Condividiamo la recensione, pubblicato su Machina il 22 giugno 2023, di Vincenzo di Mino del libro «Il rovescio della nazione. La costruzione coloniale dell’idea di Mezzogiorno» (Tamu edizioni, 2023) di Carmine Conelli.
Il Sud, o, per meglio dire, i «Sud» globali sono sempre stati oggetto di una costruzione discorsiva e sociale specifica. La cartografia, come dispositivo di rappresentazione delle traiettorie imperiali della sovranità, seppure travolta dai flussi della globalizzazione e ridefinita dalla sovrapposizione dei differenti processi economici e politici, attraversata da uno specifico regime logistico materiale e immateriale, continua a essere una pratica fondamentale nella costruzione di confini e spazialità ad egemonia specifica, in cui la divisione geografica assume un peso fondamentale nella definizione dei territori e nell’implementazione di specifici processi di assoggettamento. Connettere dunque l’evento storico chiamato «Questione Meridionale» con le operazioni colonialiste che rafforzarono l’immagine della sovranità e dell’identità italiana, permette di focalizzare l’attenzione su alcuni nodi tematici di grande importanza nello sviluppo delle scienze sociali e dei dispositivi giuridici di governo di questo esperimento di modernizzazione. Una forma di modernizzazione che si è materializzata all’incrocio di diverse tendenze, tra la «lunga durata» delle dinamiche di statizzazione e la «breve durata» della costruzione delle classi di governo, sovrapponendo alle gerarchie sociali esistenti, determinate dalla costituzione materiale dei rapporti di proprietà, le nuove gerarchie di stampo coloniale.
Il libro di Carmine Conelli Il rovescio della nazione. La costruzione coloniale dell’idea di Mezzogiorno affronta i temi sollevati dal precedente paragrafo introduttivo, da un punto di vista situato e con piglio critico e decostruttivo rispetto alle vulgate ed ai discorsi nazionalisti e strettamente votati alla produzione di una identità territoriale. Entrambe queste caratteristiche segnalano l’importanza dello studio dell’autore nel panorama italiano, perché prova a tenere insieme la parzialità della scrittura situata e un uso differente delle narrazioni storiche dentro il dibattito pubblico. In questo senso, leggere cause ed effetti del processo di unificazione italiana attraverso le lenti della colonialità, permette di analizzare gli eventi storici attraverso i filtri della razza, del genere e della classe, di leggere la dimensione emergenziale del governo del Meridione come elemento «ordinario» e dunque materialmente inscritto nella dimensione politica. Inoltre, permette di decostruire le stesse rappresentazioni del Meridione che se, da un lato, costituiscono i punti fermi di un immenso indotto economico legato al turismo, dall’altro ne impoveriscono le storie e le specificità locali, riducendole ad un immenso parco giochi in cui magicamente il bello ed il brutto convivono, in cui le immense fratture sociali possono diventare elementi di spettacolo, sotto forma di merci (film, serie tv, libri) e sotto forma di rappresentazioni globali. Insistendo sulla dimensione culturale di questo complesso insieme di processi, Conelli evidenzia la necessità di un uso alternativo della storia pubblica, capace di restituire la molteplicità di voci che sono state silenziate nel corso dei secoli e, dunque, l’intreccio di vite e di resistenze che esse stesse hanno posto in essere.
Il volume, composto da sei agili e densi capitoli, può essere letto attraverso tre assi discorsivi: il primo è quello che, attraverso Gramsci, può essere definito «materialismo geografico»; il secondo forza il campo della Storia ufficiale, aprendola ed inframmezzandole con le storie dei subalterni, dei cafoni e dei «diavoli»; il terzo punto, invece, proietta lo sguardo sull’attualità, interrogando la produttività dei margini e progettando nuove forme di autonomia, tanto discorsiva quanto politica, che possono emergere dai margini stessi.
L’autore fa uso dell’opera gramsciana come cartina di tornasole dei processi storici che hanno interessato il Risorgimento italiano e la costruzione frammentata e artificiale dell’identità italiana, e allo stesso tempo attinge dalla fucina del laboratorio gramsciano globale, dai Subaltern Studies alla Scuola di Birmingham. In questo senso, dispositivi concettuali quali «rivoluzione passiva» e «subalternità» si arricchiscono di un portato storico, antropologico e materiale differente, determinando una ulteriore spazializzazione delle analisi del pensatore sardo. Conelli, scavando anche nella dimensione biografica di Gramsci, insiste sulla natura mobile dell’opera del pensatore sardo, sulla dimensione geografica che si ripercuote nella dicotomia spaziale e politica tra Nord e Sud, che è il punto di vista privilegiato che l’autore usa per produrre la propria analisi. In questo senso, l’opposizione tra Progresso ed Arretratezza, su cui la sinistra ha costruito anche il proprio operato politico, è il principale operatore con cui è stata costruita la governance emergenziale su tutto il Meridione. Al contrario, insistendo sulla dimensione spaziale della dialettica della subalternità e dei subalterni, sospesi tra la soglia della storia e il loro assoggettamento, è possibile allargare lo sguardo e leggere la storia della modernizzazione del Meridione come un capitolo del più vasto processo di colonizzazione europeo e occidentale del Sud globale. Di conseguenza, la dimensione coloniale di questo processo rimane la filigrana storica con cui leggere l’insieme dei processi di statizzazione forzata, come articolazione tra forme di disciplinamento diretto e forme di controllo diffuso, a cavallo tra la costruzione forzata di una identità monolitica e il controllo della popolazione come espressione di una forza-lavoro in divenire. Il razzismo, a questa altezza, è un prodotto situato all’incrocio di questi due fattori di governo, basato su un pregiudizio razziale, sganciato dalla linea del colore ma i cui effetti ad essa sono pienamente riconducibili, e fondamentalmente ancorato al quella che Conelli, sulla scorta di Mignolo e di Tlostanova, chiama la «differenza imperiale» dell’Europa, di cui l’Italia si sentiva a pieno titolo partecipe, ovvero la superiorità politica e culturale degli Stati nordeuropei come portatori del progresso e la collocazione del Mediterraneo come spazio periferico. In questo caso, il rapporto di superiorità prodotto dal legame tra individuo proprietario borghese e Stato come sublimazione della potenza economica si traduce in una ermeneutica dell’inferiorità delle popolazioni che non erano considerate in grado di raggiungere questa soglia minima della modernità, ma che al contrario necessitavano di specifiche pedagogie di stampo coloniale, evidenziando la produzione della subalternità come forma di dominio diretto ed indiretto. Questa differenza imperiale apre dunque all’analisi dei rapporti tra nord e sud come rapporti di classe, come un insieme di fratture su cui inscrivere le relazioni materiali di sfruttamento degli spazi e delle soggettività subalterne, e, con le lenti attuali della critica, la subordinazione anche attraverso il genere e la razza. Il materialismo geografico, in sintesi, permette di aprire le griglie della costruzione identitaria e di allargare lo sguardo sulla dimensione mobile degli stessi processi di resistenza messi in atto dai subalterni, legandoli alla dimensione spaziale effettiva dei Sud.
Da qui si può passare al secondo punto di lettura del volume, quello che interroga la dimensione storica. Notoriamente, la linea culturale e politica togliattiana coincideva con quella dello storicismo italiano, quella che da Croce e De Sanctis arriva al Gramsci canonizzato dal segretario comunista, ha prediletto la narrazione del Risorgimento come guerra di liberazione incompiuta di cui la Questione Meridionale rappresentava una emergenza che poteva essere colmata solo dalla modernizzazione e dalla democrazia progressiva, appiattendo la geniale intuizione gramsciana dell’unità tra operai e contadini sulla direzione politica dei primi sui secondi. Il Gramsci minore di Conelli invece rompe questa lettura, puntando lo sguardo invece sulle altre storie e sulle loro ambiguità.
Il campo storico della Questione Meridionale, seguendo la macchina narrativa del Risorgimento, è stato appiattito lungo due linee di ricerca: quella che esalta gli effetti di modernizzazione a tutti i livelli del processo di unificazione, e quella revanchista- alimentata sempre di più negli ultimi anni dai processi di pauperizzazione estesamente in atto nel meridione generati dalla crisi economica globale partita nel 2007-2008 e ancora non conclusa- che esalta il Meridione pre-unitario, in termini legittimisti e con tonalità estesamente nostalgiche. Per quanto riguarda la prima linea di analisi storica, ciò che emerge è il tentativo da parte degli agenti politici e degli intellettuali che misero l’accento sul problema meridionale come problema di portata nazionale (Franchetti e Sonnino, ad esempio) di colmare le evidenti differenzi presenti attraverso la costruzione di una specifica identità legata alla comunità immaginaria italiana. Gli importanti studi di Banti, Diop e Giuliani hanno infatti dimostrato come l’antropologia identitaria della nazione italiana è stata prodotta attraverso una specifica collocazione geografiche che rende la razza un dispositivo a doppia velocità con cui confrontarsi e a cui appartenere. La razza italica è stata infatti costruita come una invariante universale con alcune specifiche caratteristiche- il colore della pelle, l’appartenenza territoriale, attraverso il riconoscimento di quelle che Furio Jesi ha chiamato «idee senza parole» come la religione o il mito di Roma. Tagliando il campo in maniera estremamente esemplificativa, da un lato le narrazioni storiche hanno individuato la figura del colonizzatore, agente del Progresso, e dall’altra l’emigrante, costretto ad abbandonare la propria terra. Se la figura del colonizzatore può essere serenamente considerata il punto di connessione tra processo unitario e avventure coloniali, la figura dell’emigrante emerge come elemento di una cartografia globale alternativa. Attraverso le formulazioni di Choate, infatti, Conelli evidenzia la presenza di una «nazione globale» degli emigranti italiani, in grado di costruire ed implementare catene affettive alternative e connessioni tra diversi spazi, così da inquadrare, ancora più nel dettaglio, la dimensione materialmente globale dei Sud.
La seconda linea di analisi storica, che per praticità può essere definita neo-borbonica, astrae dal contesto materiale le vessazioni, i soprusi e le privazioni causate dalla governance post-unitaria e le proietta nella nostalgia di un passato rassicurante. Pur nella propria ambivalenza, questa narrazione è in grado di squarciare il velo su quello che Conelli chiama «lato oscuro del Risorgimento», procedendo ad una decostruzione di questo mito fondativo. Le questioni più spinose sono quelle che interrogano gli effetti delle formulazioni lombrosiane sui processi di assoggettamento delle popolazioni meridionali, ridotte e completamente appiattite sulla figura del «bandito». Queste rappresentazioni storiche tendono infatti a semplificare il discorso, puntando alla costruzione di «folk devil» da brandire tutt’oggi a mo’ di spettro invariante che investe le soggettività meridionali, o da mito da esibire nel rivendicare un passato glorioso.
Al cuore dell’antropologia positivista, declinato anche nella sua variante lombrosiana, vi è dunque una aspirazione scientifico-idealtipica e una volontà politica forte, di natura organicista, di neutralizzazione biologica e politica delle classi pericolose; la delinquenza congenita, mutatis mutandis, diventa oggetto di studio e di applicazione a specifiche categorie sociali, «fuori» dalla Storia del progresso, e localizzate in uno spazio geografico determinato, in cui i confini tra «classe» e «popolo», determinati in termini dispregiativi, vengono a coincidere e caratterizzano una sorta di scarto barbarico nei confronti delle prospettive da loro implementate. La criminologia positiva è pensata e praticata come una tecnologia politica di immunizzazione del residuo primitivo delle popolazioni meridionali, che necessitano di un supplemento pedagogico coloniale per essere per essere inserite nel palcoscenico ufficiale del divenire storico stesso.
La figura del bandito, dunque, è una soglia per l’accesso alle verità storiche ufficiali. Le interpretazioni socialiste e marxiste (Hobsbawm, Molfese) hanno letto questa figura come espressione del ribellismo sociale diffuso, quindi legandola ad una condizione di classe e a specifici rapporti di forza nel passaggio all’organizzazione capitalista moderna. Così, il banditismo è letto come forma di resistenza delle società tradizionali alla governance capitalista, nel quadro del più generale processo di divenire-classe dei contadini. Il meridionalismo revisionista, invece, ha esaltato la figura del bandito come espressione «negativa» di resistenza alla colonizzazione e di legame effettivo con il proprio territorio di appartenenza, concretamente tradotta nell’assoluta fedeltà nei confronti dei governanti borbonici e delle gerarchie ecclesiastiche. Il bandito, eroe popolare per eccellenza, diventa una sorta di «singolare collettivo», per usare la terminologia di Koselleck, in cui vengono cristallizzate le doleancés legate alla cronica assenza dello stato, individuando così un insieme di nodi politici effettivi, ma retrodatandoli ad un passato mitologico, di cui questa figura continua a rappresentare una forma di riscatto e ribellismo sociale diffuso.
La nostalgia del passato Borbonico, legato a doppio filo con le storie e le leggende legate all’universo brigantesco, dislocano la stessa narrazione storica su un piano meramente oppositivo a quella del carattere modernizzatore del processo unitario, presentandola ex abrupto come processo di unificazione coloniale. Il concetto di colonialismo è usato da autori come Pino Aprile alla stregua di un significante vuoto, buono a coprire sia gli effetti drammatici delle dinamiche di State-Building nel Meridione, e non le nefandezze e le repressioni portate avanti dalla monarchia borbonica. Questo insieme di elementi si apre a due considerazioni: la prima riguarda la dimensione plurale del colonialismo nel Meridione, a cavallo tra la monarchia borbonica e la storia dell’unità nazionale; l’altra riguarda l’esistenza delle storie singolari e dimenticate, storia di resistenza e di insurrezioni fallite e represse, nascoste dalle narrazioni dominanti. Nel primo caso, Conelli, ricostruendo il dibattito post-unitario sulla questione meridionale, lo legge attraverso il prisma foucaultiano del rapporto tra sovranità e governance. L’autore, infatti, si appoggia sul concetto formulato da S.Seth di «governamentalità coloniale» per evidenziare come il carattere transitorio e temporalmente indefinito delle promesse di democrazia e libertà, da realizzare previa la risoluzione delle problematiche esistenti. Per lo storico indiano, questa forma di governance alimentava il desiderio di libertà rinviandone l’attuazione materiale. Nella stessa direzione, i dibattiti sulla questione meridionale alimentarono il protagonismo delle élites locali e disciplinarono la partecipazione popolare all’interno della struttura d’ordine stabilita e formalizzata. In questo senso, è facile osservare come questi dispositivi di governo divennero utili sia durante le esperienze coloniali a cavallo dell’Ottocento e del primo ventennio del Novecento, e furono alla base della necropolitica coloniale del regime fascista nella conquista dell’Etiopia. Leggendo il colonialismo come esperienza derivata dalla costruzione identitaria e politica italiana, Conelli evidenzia continuità e discontinuità delle pratiche di governo e dei modelli di classificazione e disciplinamento delle popolazioni meridionali, della natura classista, razzista e violenta del fenomeno coloniale che accomuna la sovranità borbonica e quella nazionale, e di come questi dispositivi discorsivi siano ancora effettivi oggi.
Il terzo asse di lettura del libro è quello più intensamente politico, e riguarda le storie e le memorie delle lotte e delle resistenze meridionali, con lo sguardo proiettato sempre sulle stringenti questioni dell’attualità. Le molteplici storie delle lotte del Sud appartengono di diritto alla benjaminiana «tradizione degli oppressi», e, sebbene silenziate, consentono di guardare alla Storia ufficiale con uno sguardo situato e minore, di valorizzare queste emergenze soggettive e leggerle sotto il segno della lotta di classe. Conflitti legati alla dimensione politica della soggettività, infatti, hanno segnato quei tentativi di insorgenza durante il processo unitario (basta pensare alla tragica spedizione di Carlo Pisacane) e quell’insieme spontaneo di lotte contadine che hanno attraversato per intero la storia del Meridione: valgano gli esempi dei Fasci Siciliani, coraggioso ed innovativo tentativo di produrre soggettività ed organizzazione nel contesto post-unitario in cui, per utilizzare l’abusato adagio gattopardiano, non erano cambiati gli assetti della proprietà fondiaria nonostante la transizione ad una nuova forma di governo, e delle lotte contadine avvenute nel secondo dopoguerra, che stimolarono la promulgazione dei «Decreti Gullo» e della parziale riforma agraria che provò a destrutturare il potere dei latifondisti e dei rentier agrari. È utile, a questa altezza del discorso, tornare al laboratorio gramsciano, per leggere la complessità delle differenti forme in cui si è presentata sul palcoscenico storico la soggettività politica nel Meridione. Conelli, nel quinto capitolo, squaderna in tutta la sua poliedricità il concetto gramsciano di «subalternità» come chiave di lettura dei processi di soggettivazione. Gramsci, notoriamente, pensa al concetto di subalternità in termini «negativi», ossia attraverso l’incapacità dei subalterni stessi di organizzare una propria narrazione sul mondo ̶ e, latu sensu, di costruire organizzazione politica ̶ ma, allo stesso tempo, evidenzia la ricchezza della storia e delle storie dei subalterni, seppure «disgregate ed episodiche». In queste condizioni, il concetto si apre alla pienezza del piano storico materiale: subalternità è allo stesso tempo l’espressione soggettiva di una conflittualità e di una più generale indisposizione al comando che è emersa più volte nella storia a cui è stata proibita la parola. Conelli fa forza sulla rielaborazione operata da Partha Chatterjee del concetto di «società politica». L’autore indiano, infatti, plasma il suo Gramsci in un contesto in cui esistevano (ed esistono) differenti forme di capitalismo, dove pratiche quotidiane di accumulazione originaria convivono con gli scintillanti dispositivi del capitalismo 4.0, dove la soggettività si muove costantemente tra le lotte per la sopravvivenza e le differenti soglie ed accessi alla cittadinanza. La sua rielaborazione del concetto di società politica si distanzia da quello gramsciano: se per il pensatore sardo, notoriamente, questo concetto è riferibile allo spazio degli apparati di governo, per Chatterjee questo è lo spazio proprio della politica popolare. Subalterno, in questo caso, si sovrappone e si lega al concetto foucaultiano di «governato». La società politica è lo spazio di conflitto e di contropotere operato dai subalterni tra le maglie della governance: ampliandone il portato euristico e politico, Chatterjee ha dato un nome all’insieme di conflitti sporadici, disorganizzati ed episodici, che cionondimeno appartengono al novero della lotta di classe. Conelli dunque può utilizzare questo dispositivo per interpretare lo spazio del conflitto nel Meridione, visto sia dal punto di vista delle pratiche di governo che della formazione della soggettività. Più che mai al Sud le lotte sono state depoliticizzate e neutralizzate dal pregiudizio storicista della sinistra, che vi le ha interpretate come lotte plebee nel senso deteriore del termine. Proprio per questo è necessario riprendere le storie e le tracce di questi conflitti, sia dal punto di vista analitico che da quello politico: mettere a fuoco la composizione sociale di queste insorgenze per trarne utili lezioni per produrre soggettività oggi.
È storicamente lampante il nesso dialettico che lega al Meridione emergenze soggettive e strategie di contenimento e governo di queste ultime, sotto il segno di quelle forme di governamentalità coloniale già discussa in precedenza. Queste ultime strategie politiche si sono articolate attraverso la repressione e l’amministrazione del consenso diffusa. Come già sottolineavano Ferrari Bravo e Serafini, l’utilizzo del «sottosviluppo» all’interno della pianificazione economica permise ai governanti di governare le migrazioni verso le aree industriali settentrionali e gestire, allo stesso tempo, la conflittualità della forza-lavoro diffusa. In questo senso, la creazione del consenso keynesiano nella Prima Repubblica si basò sulla redistribuzione dei fondi attraverso il clientelismo politico e le organizzazioni criminali, dunque attraverso una stretta sinergia tra entrambi gli attori, che si possono a buon diritto considerare come agenti dei processi di accumulazione frattale. D’altro canto, le forme di illegalità diffusa che hanno caratterizzato e caratterizzano le pratiche e le abitudini della società politica meridionale vengono de facto appiattite su quelle delle organizzazioni criminali, virando pericolosamente ogni tentativo di analisi della composizione sociale su discorsi legalitari che tendono a neutralizzare proprio le emergenze della soggettività ed i loro bisogni.
Come già accennato, esiste al Meridione una generale indisponibilità al comando statale, frutto di un confuso sentimento di riscatto e rivalsa che il più delle volte è stato fatto carico dalle organizzazioni criminali strutturate come un vero e proprio Stato nello Stato, che invece deve essere analizzata sotto il segno della composizione di classe. Attraverso questa, infatti, è possibile sciogliere il secolare nodo sulla dimensione politica e conflittuale della soggettività meridionale, stigmatizzata e sussunta ma storicamente viva. Per riprendere i temi del dibattito che nel secondo dopoguerra coinvolse diversi intellettuali marxisti, dare dignità alle forme di cultura ed organizzazione dei subalterni significa sottolinearne la natura conflittuale nei confronti dell’egemonia delle classi dominanti, evidenziandone, come fecero in termini differenti Ernesto De Martino e Rocco Scotellaro, la ricchezza, la complessità e il potenziale dirompente che queste visioni del mondo dal basso potevano acquisire all’interno di una strategia politica che voleva costruire egemonia e connettere le differenti espressioni della forza-lavoro. Osservare il mondo da Eboli ̶ metafora dell’arretratezza agli occhi degli intellettuali di formazione storicista ̶ era un modo per coglierne le potenzialità e proiettarle «oltre Eboli», ossia all’interno di una nuova strategia politica in grado di valorizzarne la tendenza all’autorganizzazione. Conelli parla di «autonomia come comportamento», sulla scorta delle inchieste della giornalista Maria Antonietta Macciocchi, per sottolineare la potenza magmatica delle mobilitazioni plebee- questa volta in senso machiavelliano ̶ che hanno attraversato il governo del sottosviluppo a Napoli, ma allargando lo sguardo anche a tutto il Sud. Mobilitazioni che produssero innovativi processi di soggettivazione tra forza-lavoro regolare (operai di fabbrica, impiegati), soggettività studentesca e proletariato metropolitano situato nella zona d’ombra tra legalità e illegalità, e che individuarono il tessuto produttivo della metropoli e la gestione clientelare dei flussi economici come nodi conflittuali da attraversare e destrutturare. Lotte per l’abitazione, per il reddito, per i trasporti e per la sanità furono i capisaldi di lotte sociali diffuse in tutto il Meridione, che stimolarono autorganizzazione e riportarono la Questione Meridionale ad una questione concreta di lotte anticapitaliste e per la giustizia sociale diffusa. In questo senso, muovendosi ab origine in un contesto in cui la distinzione materiale tra le categorie marxiane di «sussunzione formale» e «sussunzione reale» è da sempre umbratile ed indistinta, la soggettività meridionale riuscì a conquistare i propri spazi di autonomia e contropotere. Stretta tra la Scilla rappresentata dalla legalità statale e dalla repressione e il Cariddi della estesa legittimità sociale delle organizzazioni criminali, amministrata in senso weberiano attraverso l’alternanza tra violenza e consenso, queste forme organizzative riuscirono cionondimeno ad adattarsi rispetto alla composizione sociale, a costruire un «legame sentimentale» precario ma efficace con gli strati sociali proletari.
Andare «oltre Eboli», però, vuol dire anche andare oltre quello che Conelli definisce «Mezzogiorno ad una dimensione», ovvero alla falsa dialettica del sottosviluppo che trova il suo compimento in quella tra «briganti» ed «emigranti». Si tratta di costruire un discorso contro-egemonico che sappia fare a meno di queste semplicistiche opposizioni binarie e che sappia, soprattutto, fare a meno di «spiegazioni dall’alto» delle problematiche che ancora oggi attraversano i territori meridionali. Quello che, in maniera icastica e potente, l’autore chiama «nordsplaining» è proprio il costante tentativo di leggere le storie meridionali attraverso categorie interpretative tarate su altri standard, tendenti a rappresentare il Sud e i Sud come il «lato cattivo» della storia e dell’Italia, come un insieme omogeneo di spazi attraversati dalle stesse problematiche che necessitano delle medesime soluzioni. Il discorso meridionalista, a questa altezza, diventa un elemento insufficiente per la costruzione di un’alternativa, assomigliando vieppiù all’orientalismo saidiano, ovvero ad uno sguardo distante sulle dinamiche reali che lambisce pericolosamente quel revanchismo antimoderno di cui si è discusso prima. Conelli, nelle pagine finali del libro, invece, rileva la necessità di una visione alter-meridionalista che faccia tesoro del meridionalismo classico ma che lo superi all’interno di una strategia discorsiva e politica che sappia fare uso delle lotte e delle innovazioni che i Sud globali hanno prodotto in questi convulsi anni di crisi: protagonismo femminile ed indigeno, lotte lungo la linea del colore, lotte ecologiste che hanno messo al centro una nuova visione del mondo sganciata dal produttivismo e dallo sfruttamento dell’ambiente e della forza lavoro. Così procedendo, l’autore si avvicina alle «epistemologie del Sud» teorizzate da autori come De Sousa Santos, Walsh e Mignolo, ovvero al tentativo di decolonizzazione delle scienze sociali attraverso l’apertura verso quella che Ranciére ha chiamato «parte dei senza-parte», abbracciando le complesse sfaccettature delle soggettività e le specificità dei loro bisogni, delle loro tensioni e delle loro strategie. A differenza del terzomondismo novecentesco, prodotto della fascinazione delle avanguardie politiche rivoluzionarie occidentali verso i percorsi rivoluzionari nelle aree del sottosviluppo, questo alter-meridionalismo prova invece a creare dei legami tra le dimensioni dei diversi Sud, tanto attraverso l’archivio delle lotte anticoloniali quanto mettendo in comune le similitudini che li caratterizzano, procedendo ad una decostruzione pratica delle invarianti universaliste e neutrali delle scienze sociali e ad una critica politica concreta. Il primato della politica, nei Sud globali, può diventare il primato dell’autonomia collettiva dei subalterni, tradotta in quello che Franco Piperno ha chiamato«genius loci meridionale» storicamente radicato nell’antagonismo diffuso al comando statale: municipalismo, autogestione dei commons, riduzione del tempo di lavoro, articolazione tra orizzontalità del dialogo tra soggettività e verticalità della decisione sono gli elementi su cui radicare un discorso sulla composizione sociale e sugli spiragli che queste pratiche possono aprire.
Per concludere, questo libro è un importante tassello per l’archivio anticoloniale italiano e mediterraneo: il rovescio della nazione è la storia dell’irriducibilità del Sud a mera questione di governo, la critica delle rappresentazioni unidimensionali delle soggettività e una coraggiosa presa di posizione sulle lacune storiche di questa stessa soggettività. Conelli, usando Gramsci oltre i limiti del gramscismo e del meridionalismo, ha evidenziato la bontà delle differenti letture globali dell’autore sardo, utilizzandole come dispositivi per decostruire le narrazioni meta-storiche del sottosviluppo. Allo stesso tempo, insistendo sulle potenzialità delle storie subalterne e della loro irriducibilità ai discorsi statici sulla classe e sulla sua organizzazione politica, lo studioso mostra come più che mai al Sud la soggettività politica sia un processo in making of, per dirla con Thompson, ovvero un processo geneticamente spurio, che accetta la ricchezza della composizione sociale e prova a costruire insieme ad essa strategie e conflitto.
L’indicazione finale che questo volume lascia in filigrana è dunque chiara: il discorso e le pratiche anticapitaliste oggi non possono fare a meno di quel «divenire molteplice» prodotto dall’incrocio delle lotte di classe, di razza e di genere, che le lotte del Sud e dei Sud mostrano in tutta la potenza. Decostruire la rappresentazione unitaria del Meridione, in questo caso, diventa un esercizio politico con cui attaccare le rappresentazioni sociali esistenti e restituire dignità a quei conflitti repressi e dimenticati. Ritessere le fila di quei conflitti, oggi, significa, ancora una volta, provare a ribaltare i rapporti di forza proprio dove essi si mostrano più potenti e feroci, dunque, provare ad inverare il sempre attuale precetto operaista per cui sono le lotte di classe a determinare i tempi della politica. E, in questo caso, i tempi della politica antagonista meridionale vengono a coincidere con i processi di liberazione della forza-lavoro dal comando del capitalismo necropolitico e del contropotere diffuso dall’ombra dello Stato.