Cambiano i valori e i nuovi valori hanno bisogno di parole nuove oppure di cambiare il senso di quelle vecchie, talvolta di rovesciarlo. Così succede che il cattivo diventa buono, il cattivismo emulato dal calcio (“non siamo stati abbastanza cattivi”, rimprovera l’allenatore ai suoi calciatori dopo una sconfitta e grida loro che agli avversari “bisogna fargli male”) viene assunto ne linguaggio comune e diventa un valore, simbolo di sana e virile aggressività; di conseguenza, per bollare un comportamento ritenuto utopistico (dando un’accezione negativa al termine) lo si definisce buonismo. Voler salvare i naufraghi a tutti i costi senza preoccuparci del fatto che “così favoriamo la sostituzione etnica” è un nitido esempio del deprecato buonismo.
La cultura dominante costruisce l’abitudine e anche l’abitudine cambia il senso delle parole, quelle che facevano scandalo ieri non lo fanno più oggi, essendo entrate nell’uso comune. La guerra è tornata a essere quel che era ai tempi di Machiavelli e come la definì Von Clausewitz, la continuazione della politica con altri mezzi. Una volta scoppiata, la guerra si sostituisce alla politica o, meglio, la comanda e termini come trattativa, mediazione, diplomazia sono messi al bando. Roba da disfattisti. La guerra non fa più scandalo come lo faceva al tempo in cui degli uomini di buona volontà che l’avevano conosciuta e vissuta sulla propria pelle ne avevano sancito il ripudio nella Costituzione, nata dalla lotta partigiana contro il nazifascismo. Oggi i pacifisti non sono che disfattisti, quando non agenti del nemico e chi ha dei dubbi sulla necessità della guerra è costretto a premettere “non sono pacifista, ma…”. Oggi ci sono guerre giuste che possono essere addirittura promosse a guerre umanitarie (le nostre, naturalmente, non quelle del nemico), e così le bombe (nostre) possono risultare intelligenti. E una strage di civili? Effetti collaterali di una medicina comunque necessaria come il cortisone o l’antibiotico di cui non si può fare a meno quando si sta male. Un effetto collaterale della guerra militare, cioè, guerreggiata, è il suo evolversi in guerra sociale, per esempio contro chi dalla guerra cerca di fuggire, bollati o come disertori o, peggio, aspiranti clandestini. Così, chi non viene scaricato a terra ma lasciato in mezzo al mare in tempesta non essendo un bambino, una donna incinta o un ferito grave, diventa un carico residuale, o semplicemente carne umana. Anzi, c’è un’evoluzione: ultimamente anche i bambini, le donne incinte e i feriti gravi sono degradati a carichi residuali lasciati in una bagnarola in mezzo alle onde, dunque affondabili. Affondati. O messi in galera, mamme e bambini compresi come prevedono le nuove leggi.
A guidare il governo, oggi c’è una donna che è madre, cristiana e italiana; ha una sola figlia che si chiama Ginevra. Ginevra è lontana da Kabul, Damasco, Gaza, lontana dai luoghi da o dove madri figli e mariti sono costretti a fuggire rischiando di morire annegati pur di aggrapparsi a una speranza di vita. Figlie che non si chiamano Ginevra ma probabilmente Bibi, Noor, Amina, Khadija, Jamila, chissà, ora non hanno più un nome ma solo una cifra sulla bara bianca, tipo Kr14f9. Bambine e bambini che ora le onde ci restituiscono sul bagnasciuga di Cutro o di Lampedusa, sono figli del peccato commesso da madri irresponsabili che li hanno messi prima al mondo, azione esecrabile, e infine in viaggio con il maltempo. E noi sul bagnasciuga li abbiamo fermati. Parole pronunciate da ministri, gente d’alto bordo, parole che fanno rabbrividire.
Ci sono tante guerre nel mondo, ci dicono che la più importante è oggi quella contro gli scafisti mercanti di morte. In realtà, sullo sfondo, fuori dalla propaganda c’è la guerra sociale, quella dei ricchi contro i poveri, del capitale contro il lavoro. Ma siccome viviamo in una stagione in cui il primo ha vinto sul secondo, bisogna convincere lo sconfitto che ciò che ha vinto è la legge di natura. Così i lavoratori, non più forza lavoro, vengono definiti con un ossimoro: capitale umano. O al massimo risorse umane cosicché il capo del personale – figura non particolarmente amata nel Novecento – può chiamarsi più carinamente (adesso si dice così) responsabile delle risorse umane. “Parole/ non son altro che parole/ che tu dici/ per convincere me”, cantava Nico dei Gabbiani qualche mese prima che scoppiasse il ’68. Ma le parole sono importanti, basta saperle leggere.
Le parole cambiano di segno quando cambia la loro percezione nel comune sentire. Se alcune, come la guerra, smettono di fare scandalo perché rientrano nella normalità delle cose e della cronaca, altre diventano desuete: ricacciate fuori dalla cronaca per essere depositate nella storia acquisendo un valore puramente documentario. È il caso dei termini fascista e antifascista. Se il fascismo è esclusivamente una pagina di storia passata, cioè conclusa, nulla del presente può essere identificato con esso. Al massimo si può parlare di postfascismo, in qualche caso di neofascismo, per non fare confusione con una vicenda storicamente determinata. Cambia la percezione, certamente, ma la sostanza? La sostanza è che se in un talk show c’è un antifascista, che dovremmo forse chiamare un postantifascista o più semplicemente uno di sinistra, in nome del pluralismo bisognerà mettergli accanto un postfascista, che con un’opera di misericordia linguistica definiremo di destra. La sostanza resta la stessa. Se i bambini di una scuola fanno una recita in cui a un certo punto cantano Bella ciao, per par condicio dovranno cantare anche Faccetta nera. È per rispetto della storia, si difendono le maestre. Bisogna rispettare tutte le opinioni. E così il fascismo, che non si può più chiamare con il suo nome, da crimine viene promosso a opinione.
Se dopo aver provato orrore e denunciato il massacro di civili compiuto in Israele da Hamas dici di provare orrore e denunci il massacro di civili, donne e bambini a Gaza da parte dell’esercito israeliano, ti accusano di non saper distinguere tra l’aggredito e l’aggressore. Forse i 40 bambini uccisi nel kibbutz di Kfar Aza sono gli aggrediti e i 5.600 ammazzati a Gaza gli aggressori? Abbiamo imparato a distinguere tra i bambini ammazzati da una parte e quelli uccisi dall’altra? Le lacrime per i bambini di Gaza, o per quelli annegati nel Mediterraneo, non sono politically correct? Ci sono parole pesanti come pietre: antisemitismo. Se critichi il governo di Israele sei antisemita, cioè odi e magari vorresti sterminare tutti gli ebrei. Scambiare gli ebrei con Netanyahu, così come scambiare il popolo palestinese con Hamas, è diventato linguaggio corrente. Va da sé che antisionismo e antisemitismo non son altro che parole riconducibili allo stesso significato. Se cerchi di capire cosa c’è all’origine dei fatti dei massacri, vuol dire che li legittimi? Più aumenta la flessibilità delle parole, più ci sia abitua a tutto, al revisionismo lessicale, al riduzionismo.
Un amico mi ha spiegato perché molti compagni dei centri sociali sono contrari a battersi per lo sfratto dai locali pubblici degli squadristi di Casapound: se lo fanno con loro poi sfrattano anche noi. È l’introiezione inconscia della teoria degli opposti estremismi, l’importante è evitare il rischio dello sfratto. La Carta fondamentale vieta la ricostituzione sotto qualsiasi forma del partito fascista e l’articolo 4 della legge Scelba condanna come reato l’apologia del fascismo? Roba vecchia, roba dell’altro secolo come il termine stesso di fascismo. Parole dell’altro secolo. Il fascista di oggi non può essere chiamato fascista perché al tempo del fascismo non era ancora nato, tuttalpiù era nato suo padre che casualmente l’aveva chiamato Benito ma le colpe dei padri non possono ricadere sui figli. E i figli devono onorare i padri, magari con un busto del duce sulla scrivania.
Altri compagni mi rimproverano di accusare la destra al potere di tutte le schifezze che, in realtà, la sinistra al potere aveva già fatto: in fondo Meloni cammina sulla via di Tirana tracciata da Minniti a Tripoli, e la Costituzione e lo Statuto dei lavoratori non li ha già aggrediti con successo Matteo Renzi? Insomma, sono tutti uguali, cambiano solo le parole con cui chiamano le stesse porcherie. Già, non son altro che parole. Ma le parole, insisto, sono importanti. Questi compagni dicono: l’olivettismo e il liberismo sono pur sempre modi d’essere della stessa cosa: il capitalismo, che può essere responsabile oppure turbo, ma capitalismo rimane. Andate a chiedere a un vecchio ex operaio metalmeccanico di Ivrea che montava i pezzi del computer non più alla stressante catena di montaggio ma in una giostra e a un giovane bengalese che lavora come schiavo in un subappalto della Fincantieri se olivettismo e liberismo sono la stessa cosa. Con tutto il disprezzo che provo per Renzi e Minniti, sono convinto che Meloni e Piantedosi siano peggiori, e al tanto peggio tanto meglio non ho mai creduto. Il tanto peggio si chiama istigazione all’odio razzista e classista, contro i migranti, i diversi, i poveri. E contro chi si schiera dalla loro parte. Hanno inventato il reato di solidarietà, come può testimoniare Mimmo Lucano.
Morale: stiamo attenti alle semplificazioni. Cioè, stiamo attenti alle parole dietro cui si nascondono valori e disvalori. Meglio essere buonisti che cattivisti, meglio praticare la complessità che la semplificazione, meglio il dubbio che la certezza, meglio la diplomazia della guerra, dunque meglio pacifisti che guerrafondai. Meglio la condivisione e la solidarietà che il possesso e la violenza come regolatori del rapporto tra gli uomini. E, soprattutto, degli uomini con le donne.
Immagine di copertina, Suzy Hazelwood/PxHere