Ustica, il museo dei battiti

di Francesca Serrao /
3 Settembre 2023 /

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Se i Musei possono essere intesi come il luogo in cui si custodisce la morte, prendendosi cura di ciò che resta, l’opera di Boltanski si inscrive nell’arte della memoria e rappresenta con rispetto il bisogno di fare emergere una realtà rimossa, perchè quel volo «non sia cancellato con un segno di penna come si fa per gli errori», come dichiara l’artista stesso.

Da operatrice museale premere “ON” sul pulsante “scenario aereo” all’inizio di ogni turno al Museo per la Memoria di Ustica significa per me dare corrente elettrica alle 81 lampadine che, al ritmo di un cuore, si accendono per poi lambire il confine con lo spegnimento, rasentandolo. Ognuna di esse rappresenta una delle 81 vite inghiottite dal mare all’interno del volo Itavia del 27 Giugno 1980, diretto da Bologna a Palermo. Attraverso questo gesto meccanico entro ogni volta in contatto con il forte senso di sospensione tra la vita e la morte, che il Museo per la Memoria di Ustica costantemente mi comunica.

39 corpi sono stati restituiti dalle acque, i restanti giacciono ancora in mare, esattamente a 3.900 metri di profondità, nella fossa più profonda del Tirreno, tra Ponza e Ustica. Ogni volta che varco il confine del Museo sito in via di Saliceto 3/22, ho la sensazione di partecipare a un funerale collettivo. Del resto, come afferma il sociologo Mancini nel documentario “Luci per Ustica”, con il Museo per la Memoria di Ustica, i parenti delle vittime offrono una parte del loro dolore, rinunciando a viverlo nella propria abitazione.

Al di sotto delle 81 lampadine giacciono i 2.500 pezzi dell’aereo Itavia, i cui rottami sono stati depositati sulla terraferma a seguito di quattro anni di immersioni. Se i Musei possono essere intesi come il luogo in cui si custodisce la morte, prendendosi cura di ciò che resta, l’opera di Boltanski si inscrive nell’arte della memoria e rappresenta con rispetto il bisogno di fare emergere una realtà rimossa, perchè quel volo “non sia cancellato con un segno di penna come si fa per gli errori”, come dichiara l’artista stesso.

Riportare a galla l’aereo vuol dire allora riportare alla coscienza il dolore, riempiendo il vuoto ambiente della ex Tramvia, con la carcassa del Dc9 Itavia. Il luogo dismesso in cui un tempo viaggiavano carrozze e treni pieni di persone incorpora fiabescamente l’aereo che ha traghettato 81 anime verso la morte e ne ha costituito la bara, come amaramente constata Bonfietti, presidente dell’Associazione delle Vittime di Ustica. Serrato è il dialogo tra i due contenitori, grazie al tema del viaggio, che li lega irresolubilmente.

L’ aereo è stato fatto riemergere dal mare come una forma mitologica carica di significati misteriosi. Quando mi affaccio alla porta a vetri, che sancisce il confine tra la limbica accoglienza e l’imponente installazione, la sua carcassa mi ricorda i ritornanti delle fiabe, che tornano dal mondo dei morti per testimoniare ai vivi e portare loro la verità.

L’opera di Boltanski ne ricompone i pezzi: entrare dentro a ciò che rimane vuol dire infatti mantenere un contatto. Se un aereo che non vola appare come un corpo pietrificato condannato a restare, il suo aspetto ricorda un volatile, punto di contatto tra mondo di sopra e mondo di sotto nell’immaginario letterario fiabesco.

Mantenendo il dialogo tra queste due dimensioni, l’installazione permanente si inscrive in un processo di sublimazione del lutto, che da individuale diventa collettivo come negli ancestrali riti iniziatici. In questo percorso catartico l’artista affronta gli elementi etici che hanno a che vedere con il dialogo con la morte. Del resto, come ricorda il teologo Mancuso in “Luci per Ustica”, la pratica di sepoltura dei morti è alla base del processo di umanizzazione.

Le ipotetiche voci delle vittime riempiono l’installazione permanente, pronunciate dagli specchi neri, circondanti il relitto. Le parole dei probabili discorsi quotidiani dei viaggiatori mantengono aperto lo scambio con il mondo dei morti, in una reciproca contaminazione tra arte e realtà, fornendo al contempo una testimonianza della casualità della fine.

L’opera si completa con un atto rappresentativo in controtendenza con il suo linguaggio tradizionale: l’artista fotografa gli oggetti ritrovati nell’aereo, ma non li esibisce. Li trasferisce all’interno di casse sigillate, coperte di teli neri, visibili a lato dell’aereo. Le tracce delle vite delle persone che non ci sono più diventano reliquie agli occhi dell’artista. La loro vista deve pertanto essere protetta dal voyeurismo del visitatore. L’interrotto passaggio terrestre delle anime resta così, anch’esso, sospeso nell’immaginario, lasciando di sé nient’altro che indizi sfocati come i ricordi.

Privare ogni sera della corrente elettrica le 81 lampadine significa per me condensare in un gesto la consapevolezza che l’arte non si trova in superficie e che «ogni essere umano è unico, anche se scompare molto rapidamente», per usare le parole dell’autore Boltanski.

Questo articolo è stato pubblicato su Cantiere Bologna il 29 agosto 2023. Immagine di copertina Wikimedia Commons

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