Non auguravo al peggior nemico quello che avevo passato io.
Da oltre vent’anni ogni 27 gennaio, in ricordo della liberazione di Auschwitz nel 1945, viene commemorata nelle sedi pubbliche e nelle scuole la tragedia della Shoah, la più efferata e radicale manifestazione di odio razziale mai praticata dal genere umano. Oltre alla finalità specifica di rievocare l’accaduto, la ricorrenza ha in sé il significato più ampio di affermare principi irrinunciabili per la convivenza e la pace in un mondo globalizzato, ovvero il rispetto dovuto a chi appartiene a religioni e culture diverse.
A distanza di quasi ottant’anni dalla fine della persecuzione, l’inattesa e brutale aggressione del 7 ottobre 2023 da parte dei militanti estremisti di Hamas contro il popolo israeliano rischia di far riaffiorare pericolosi fantasmi del passato. Il governo di Tel Aviv tende infatti ad accreditare la tesi che si tratti di rigurgiti di antisemitismo propri di un mondo arabo arcaico e intollerante, mentre chi conosce la storia del Medio Oriente sa bene che la questione è più complessa.
Le sue radici affondano nelle decisioni politiche assunte alla fine del secondo conflitto mondiale quando si doveva riparare a un male di enormi proporzioni. Ma l’intolleranza razzista nei confronti del popolo ebraico non è nata nel mondo arabo, bensì in Europa e si è consumata nei campi di sterminio creati dalla crudeltà estrema del nazifascismo. Gli arabi sono storicamente estranei al delirio del Mein Kampf e attribuire loro la responsabilità per il riemergere di pulsioni antisemite risulta fuorviante.
È contro il governo israeliano e non contro gli ebrei in quanto tali che si stanno levando voci critiche in molte parti del mondo e ciò dipende dalla reazione spropositata agli attacchi di Hamas messa in atto da Netanyahu e dall’esercito, contro Gaza. In questo modo si sta dissipando il capitale di solidarietà che nell’immediato, dopo l’aggressione omicida subita, il popolo israeliano si era guadagnato.
Molti, anche in Israele, avevano auspicato che la doverosa condanna dell’assalto terrorista del 7 ottobre venisse accompagnata da risolute forme di pressione politica ed economica contro i responsabili, oltre che da iniziative finalizzate alla liberazione di tutti gli ostaggi caduti nelle mani di Hamas per non accrescere il già intollerabile numero delle vittime, più di 1.200. Al contrario si decideva di colpire indiscriminatamente l’intera popolazione palestinese residente nella Striscia di Gaza e in aggiunta quella di Cisgiordania.
Ora, alle immagini dei corpi martoriati dei cittadini ebrei si sovrappongono quelle dei bambini palestinesi feriti o avvolti in teli bianchi, i volti sanguinanti delle madri, le immani macerie prodotte da bombardamenti che hanno cancellato condomini, quartieri, campi-profughi. Prima si è colpita Gaza Nord, per spingere poi la popolazione verso Sud ai confini con l’Egitto. Ma, una volta che centinaia di migliaia di persone si sono ammassate in ripari di fortuna o in povere tende improvvisate, le incursioni dei carri armati e dei cacciabombardieri israeliani hanno preso di mira lo stesso Sud, giustificando il cambio di direzione con la necessità della caccia ai dirigenti di Hamas che, come anguille, scivolavano via dalle mani dei militari.
Le distruzioni sistematiche di scuole, ospedali e presidi umanitari lasciano ovunque una scia di sangue e di orrori, non pari ma di molto superiore al danno patito. Agli abitanti di Gaza, già costretti a vivere in condizioni di indigenza e semi-libertà, si ordina di spostarsi giorno dopo giorno, anche se privi di risorse, senza riparo sicuro in nessun punto della loro terra e senza cure mediche. Il risultato di tanto accanimento è, al momento in cui scriviamo, di oltre 21.000 vittime palestinesi, di cui circa 8.000 bambini. Ultimo atto, il 24 dicembre 2023, vigilia di Natale, l’attacco contro il campo profughi di Maghazi nel centro della Striscia, con oltre 100 morti.
Intanto ben poco si sa degli sventurati ostaggi ancora nelle mani di Hamas, se non che qualcuno di loro non farà ritorno, essendo rimasto ucciso da “fuoco amico”. E non poteva essere diversamente, viste le tonnellate di ordigni mortali che cadono sul territorio invaso, armi fornite massicciamente dagli Usa, nel silenzio assordante della Comunità europea. Eppure non doveva essere difficile per Netanyahu circoscrivere il raggio d’azione ai capi di Hamas a lui ben noti, dal momento che lasciava transitare da Israele verso Gaza i petrodollari provenienti dal Qatar, destinati all’organizzazione islamica estremista, notizia sconcertante diffusa dai redattori del New York Times dopo colloqui con funzionari di Usa, Qatar e della stessa Israele.
Al momento pare che i capi dell’associazione terroristica non siano stati catturati o “eliminati” nel corso dell’operazione Spade di ferro. Israeleannuncia infatti che la guerra durerà a lungo, fino alla totale scomparsa del movimento islamico attentatore, ma non si tratta di una mirata micro-chirurgia bellica, come ci si potrebbe aspettare da un Paese che si dichiara democratico – qualifica che comunque deve valere anche in politica estera – bensì di un’aggressione a tutto campo che è stata paragonata a quella del Vietnam.
Quanto sta accadendo sembra frutto di decisioni assunte non da “intelligenze” umane ma artificiali, macchine efficienti e sbrigative, indifferenti al bene e al male e alle prospettive di lunga durata. Perché sicuramente non è vantaggioso per gli eredi della Shoah mostrare al mondo il volto spietato della vendetta e della ritorsione senza scampo e nessuna disponibilità ad affrontare e risolvere il problema palestinese.
Già negli anni Settanta del secolo scorso, Meran Benvenisti, sindaco ebreo di Gerusalemme, affermava, inascoltato, come la separazione coatta di due popoli che insistono sulla stessa terra sarebbe diventata “un mezzo di oppressione e dominazione”. Oggi il ministro israeliano della Difesa, Gallant, elenca con freddo distacco i Paesi del Medio Oriente nemici, ben sette, che quanto prima dovranno render conto della loro condotta ostile, prefigurando un futuro di scontri perenni e di uno Stato israeliano circondato da popolazioni e governi carichi di risentimento.
Il pericolo di un’estensione del conflitto è dunque concreto, anche per il tentativo di screditare l’ONU e vanificare i passi che tale organismo compie per fermare la guerra e ottenere un’altra tregua umanitaria, largamente invocata dopo quella che ha permesso la liberazione di una parte degli ostaggi ebrei, unitamente a prigionieri palestinesi.
Nonostante i segnali contrari bisogna augurarsi che la prossima commemorazione del 27 gennaio, oltre a ricordare la persecuzione del popolo ebraico messa in atto dal nazismo e dal fascismo nella “civile” Europa, sia l’occasione per riconoscere finalmente il diritto dei palestinesi a una terra pacificata dove vivere liberi e rispettati.
Edgar Mannheimer, nato nel 1925 in Cecoslovacchia, deportato in quanto ebreo con tutta la famiglia e internato nei lager nazisti, così si espresse dopo la guerra: “Nel campo di concentramento si pensava alla vendetta e si voleva vivere solo per vendicarsi, ma quando eravamo fuori sono arrivato alla conclusione che non auguravo al peggior nemico quello che avevo passato io. E ho cercato di non vendicarmi, ma di lottare perché non accadesse di nuovo. Ora la cosa più importante è che auguro al mondo intero solo pace e non odio. E che l’umanità impari qualcosa da quello che è successo.”