Che dire ancora, se non consigliarvi di rimanere connessi e continuare ad andare a teatro con Babilonia Teatri e il loro Ok Boomers e Collettivo Cinetico sempre per Stagione Agorà? Un autentico antidoto ai molti mali del mondo e al nostro scontento invernale.