Sarà poi vero che le questioni di genere, abbiano avuto in questi ultimi nostri travagliati e guerreggiati tempi, una rilevanza culturale davvero strategica e se sì, in quale direzione, riguardo al più che addomesticato discorso pubblico?
Ci stiamo riferendo ovviamente a densissime settimane non solo inerenti iniziative in vari formati rispetto alla abituale celebrazione della giornata contro la violenza di genere, ma certamente anche al furore suscitato da un lato dalla tragica vicenda Cecchettin, non la sola peraltro negli stessi giorni, ma certamente la più discussa e destinata a suscitare reazioni per diversi motivi mimetico empatici, dall’altro dall’uscita forse non casuale di opere filmiche e diverse altre teatrali, diffuse almeno qua da noi financo in remoti centri di quartiere, riguardanti a vario titolo questioni di genere e discriminazioni di generi.
Si potrebbe per esempio iniziare da un’opera al calor bianco, quale Anatomia di una caduta per la regia di Justine Triet, film recente vincitore della Palma d’oro a Cannes.
E voi potreste legittimamente chiedervi e chiedermi, un ‘opera che si pone come …di genere, ma in quell’altra accezione che ci è familiare e dunque abbastanza canonica per stereotipia di ruoli e personaggi, come possa entrare nel dibattito, nel core ferito e umiliato del momento.
Con vostra personale sorpresa dovrete constatare che è possibile costruire una sorta di legal thriller europeo, intanto rispettoso di diverse convenzioni, stravolgendone tuttavia la mission, che in generale è di confermare la morale esistente, senza peraltro cadere in una sorta di fatale trappola distopica, anzi, introducendoci all’idea che giustizia ci possa essere a questo mondo, anche da posture differenti e per soggetti non facilmente classificabili.
Soprattutto che possano esistere versioni punto zero qualcosa della algida Kim Novack che visse due volte, per esempio in questa eccellente androgina Sandra Huller, anch’essa nel film expat dalle molte vite precedenti, ma ora, ad incipit di storia, esiliata in quanto scrittrice maritata e madre e dunque soggetta a compromessi, in uno scenario alpino inquietante come in un racconto di Durrenmatt e tutt’altro che pacificato a dispetto della purezza di linee e colori. Il film non può essere spoilerato in alcun modo e tuttavia deve la sua principale ragione di riuscita al fatto di inscenare, come potremmo altrimenti dire, un punto avanzato della guerra tra sessi. Una conflittualità nuova che preserva tuttavia tutto il mistero e la ritualità di una tragedia classica con tanto di riferimenti indiretti, appena suggeriti e pure calzanti con figurazioni di quella epica mitica e ancestrale
Ad esempio, aspetti evocati nel personaggio del figlioletto Daniel, una sorta di veggente Telemaco in erba, peraltro risolutivo per la conclusione giudiziaria del noir in questione. E, come in ogni autentico mistery che si rispetti alla fine la verità che l’umana Giustizia accoglierà, sarà quella che in fondo ci è stata sempre sotto gli occhi e che la cecità piena di pregiudizio delle nostre coscienze ci ha inibito ad accettare fino a che nel dibattimento ferocemente dualistico che il nostro bagaglio culturale ci impone, non si inserisce appunto una postura terza, intrisa di pietas, nonché dello strazio dell’innocenza sacrificata. E Dio sa, oggi che siamo annichiliti dalle notizie e immagini di infanzia violata provenienti da ogni parte del pianeta, quanto questo ulteriore sottotesto della pregevole opera di Triet, non sia centrale. Come a dire che una società in cui anche in termini affettivo-sessuali conti il risultato di successo pubblico a certificare una dominanza, poi quale che sia l’ordine degli addendi, il prodotto finale sarà una prevaricazione ingiusta e gratuita sull’anello più debole della catena. Il film che è un po’ anche un Io ti salverò alla rovescia, dove al posto degli occhioni vibranti della psicologa Bergman abbiamo il volto di sfinge che non fa sconti della spregiudicata scrittrice Sandra, deve molto anche a Lynch per le atmosfere, a molti altri rimandi cinematografici se pensiamo alle scene di tribunale più sottilmente cattive di sempre, in cui il pm di turno, ha qualcosa dell’Inquisitore a caccia di streghe novelle, ovvero le tanto temute femmes savants, le donne castranti. Un’opera corposa dunque anche per la durata e molto più complessa di quanto l’elegante confezione lasci supporre, soprattutto perché non vuole lasciarci con un finale consolatorio, che tale non è infatti ma che piuttosto ci invita a fare i conti con il fatto che tutte le perdite siano irreparabili e i prezzi da pagare per la costruzione della supposta normalità, o maturità dell’io ben integrato secondo legenda freudiana, siano salatissimi e i risultati sempre ambigui per via dei loro stessi fondamenti presuntamente naturali.
Ancora turbata da questa visione evidentemente molto parlante alle nostre anime tristi, visto il gran successo e la insolita permanenza nelle sale da entrambi i versanti alpini, nel pieno della settimana delle manifestazioni fucsia, mi reco anche a teatro, riuscendo a inserirmi per un pelo in quel del Teatro delle Moline, sempre per stagione Ert, per assistere alla prima bolognese di uno spettacolo che anche qui, entra a piedi pari in quel discorso sul patriarcato, da una prospettiva altra e spiazzante. Stiamo parlando ovviamente di quel Con la carabina, dal testo della giovane e promettente drammaturga francese Pauline Peyrade, che si è guadagnato grazie alla puntuale regia di Licia Lanera in stato di grazia, un premio Ubu per questa categoria oltre a quello come miglio testo straniero tradotto e rappresentato. Ma a mio avviso, altri premi avrebbe potuto vincere ancora, stante l’accuratezza di tutti gli elementi in opera dietro una voluta semplicità della scena, soprattutto concepita per risultare una wunderkammer claustrofobica e mostruosa da cui tutte siamo forse in qualche modo passate, anche senza arrivare ai mali ed estremi rimedi raccontati per flash e frammenti in un sapiente gioco di rimpalli tra i due protagonisti semplicemente perfetti per fisicità, posture, dosaggio di logorrea ripetitiva e brusche reticenze, innocenza e disperazione che prescindono dalle due individualità che vediamo agire ad un palmo da noi in uno spazio ridottissimo in senso sia fisico che metaforico. Anche in questo caso, infatti, come nel film di cui sopra, molto si gioca sulla reversibilità dei ruoli che questa società consente purché inscritta dentro regole feroci, perimetri molto piccoli, che è tante cose insieme: eterna provincia come state of mind e assenza di prospettive, familismo tribale, povertà culturale e naturalmente pur sempre Patriarcato, come principio universale modellatore di relazioni oppressive e prevaricanti che possono fintamente riequilibrarsi per un attimo solo con la tragedia, per poi lasciare tutto uguale nelle gerarchie e nei rapporti di forza.
Sono state dette e scritte molte cose su questo spettacolo che sta girando tantissimo, che si avvale di una forma di autentica vicinanza, affiatamento e co costruzione dello spettacolo all’interno di una compagnia affiatatissima del suo, ma voglio qui spezzare una lancia in favore di alcuni elementi sottotraccia che però contribuiscono tanto a renderlo ciò che è, come ad esempio l’evidente consapevolezza del carico di responsabilità etica che comporta lavorare su materiali tanto scottanti in questi giorni difficili e che mi viene apertamente confessato a nome di tutto il gruppo di lavoro dalla protagonista Ermelinda Nasuto. Protagonista superba che sa dosare benissimo aspetti loliteschi del suo personaggio, o meglio aspetti proiettivi del desiderio maschile che definiamo cosi, con tutta la rabbia adulta, legittima, consapevole della donna che in questo caso non trova sponda alcuna di giustizia perché appunto all’epoca dei fatti faceva parte di quella categoria anagrafica e sociale, violabile e sacrificabile per definizione nello stupro, nel barcone, nella pulizia etnica… quella minoranza di minore età che con accanimento vogliamo umiliare, per poi dire magari che sta male, è bacata, inadatta al mondo, o manipolare in una logica di coazione a ripetere o addirittura eleminare in modo che futuro diverso dall’oggi sia inimmaginabile. Geniale e funzionale a rendere lo scintillio e la geometria progressiva della scrittura francese qualcosa di più caldo che ci riguarda da vicino, la scelta di far recitare gli interpreti in una forma di koinè barese estremamente plausibile e congrua alla distratta ferocia del quotidiano. Ma di violenza in violenza, poiché appare evidente sia questo il tema generale, le sue innumerevoli declinazioni, in gran parte delle produzioni in giro, ecco approdare ad un lavoro più piccolo, in fase ancora di studio, ma notevolissimo per il gioco di specchi e rimandi da teatro nel teatro che è questo Mai un gesto, mai una parola di e con Veronica Stecchetti, per la consulenza drammaturgica e regia di Donatella Allegro e le musiche di Stefano D’Arcangelo. Il contesto è una di quelle che se fossimo a Parigi si potrebbero definire Cave, ovvero i locali sotterranei saturi di memorie bohemienne e contestative, in pieno centro storico, del circolo Nassau, fucina creativa di molte cose attinenti le attività performative e di narrazione. Qui D’arcangelo e Allegro, sono un po’ i maestri concertatori delle danze, la vorando in proprio e con altri con grande disponibilità. Lo spettacolo vede in scena Sacchetti nella versione cui ho assistito io con una sorta di alter ego o deuteragonista, o magari ancor meglio, coro oggettivante, nella persona della succitata Donatella che sale sul palco ad un certo punto, per sviluppare una narrazione oggettiva di fatti obiettivamente sgradevoli, squallidi, degradanti, non provocati in alcun modo e tuttavia altamente colpevolizzanti. La persona di Sacchetti in quanto io narrante rispetto alla figura retorica di una immaginaria sorella minore, entra ed esce da una sorta di gazebo che restringe e perimetra la scena a sancire forse una quarta parete presente ed opprimente, o che comunque crea restrizioni ulteriori alla scena come a sancire un regime di ossessività, una schiavitù morale e materiale ben difficile da spezzare perché non implica catene e palle al piede, ma asservimento emotivo ed intellettuale in primis.
Siamo dalle parti del me too, infatti, e siccome non siamo in California, ma nella raffinata e culturalmente evoluta alta Italia, dobbiamo dimenticarci la grossolanità del produttore cinematografico col sigaro dalle manone un po’troppo lunghe. Bensì siamo nel mondo del teatro, di un regista drammaturgo direttore di Teatro, in grado dunque di avviare o smontare promettenti carriere tramite una complessa opera di manipolazione della personalità. nella versione che ho visto io, in qualche modo le due figure femminili compresenti pur nella differenza e distanza dei ruoli, istituiscono un implicito ponte di sorellanza. L’una divaga tra memorie lontane e vicine nel tempo alla ricerca di una autoassoluzione, di un barlume di identità diversa da quella che le si vorrebbe appiccicare addosso, l’altra implacabilmente annota tutte le tappe di una sorta di discesa agli inferi, scandita da appuntamenti provini, sedute di casting estenuanti, tanto sadomasochismo mentale, ambigue forme di threesome volte al puro compiacimento di un ego maschile ipertrofico e rapace. Se pensate ad una vicenda di finzione liberamente ispirata a, ci avete solo preso in parte, nel senso che libero è il montaggio e le associazioni di idee, ma le cose che vengono rigorosamente riportate sono tutte vere e tratte da fascicoli di inchiesta fortunatamente aperti. Questo lavoro nasce sotto l’egida di Amleta infatti, questa rete di operatrici, artiste, lavoratrici della scena dello spettacolo dal vivo che rimarca non solo l’esigenza di un riequilibrio nei rapporti di forza tra ruoli, funzioni e mansioni di un mondo troppo poco indagato, ma anche una trasparenza maggiore rispetto ai meccanismi assolutamente vetero patriarcali che lo governano, temi che si rincorrono sotto traccia in un altro lavoro al femminile visto di recente quale E al cubo, di cui parleremo più avanti. Anche in questo caso appare evidente la medesima logica di prevaricazione nei confronti di tutto ciò che è giovane, oggettivamente più fragile e in via di formazione. Presenti in sala alcune avvocate che seguono il caso di questo noto maestro e intellettuale rimosso dagli incarichi, ma difficilmente incastrabile penalmente proprio perché il sistema complessivo che ci tiene in scacco ha i suoi strumenti di perpetuazione e come sappiamo bene la raccolta prove è soprattutto un gioco al massacro per le vittime.
Dove i ceffoni hanno un ruolo centrale e sono tutt’altro che metaforici, è nel tinello della modesta casa di borgata in cui vive Paola Cortellesi con suo marito Ivano, un Mastandrea in grande spolvero nel ruolo più sgradevole della sua carriera, insieme a tre figli di diversa età e genere: la maggiore, Marcellina, che ha appena finito l’avviamento professionale e bada fondamentalmente i due mocciosi più piccoli, due maschietti già buzzurri e sboccati presumibilmente ben avviati sulle orme di un patriarcato qui rampantissimo e ben esemplificato dal vecchio tirannico genitore di Ivano, allettato e bisognoso di accudimento continuo. Sullo Sfondo, anzi no, proprio intorno come un set filmico che mescola sapientemente molti generi e si avvale di un bianco e nero sbiadito da film Luce, una Roma che più aperta non si può, nel senso che appare invasa e colonizzata, con le viscere esposte alla miseria e a un certo grado di servaggio. Questo C’è ancora domani, che Cortellesi, novella Bosè degli schermi si è cucita addosso con un gusto, una cura e un divertimento appassionato palesi, è un film di cui si discute a ragione tantissimo e che mi fa riflettere molto, al di là della ridda di indiscrezioni sui premi più o meno prestigiosi per cui potrebbe candidarsi, su diverse questioni forse attinenti a quelle di cui discorrevamo sopra.
Ovvero come mai dobbiamo sempre aspettare tempi biblici in questo paese e contare sempre sulle dita di una mano per avere conclamati talenti femminili che si pongano a tutto tondo come figure autorali, non solo brillanti interpreti e muse di? Quanto tempo abbiamo dovuto aspettare, quante tv delle ragazze abbiamo dovuto un po’ melanconicamente archiviare prima di avere una versione 4.0 assolutamente femminista di una geniaccia un po’ maschia come Wertmuller? E quanto tempo è passato sotto i nostri metaforici ponti ben poco stabili, come si sa, prima di riannodare i fili intensi, veritieri, ma assolutamente patetici di Una giornata particolare? Cortellesi, riprende con grazia che non fa sconti il racconto da dove lo lascia Scola, non per caso anche qui abbiamo le topiche lenzuola in terrazza, ma qui sono i vessilli di una possibile alleanza tra donne che tutto il film si incarica di dimostrarci possibile pur nelle pieghe di piccole invidie e sgambetti di classe. A mio avviso quest’opera che non teme i cortocircuiti spazio temporali e di riprendere pur in contesto drammatico, stilemi da screwball comedy, oltre a sorprendere ed appunto questo deve far meditare, va letta in questa prospettiva fino al tanto dibattuto finale, di cui non voglio dire troppo, anche se ormai penso ben pochi non abbiano visto il film. Un film che diventa sia più tragico che paradossalmente godibile, se visto tra generazioni diverse fra donne, come in effetti molte spettatrici, me compresa han fatto. E qui che, come una essenza di profumo, reagisce a livelli differenti sulla pelle di ognuno, il film mostra la sua vera essenza e la sua grande efficacia. Ovvero la capacità di verticalizzazione, l’andare al cuore di un problema al centro della vita politica italiana tutta e dei movimenti delle donne anche: ovvero la difficoltà nella trasmissione d’esperienza, il dovere di non buttare il bambino con l’acqua sporca. Il film è anche trasversale in qualche modo, ma soprattutto va credo vissuto in ottica generazionale.
Per questo, un poco in controtendenza con tanti pareri e soprattutto in sala erano palpabili le differenze di reazioni tra spettatrici e spettatori, i più severi di tutti questi ultimi rispetto al finale del film, i più imbarazzati rispetto ai manrovesci che appunto non fioccavano sullo schermo dai tempi della Lina nazionale conditi allora di allure erotica, qua di dominanza allo stato pure, come esattamente sono, io credo che il finale famigerato, non sia da interpretarsi come una banalizzazione della corsa ad un voto, appunto quasi salvifico come una benedizione in chiesa. Io credo che invece la chiave delle scelte finali della protagonista, convintissima della propria dignità di donna e persona nonostante tutto, stia da ricercarsi nello scambio di sguardi intenso tra madre e figlia e nell’assoluto vincolo oltre il sangue e la complicità che si stabilisce tra loro in quel momento. Nel corso di tutta la storia ho trovato personalmente drammatiche e veritiere ad un livello raramente toccato, le scene in cui madre e figlia si scontrano pesantemente e comprendo benissimo come lo scioglimento di quell’inevitabile conflitto giocato tutto sul nodo della dignità e la possibilità di dare futuro, tema quantomai attuale, sia stata la preoccupazione cardine della nostra encomiabile attrice autrice. Sbagliano secondo me quanti vedono uno sbrigativo sol dell’avvenire, alquanto palliduccio, sorgere nelle borgate devastate, ma anche restituite ad una quotidianità non turpe o ambigua, semplicemente incancrenita nei rapporti di potere interni ai vari microcosmi (altro merito di questo lavoro), perché non ritengo sia questo il famoso “messaggio” che si voglia veicolare. Bensi, semplicemente, un possibile percorso, evidentemente lungo e tortuoso ma soprattutto fuori da possibili illusorie scorciatoie e che può passare solo in prima battuta da un riconoscimento di valore tra pari e simili. E buona visione, dunque, per chi ancora non fosse riuscito a vederlo.