“Bisogna arrivare al punto che non solo gli aerei, ma le navi e i treni e le strade siano insicure, bisogna ripristinare il terrore e la paralisi della circolazione. Diamo un segno inequivocabile della nostra presenza. Ci riconosceranno. Ci seguiranno, perché ciò che vogliamo è ciò che essi vogliono: la distruzione del mondo borghese… Borghesia e proletariato sono entrambi risultato dello stesso processo di decomposizione. Trovarsi d’accordo per distruggere è l’unico modo di restare insieme. Dobbiamo lanciare un segnale e raccoglierci… Arrecare danni al sistema è un errore, il sistema te ne chiederà conto. Ma provocarne la disintegrazione, questo è il rimedio, occorre una esplosione da cui non escano che fantasmi. Occorre che il nostro gesto sia così chiaro da far nascere in tutta la popolazione inerme inginocchiata due sole risposte: nessun dubbio, sono loro e finalmente”
Pubblicazione clandestina “Linea Politica” dell’ordinovista Carlo Battaglia, pag. 984 sentenza 6.4.022;
“Hanno marciato divisi ma per colpire uniti. Non c ‘e una destra extraparlamentare e una destra parlamentare, Presidente. No. C’è un’estrema destra, che si divide strumentalmente…Per quello che ho potuto constatare io, l’ispiratore di queste formazioni di estrema destra, quelli che sono sempre stati i loro punti di riferimento effettivi, sono sempre stati interni al Movimento Sociale Italiano…”
Vincenzo Vinciguerra alla corte d’Assise di Bologna, pag. 609 Sentenza 6.4.022;
“Onore al Camerata Tuti” dice la rivendicazione della strage da parte dei NAR fatta nell’immediatezza dell’attentato e successivamente smentita, secondo una modalità comunicativa già adottata per la strage dell’Italicus, che invece era stata “dedicata” al terrorista Giancarlo Esposti, pochi mesi prima deceduto in un conflitto a fuoco con i carabinieri.
Da L. Grassi, “La strage alla stazione in quaranta brevi capitoli”, pag.32;
Il 5 aprile di quest’anno sono state depositate le motivazioni del processo a carico di Paolo Bellini ed altri per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, celebrato innanzi alla Corte d’Assise di Bologna e deciso all’udienza del 6 aprile 2022 dopo essersi sviluppato per 64 udienze.
Come messo in risalto dagli estensori della motivazione si tratta del tredicesimo giudizio su quello che è stato il più grave atto di terrorismo del dopoguerra e, come ultimo nel tempo, ha accumulato fra i suoi atti una quantità enorme di documenti e sentenze provenienti sia dai precedenti processi per la strage di Bologna che dai processi riguardanti le stragi dal 1969, cioè l’anno della strage di Piazza Fontana, considerata la prima di una sequenza stragista che passando attraverso le stragi del 1972 (strage di Peteano) del 1973 (strage alla questura di Milano) e del 1974 (strage di Brescia e dell’Italicus) giunge appunto sino al 1980.
Sono rimasti al di fuori dello sguardo della Corte i precedenti remoti (Portella delle Ginestre, evocata solo in una memoria dell’Avvocatura dello Stato), la strage di Gioia Tauro (citata solo incidentalmente unitamente ai moti di Reggio Calabria) e le stragi successive al 1980, nelle quali hanno giocato prevalentemente componenti eversive di natura in senso lato mafiosa, oltre ad oscure entità tuttora oggetto di indagini.
Il materiale documentale acquisito ha compreso anche gli atti di processi non riguardanti le stragi in modo diretto ma indispensabili al fine della ricostruzione di fatti e all’individuazione di responsabilità, primo fra tutti il processo per il crack del Banco Ambrosiano.
Con scelta processuale insolita ma significativa sono stati acquisiti agli atti pareri di esperti della materia, consulenze e pubblicazioni, che sono serviti alla Corte per orientarsi in una massa documentale così ampia.
Un giudizio a più di quaranta anni dal fatto per un reato imprescrittibile, per giunta oggettivamente e soggettivamente politico nel senso tecnico sancito dall’articolo 8 del Codice Penale, doveva necessariamente fare i conti con la storia e in particolare considerare il complesso rapporto del lavoro del giudice con quello dello storico.
Entrambi, con strumenti e finalità diverse ma in qualche modo complementari, tendono alla ricerca della verità, verità storica e verità giudiziaria, quella verità che, secondo la Corte, rappresenta un diritto azionabile giuridicamente, non solo per i famigliari delle vittime, ma per l’intera comunità, come messo in evidenza in uno dei passaggi più alti e in un certo senso più coraggiosi della motivazione.
In numerosi passaggi della sentenza, poi, si dà atto di come i famigliari delle vittime, attraverso i Presidenti dell’Associazione, dapprima Torquato Secci, e dal 1996 ad oggi Paolo Bolognesi, abbiano incessantemente contribuito con il loro impulso alla ricerca di verità e giustizia.
Grande merito dell’Associazione è anche quello di aver difeso i processi che hanno portato alle condanne di componenti dei NAR (Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini, quest’ultimo in primo grado) da campagne di stampa ostili, per cui a Bologna vi sarebbe una sorta di “incompatibilità ambientale” a procedere per la strage, e di averli salvaguardati attraverso i loro difensori dai ripetuti tentativi di immettere nei processi stessi e nell’opinione pubblica ipotesi alternative a quella neofascista seguita dagli inquirenti, per lo più “piste estere”, quale la così detta pista palestinese, che ancor oggi vengono ricorrentemente riproposte nonostante che in sede giudiziaria siano state sempre respinte e nonostante siano stati acquisiti documenti, anche provenienti dai servizi di sicurezza, che la smentiscono definitivamente.
In realtà, la pressione depistante tesa ad orientare le indagini verso l’estero è stata enorme, sin dal settembre 1980, conformemente ad un’indicazione data da Licio Gelli al piduista Elio Cioppa, funzionario del SISDE all’epoca diretto dal generale Grassini, anch’egli piduista, servizio che aveva invece orientato inizialmente la propria attenzione verso il terrorismo di destra.
Peraltro, con simmetrico mutamento di valutazione, lo stesso Francesco Cossiga, nell’immediatezza del fatto aveva indicato all’opinione pubblica la matrice fascista della strage, per poi subito dopo divenire uno dei sostenitori della responsabilità palestinese nella strage di Bologna.
Sgombrato il campo da ipotesi alternative, la condanna di Paolo Bellini si inscrive nel solco delle precedenti condanne e suggella la responsabilità nella strage di Bologna di tutte le componenti del terrorismo di destra operanti nel 1980.
Alle 10,25 del 2 agosto1980, infatti, erano tutte rappresentate alla stazione di Bologna.
I NAR, ovviamente, dei quali facevano parte Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini; Ordine Nuovo, del quale faceva parte Cavallini, Terza Posizione con Ciavardini e Sergio Picciafuoco e Avanguardia Nazionale, appunto con Paolo Bellini.
Tutti erano lì, a comprova di una volontà stragista comune, formatasi nel contesto di intrecci preesistenti e duraturi fra le varie organizzazioni, che sfumavano l’una nell’altra ed i cui militanti sovente transitavano dall’una all’altra o appartenevano contemporaneamente a più di una, così che, ad esempio, Stefano Delle Chiaie, capo indiscusso di AN, nel luglio dei 1980 poteva pretendere di “unificare i quattro gruppi NAR” e procurare loro armi ed esplosivi “senza limiti di prezzo” in vista di un attentato “indiscriminato”.
Ma al di là di tale pur importante episodio del quale si parlerà in relazione ad un’informativa del colonnello Amos Spiazzi, dalla quale sono tratte le parole virgolettate, la sentenza evidenzia come i vari gruppi disponessero di basi, di armi e di esplosivi in comune e producessero documenti del tutto affini nei contenuti, come i “Fogli d’Ordine” dell’ordinovista rodigino Gianluigi Napoli e “Formazione Elementare”, dell’avanguardista milanese Marco Ballan, che esprime al meglio la cultura stragista dei terroristi (“[…] la propaganda tramite il terrore è la più efficace che si possa immaginare […]”), come pure il cosiddetto “Documento di Nuoro” redatto nel carcere di Nuoro nel 1979 da Mario Tuti, Guido Giannettini, Marco Fumagalli, e altri detenuti politici di estrema destra: “Il terrorismo sia indiscriminato che contro obiettivi ben individuati, e il suo potenziale offensivo può essere indicato per scatenare l’offensiva contro le forze del regime […] è indubbio che si avrà quasi automaticamente un estendersi della lotta armata, favorita anche dalla prevedibile recrudescenza della repressione […] la massa della popolazione sarà portata a temerci e ammirarci, disprezzando nel contempo lo Stato per la sua incapacità […]”.
Comuni erano anche le forme di autofinanziamento per mezzo di rapine. La compartecipazione a varie rapine di componenti dei diversi gruppi (in particolare, Domenico Magnetta, Valerio Fioravanti, Massimo Carminati, Giuseppe Dimitri), ad esempio, risulta infatti documentata dalla Corte in più occasioni alla fine del 1979.
Sulla compresenza dei terroristi prima elencati alla stazione di Bologna occorre spendere qualche parola in più in merito alla posizione di Sergio Picciafuoco.
Costui, infatti, era alla stazione al momento della strage e rimase lievemente ferito. Sulla sua presenza sul luogo dell’attentato non seppe dare plausibili spiegazioni. Rinviato a giudizio nel primo processo per strage, la sua posizione venne stralciata per motivi processuali e venne successivamente assolto con una discutibile sentenza, poi divenuta definitiva, della Corte d’Appello di Firenze.
Picciafuoco era di Terza Posizione, amico di tale Leonardo Giovagnini, di Osimo, a sua volta in contatto con Francesco Mangiameli, amico di Alberto Volo.
Questa amicizia è da segnalare in quanto Picciafuoco disponeva di una carta di identità falsa, procuratogli da tale Guelfo Osmani, abile falsario al servizio del Capo Centro di Firenze Federico Mannucci Benincasa e del capitano Giancarlo D’Ovidio, coinvolto nella così detta provocazione di Camerino. Tale documento recava false generalità di Vailati Eraclio, assonanti a quelle di “Vailati Adelfio” apposte su un falso documento di Alberto Volo, esponente siciliano di Terza Posizione e, come già osservato, amico di Francesco Mangiameli, del quale si dirà più avanti.
Ad Osimo era nell’ambiente di Radio Mantakas, emittente nella disponibilità, a conferma degli intrecci fra le varie organizzazioni terroristiche, del leader di ON Paolo Signorelli.
Era stato compagno di detenzione di Carlo Maria Maggi, e la Corte ipotizza che le informazioni sulla strage in possesso del Maggi delle quali si parla nell’intercettazione ambientale di cui si dirà oltre provenissero proprio da lui.
Era inoltre in contatto col SISMI e il suo nome compariva in un elenco di persone di destra detenute cui far pervenire degli aiuti economici sequestrato a Gilberto Cavallini.
Nel 1990 Picciafuoco si era recato a Reggio Emilia per incontrare Paolo Bellini. Si trattò di uno scontro molto duro evocato in modo drammatico dal confronto dibattimentale fra i due.
Da ultimo, Picciafuoco viveva da solo, a Castelfidardo, in uno stato miserevole e temeva per la propria sicurezza, così almeno si legge su “La Repubblica” del 13 aprile 2023 in un articolo pubblicato in occasione della sua morte. Da quanto risulta, il cadavere è stato trovato dalle forze dell’ordine di Osimo quando era già deceduto da alcuni giorni.
Suscita perplessità il fatto che non sia stato perquisito l’appartamento e che non sia stata effettuata un’autopsia, ma di perplessità di questo genere i processi per strage sono pieni.
La Corte, come era assolutamente necessario, si sofferma poi sulla dibattuta questione se la strage di Bologna sia da considerare parte della strategia della tensione, strategia di guerra non ortodossa altrimenti detta “a bassa intensità” contro il comunismo, inauguratasi con la strage di Piazza Fontana e che per la maggior parte degli osservatori si concluderebbe nel 1975.
Diamo per noto il concetto di strategia della tensione, strategia che prevede una serie di stress al sistema politico istituzionale, fra i quali anche le stragi, volti a contrastare con mezzi illegali, e se del caso cruenti, l’ascesa al potere in Italia del Partito Comunista o comunque delle forze di sinistra.
Sollecitata da agenzie di intelligence statunitensi, teorizzata in documenti di origine statunitense quali il cosiddetto “Piano Demagnetize” o il “Documento Westmoreland”, divulgata in Italia in contesti praticamente pubblici con il sostegno delle forze armate, come in occasione del Convegno dell’Hotel Parco dei Principi del 1965, formalizzata nella sua definizione lessicale da un articolo dell’«Observer» apparso dopo la strage di Piazza Fontana, viene analizzata nel corso dell’istruttoria dibattimentale dal consulente Aldo Giannuli, che giunge infine a riconoscere che la strage del 2 agosto è parte di tale strategia, e viene ripercorsa da Vincenzo Vinciguerra, autore confesso della strage di Peteano.
Questi è stato sentito nel corso degli anni da tutti i magistrati che si sono occupati di stragi ed ha dato un importante contributo anche nel processo Bellini. Affiliato prima a Ordine Nuovo e successivamente ad Avanguardia Nazionale, intimo di Delle Chiaie, dal quale da ultimo si sentì tradito, ha portato avanti dal carcere la sua solitaria battaglia contro lo stato svelando le colpe degli apparati di sicurezza nella storia dello stragismo. Pur conoscendoli, tuttavia, non ha mai fatto i nomi degli autori delle stragi e si è sempre limitato soltanto a confermare le responsabilità di quelli già condannati in via definitiva.
Anche per Vinciguerra la strage di Bologna è da includere nella strategia della tensione, nella quale è inscritta, afferma la Corte, con sue proprie peculiarità, come peraltro ciascuna strage; pur appartenendo a un medesimo disegno generale di lungo respiro, ha ovviamente scopi e peculiarità proprie, opportunamente evidenziate nella motivazione con riferimento a ciascuna delle stragi cruente dal 1969 a seguire.
La strategia della tensione, nelle sue diverse fasi, era gestita da vari soggetti, la P2 di Licio Gelli, l’Ufficio Affari Riservati di Federico Umberto D’Amato e, ad esse complementari, le organizzazioni terroristiche neofasciste quali l’Ordine Nuovo di Massimiliano Fachini e Paolo Signorelli, sovente in un rapporto di ambigua dialettica col MSI, l’Avanguardia Nazionale di Stefano Delle Chiaie e le loro molteplici derivazioni.
Coinvolgeva inoltre uomini di vertice dei Servizi, delle Forze Armate e dei Carabinieri.
Sullo sfondo, poi, operavano apposite strutture di guerra non ortodossa, la Gladio, parzialmente svelata nella sua parte sostanzialmente innocua da Andreotti nel 1992, che faceva capo alla settima divisione del SISMI, ed altre ancor più ineffabili, il così detto “Anello” e i “Nuclei di difesa dello Stato”.
Quale fosse il senso della strage di Bologna nel contesto politico del 1980 e come si riconnettesse alle precedenti si dirà nell’ultimo paragrafo.
Qui occorre anticipare che, come le altre stragi dal 1969 a seguire, è stata preceduta da un corteo di attentati senza vittime, attribuiti alla medesima area terroristica, che ne hanno potenziato gli effetti destabilizzanti.
Il 1979 è stato un anno di intensa attività del terrorismo neofascista. Fra i molti si ricordano quello del 1979 contro il Consiglio Superiore della Magistratura attribuito a Marcello Iannilli e Bruno Mariani, quello del 9 gennaio 1979 contro un gruppo di femministe di Radio Città Futura, quello contro l’abitazione di Tina Anselmi dell’8 marzo 1980, quello contro la libreria Feltrinelli di Padova del 25 luglio 1980 e infine quello conto Palazzo Marino a Milano, cui va aggiunto un assalto di connotazione stragista contro la sezione del PCI dell’Esquilino del giugno 1979.
La strage di Bologna si poneva poi come il culmine di una progressione terroristica che ha contemplato l’omicidio del PM romano Mario Amato, del 23 giugno 1980, commesso materialmente da Cavallini e Ciavardini e che vede come concorrenti Fioravanti e Mambro, condannati per tale reato con sentenza definitiva, mentre Paolo Signorelli, istigatore dell’omicidio, è stato assolto dopo un travagliato percorso processuale.
Avrebbe dovuto seguire, come si vedrà più avanti, l’omicidio del giudice Giancarlo Stiz, con una sorta di simmetria temporale fra due attentati mirati e uno indiscriminato.
Stiz aveva la colpa di aver per primo perseguito i terroristi stragisti del 1969; Amato di aver proseguito l’opera di Vittorio Occorsio, ucciso il 10 luglio 1976 da Pierluigi Concutelli mentre stava indagando sul terrorismo di destra e sulla P2 e di aver svelato con le sue indagini una situazione che nella primavera del 1980, in una audizione innanzi al CSM, aveva definito di imminente guerra civile. Peccato che a presiedere il CSM fosse il piduista Ugo Zilletti.
Le molte difficoltà che affrontano i processi per strage ovviamente trovano la loro causa nell’origine e nella funzione della strategia stragista per cui è essenziale che i veri autori non vengano individuati.
A ciò servono vari tipi di depistaggi, dalla costruzione di piste fuorvianti che indicano come responsabili della strage gli anarchici (Piazza Fontana e strage della questura di Milano), alla creazione di piste orientate verso uomini di sinistra (la “pista rossa” di Peteano), al PCI (Italicus), alla criminalità comune (la “pista gialla Di Peteano”), a soggetti stranieri (depistaggio “Terrore sui treni”).
Alcuni depistaggi mescolano elementi veri ed elementi falsi sovrapponendo i secondi ai primi in costruzioni effimere volte soprattutto a gettare le istruttorie nel caos. Come ad esempio, nel processo per la strage di Bologna, i depistaggi di cui si sono resi responsabili, in momenti e contesti diversi, Elio Ciolini e Guglielmo Sinibaldi, entrambi poi condannati per calunnia, non essendo ancora in vigore a quel tempo la norma che istituisce il reato di depistaggio, fortemente voluta dall’Associazione dei famigliari delle vittime ed entrata in vigore solo nel 2018.
Così pure già dal primo processo per la strage vennero condannati per calunnia per l’operazione “Terrore sui treni” il generale del SISMI Pietro Musumeci, il colonnello, sempre del SISMI, Giuseppe Belmonte, il dirigente di fatto del SISMI Francesco Pazienza e Licio Gelli, mentre il generale Giuseppe Santovito, loro correo, era nel frattempo deceduto prima della condanna.
Costoro, per coprire la responsabilità dei NAR nella strage, avevano predisposto il rinvenimento su un treno in sosta alla stazione di Bologna, proveniente da Taranto e diretto a Milano, di esplosivo analogo a quello usato per la strage di Bologna, assieme ad altri materiali e vari documenti che alludevano alla responsabilità di due soggetti stranieri, un francese ed un tedesco.
Massimo Carminati, intimo di Valerio Fioravanti e già indiziato assieme a lui per l’omicidio Pecorelli, è stato separatamente processato per l’operazione “terrore sui treni”, condannato in primo grado è stato invece assolto a seguito di un tormentato percorso processuale.
In tema di depistaggi la Corte ricorda poi le indagini volte a una fantomatica pista libanese e le intrusioni nelle indagini bolognesi sotto il falso nome di “Capitano Manfredi” di Federigo Mannucci Benincasa, capo centro SISMI di Firenze, istituzionalmente estraneo alle indagini di Bologna.
Conviene ora affrontare un tema delicato e complesso che rileva nel contesto del processo Bellini, non solo in quanto depistaggio, tentato in dibattimento, praticamente sotto gli occhi della Corte, bensì anche per una molteplicità di altri aspetti.
Si tratta dell’intercettazione ambientale a carico di Carlo Maria Maggi del 18.1.96.
Il Maggi, come è noto, era leader di Ordine Nuovo veneto, condannato per ricostituzione del Partito Fascista, responsabile della strage di Brescia, faceva parte di una struttura ad alta vocazione stragista, i cui uomini erano in contatto con apparati dei Servizi, con le basi NATO in Veneto attraverso Marcello Soffiati, e con gli altri gruppi terroristici operanti nel resto dell’Italia dal 1969 all’80, quali ad esempio La Fenice di Milano.
Maggi stesso, nel 1974, dopo la strage di Brescia, aveva confidato a Maurizio Tramonte, suo complice ed informatore dei Servizi, che l’attentato di Brescia non doveva restare un fatto isolato e che si sarebbe dovuta colpire la città di Bologna.
Di ON veneto facevano parte Franco Freda e Giovanni Ventura, considerati responsabili della strage di Piazza Fontana, nonché molti altri personaggi di elevato spessore eversivo, come Carlo Digilio, ritenuto responsabile della strage di Piazza Fontana pur essendo il reato prescritto nei suoi confronti in nome di un’attenuante guadagnata con una faticosa e ambigua collaborazione.
Orbene il Maggi nel corso di una delle istruttorie milanesi per Piazza Fontana è stato sottoposto a intercettazione ambientale, gli atti relativi a tale intercettazione sono poi rifluiti nel processo per la strage di Brescia e da questo sono stati acquisiti infine nel procedimento a carico del Bellini.
L’intercettazione fu eseguita nell’abitazione veneziana del Maggi mentre stava guardando in televisione un programma sulla strage di Ustica assieme alla moglie Imelda e al figlio Marco. Si riporta qui la trascrizione con il commento della Corte:
«Nel sottofondo del dialogo si può udire una televisione accesa, mentre sta andando in onda un servizio del telegiornale in cui si parla della nota vicenda di Ustica. Maggi prendeva spunto da tali notizie per affermare: “… Sai come è …, che Ustica è stato … un episodio di guerra fredda come ha detto questo qua; perché la strage di Bologna è stato un tentativo di confondere le acque, capisci? Per fare dimenticare Ustica”
A quel punto il figlio Marco dimostrava interesse ad approfondire l’argomento della strage di Bologna, avanzando degli interrogativi (MARCO: E i tuoi cosa dicono? MAGGI: Eh? MARCO: E tu quello che sai?). Maggi rispondeva, fornendo alcuni dati di estremo interesse per il presente processo: “Lo so perché … è così eh … Ma in pratica già qua nei nostri ambienti … erano in contatto con il padre di sto’ aviere … e dicono che portava una bomba, ecco! Io pensavo che … (inc.) duecento … era alla stazione, c’era perfino …”.
La trascrizione peritale disposta nel procedimento milanese diverge da quella operata dal consulente tecnico nominato dalla P. G. per il solo fatto che al posto della parola “duecento” vi è quella “cento”.
Infine, sempre sollecitato dal figlio che lo interrogava sugli autori della strage della stazione di Bologna, Maggi affermava di essere sicuro del coinvolgimento di Fioravanti e Mambro (MAGGI: Sì sicuramente …. IMELDA: Marco! Ascoltami… MAGGI: “Sono stati loro …”).
Egli probabilmente stava commentando la decisione della Corte di Cassazione che aveva confermato la condanna dei predetti.
Subito dopo, aggiungeva un dettaglio di natura economica: “Eh …intanto lui ha i soldi”.
La consecuzione stessa del discorso e l’uso del pronome maschile non lasciano margine a dubbi sul fatto che quest’ultima asserzione fosse da porre in correlazione con la figura di Fioravanti.
Interveniva poi la moglie di Maggi e zittiva quest’ultimo, probabilmente per impedire che rivelasse al giovane figlio ulteriori particolari sulla strage.
Il discorso di Maggi, dunque, così come trascritto, evoca la responsabilità nella strage sia di Fioravanti e Mambro (“sono stati loro”) che di Paolo Bellini allorquando dice:
“I nostri ambienti erano in contatto col padre di sto aviere” (il padre di Bellini, Aldo Bellini, era dichiaratamente fascista ed era legato ai servizi) che “dicono portava la bomba”.
In poche frasi, insomma, si ribadisce la responsabilità nella strage di Bologna di soggetti già condannati e si allude alla responsabilità dell’attuale imputato, che come sappiamo era un abile pilota di aerei, quasi una connessione simbolica fra i passati processi e l’attualità.
Senonché la Polizia Scientifica di Roma, incaricata dalla Procura Generale di rendere più chiaro l’audio e cercare di capire le parole rimaste incomprensibili pretende di trasformare le parole di Carlo Maria Maggi “…col padre di sto aviere” in altre ben diverse, cioè “…lo sbaglio di un corriere…”, espressone quest’ultima evocativa della pista palestinese, che infatti in una delle sue molteplici declinazioni attribuisce la strage di Bologna a un errore commesso da un corriere palestinese nel trasporto di esplosivi destinati a scopi diversi dalla strage.
La versione della polizia scientifica contraddice la trascrizione milanese e viene svelata come manipolatoria dalla Procura Generale, che nel corso del dibattimento la sottopone a stringenti verifiche che ne confermano l’inattendibilità.
La Corte, infine, ha ritenuto di trasmettere gli atti relativi a questo episodio alla Procura della Repubblica per verificare se l’operato della Polizia scientifica di Roma possa integrare ipotesi di reato.
La conversazione intercettata è importante fra l’altro poiché è stata uno degli elementi di novità che, su impulso della Procura Generale, hanno consentito di riaprire le indagini a carico di Paolo Bellini, che già dal 1992 era stato inquisito e successivamente prosciolto dal Giudice Istruttore di Bologna.
Alla riapertura delle indagini hanno contribuito altresì il filmato girato in stazione da un turista tedesco che riprende l’immagine di un soggetto poi identificato nel Bellini che stazionava sul primo binario proprio al momento dell’esplosione, nonché materiali provenienti dal processo c.d. sulla trattativa stato-mafia che disvelano collegamenti fra Paolo Bellini e Sergio Picciafuoco, come già notato anch’egli presente alla stazione di Bologna al momento dell’esplosione.
La strage di Bologna, come peraltro altre stragi, è stata preceduta da premonizioni.
Le stragi non sono opera di persone isolate, richiedono un’organizzazione complessa e molte persone, anche senza esserne complici in senso giuridico, ne sono informate in anticipo.
Ovvio che qualche premonizione trapeli, come è effettivamente avvenuto per la strage di Bologna.
Occorre distinguere fra premonizioni delle quali si viene a conoscenza prima dell’evento, che acquistano perciò una formidabile valenza processuale ed altre delle quali gli inquirenti vengono a sapere solo dopo l’attentato, quali nel caso della strage del 2 agosto quella del capitano dei Carabinieri Piergiorgio Segatel, condannato nel procedimento che qui interessa per avere mentito nel corso delle indagini in merito ai suoi contatti del luglio 1980 con tale Robbio Mirella, ex moglie dell’ordinovista Mauro Meli, ben addentro agli ambienti di Ordine Nuovo veneto.
Nel luglio 1980, dunque, il capitano Segatel, secondo la ricostruzione dell’accusa condivisa dalla Corte, aveva avuto notizie di un imminente attentato di grandi proporzioni e si rivolse alla Robbio, che già conosceva da tempo, perché sondasse l’ambiente dell’ex marito. La donna rifiutò. Tornato a trovarla dopo la strage le disse “Ha visto signora cosa potevamo evitare?”. Mirella Robbio a quel punto si disse dispiaciuta di non aver ricercato informazioni come le era stato richiesto.
Vi sono poi soggetti che si sono precostituiti un alibi per il giorno della strage, altri che hanno parlato di persone avvertite dell’evento, che però hanno negato di aver ricevuto premonizioni, altre infine che hanno dato un loro contributo informativo almeno in apparenza disinteressato. È da notare che alcune premonizioni (Jane Cogolli, Vettore Presilio, Aldo Del Re) sono giunte ai destinatari da Massimiliano Fachini o dal suo entourage.
Anche Luigi Ciavardini, come già detto condannato per la strage, mentre si trovava a Villorba di Treviso nella base operativa del gruppo NAR, cioè nell’abitazione di Flavia Sbrojavacca, all’epoca compagna di Cavallini, ha dato un preavviso dell’imminente esecuzione dell’attentato a Cecilia Loreti, amica della fidanzata Elena Venditti. Le due donne intendevano raggiungerlo a Venezia per la data del 2 agosto, ma dissuase la Loreti dicendole che quel giorno aveva “gravi problemi”.
Vettore Presilio, nel luglio del 1980 detenuto nel carcere di Padova, era un estremista di destra che nella condizione di comune detenzione frequentava Roberto Rinani, ordinovista veneto legato a Massimiliano Fachini.
Rinani in tale contesto gli propose di partecipare a un attentato al giudice Giancarlo Stiz, che aveva la colpa di aver seguito fra i primi la pista nera nelle indagini per Piazza Fontana.
Nell’attentato, precisò Rinani, si sarebbe fatto uso di un’Alfetta e di divise da carabiniere.
L’attentato, aggiunse, avrebbe dovuto essere commesso subito dopo un altro attentato già programmato, “un botto la cui eco avrebbe riempito le prime pagine dei giornali di tutto il mondo”.
Un attentato indiscriminato, quella che sarebbe stata la strage di Bologna, conviveva dunque in un medesimo programma terroristico con un attentato di tipo “selettivo” come quello progettato contro il giudice Stiz.
Presilio, nel luglio, riferì tali confidenze al magistrato di sorveglianza, Giovanni Tamburino, che a sua volta ne parlò più volte col capo centro SISDE di Padova, Quintino Spella e con i Carabinieri di Padova.
Lo Spella nel corso delle indagini ha negato i diversi incontri avuti col giudice Tamburino e per tale reticenza è stato inquisito per depistaggio. Nel frattempo è deceduto. Carattere autoritario in ottimi rapporti col generale piduista Giulio Grassini, capo del servizio segreto civile, non diede un immediato seguito operativo alla premonizione di Presilio, se non con l’inoltro alla direzione di una nota in cui sminuisce l’attendibilità della fonte.
Alla premonizione fornita da Presilio, e così malamente gestita, è seguita una complessa vicenda che vede come protagonista Amos Spiazzi.
Questi era un colonnello dell’Esercito di stanza a Verona, al tempo dei fatti già sotto processo dal 1974 per l’appartenenza alla “Rosa dei Venti”, contiguo al nucleo stragista veneto di Ordine Nuovo, affiliato ai Nuclei di Difesa dello Stato, in contatto con il colonnello del SID Federico Marzollo e con i servizi USA attraverso Carlo Rocchi. Era inoltre un informatore del SISDE che riferiva al Centro CS di Bolzano.
È nell’ambito della sua attività informativa che, con un appunto del 28 luglio 1980, cioè anteriore di cinque giorni alla strage di Bologna, riferì di aver poco prima incontrato a Roma tale “Ciccio”, poi identificato in Francesco Mangiameli, leader di Terza Posizione, il quale gli aveva confidato che Delle Chiaie stava rientrando in Italia per riprendere la strada degli attentati indiscriminati collegandosi con le aree neofasciste romane. Ciccio, secondo l’informativa, aveva il compito di coordinare e organizzare le azioni dei NAR e di acquistare armi ed esplosivi ad ogni costo, acquistandoli senza limiti di prezzo.
Riferiva inoltre, in linea con quanto già detto anche da Vettore Presilio, di un prossimo attentato ad un magistrato, con uso di divise da carabinieri.
Mangiameli non era un personaggio qualsiasi. Nel corso delle indagini si apprenderà infatti che si trattava della persona presso cui Fioravanti e Mambro avevano soggiornato in Sicilia in località Tre Fontane sino al 30 luglio, per poi andare a Roma ove secondo la tesi della Procura Generale, sostanzialmente accolta dalla Corte, avrebbero ricevuto il prezzo pattuito da Licio Gelli per commettere la strage.
Assieme a loro, ospite di Mangiameli, era anche il funzionario della Regione Sicilia Gaspare Canizzo, appartenente, come peraltro lo stesso Mangiameli, all’ordine martinista, vicino alle logge massoniche siciliane colluse con ambienti mafiosi.
Il Canizzo era inoltre affiliato alla Loggia degli ALAM, all’epoca retta dal generale Giovanni Ghinazzi; Mangiameli, invece, apparteneva alla Loggia Iside 2 di Trapani.
Queste erano le frequentazioni di Fioravanti e Mambro subito prima della strage di Bologna.
L’informativa Spiazzi, trasmessa dal Centro CS di Bolzano alla direzione centrale del SISDE, cadde anch’ essa nel nulla, come era già accaduto per la premonizione data da Vettore Presilio.
Spiazzi rilasciò poi un’intervista al giornalista dell’«Espresso» Giuseppe Nicotri, nella quale parlò del suo incontro con “Ciccio”. L’intervista venne pubblicata il 24 agosto ed il 9 settembre Mangiameli venne ucciso da un commando formato dai fratelli Fioravanti, Francesca Mambro, Dario Mariani e Giorgio Vale.
Sulla motivazione dell’omicidio così si esprime la sentenza del 16.5.94 della Corte d’Assise di Bologna:
Mangiameli era nelle condizioni di conoscere fatti e circostanze estremamente importanti in relazione alla strage. La vicenda Spiazzi aveva rivelato che egli era un inaffidabile depositario di quelle conoscenze. Gli imputati, conseguentemente, avevano fondati motivi di preoccuparsene e di volere la eliminazione del pericolo. (…). Del resto, il convincimento che l’omicidio Mangiameli fosse direttamente connesso con la strage di Bologna non è soltanto il risultato di una argomentazione logica compiuta in sede giudiziaria a distanza di tempo dagli eventi. Invero, il volantino diffuso dai militanti palermitani di Terza Posizione tre giorni dopo il ritrovamento del cadavere sta chiaramente a dimostrare che gli amici di Mangiameli giunsero subito alla medesima conclusione. Si legge, infatti, nel volantino: “L’ignobile strage di Bologna, che tanto da vicino ricorda … quelle di piazza Fontana, di Brescia, di Peteano, del treno Italicus, ha forse fatto la sua ottantacinquesima vittima?”
Tutta la vicenda Spiazzi-Mangiameli è stata qui esposta in estrema sintesi, tralasciando tutta una serie di passaggi che la Corte analizza dettagliatamente per arrivare alle medesime conclusioni e tralasciando anche le funambolesche elucubrazioni che Amos Spiazzi ha sviluppato nei diversi interrogatori subiti nei molteplici processi in cui è stato sentito.
Ai depistaggi ascrivibili a uomini dei servizi per le stragi fasciste degli anni Settanta si è già accennato. Qui occorre solo aggiungere che tutti i depistaggi, tutti gli occultamenti di prove, tutti i tentativi di manipolazione dei dati processuali realizzati nel corso dei processi per la strage di Bologna, provengono da Licio Gelli, già condannato sin dal primo processo per associazione sovversiva e calunnia e indicato ora come il finanziatore e organizzatore della strage di Bologna, in concorso con Umberto Ortolani, mentre Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi sono considerati, l’uno mandante e organizzatore e l’altro, il Tedeschi, solo organizzatore.
Tutti deceduti, pertanto non processabili, ma l’istruttoria dei PG e la sentenza della Corte se ne sono dovuti occupare in quanto dall’analisi di un documento per lungo tempo nascosto alla magistratura bolognese, il c.d. “Documento Bologna”, sono emerse loro responsabilità nei termini sopra indicati.
Questo documento si trovava nel portafogli di Gelli al momento del suo arresto in Svizzera, avvenuto nell’ambito del processo per il crack del Banco Ambrosiano il 13 settembre 1982, e non era mai stato compiutamente decifrato anche perché Gelli ha utilizzato tutto il suo potere di ricatto ai massimi livelli istituzionali per nasconderlo.
Gelli venne interrogato in proposito dal magistrato che istruiva il processo del Banco Ambrosiano, che nell’interrogatorio utilizzò una copia del documento in cui non figurava il frontespizio recante l’intestazione Bologna. L’originale rimase sepolto fra le carte dell’Archivio d Stato fino a quando non venne ritrovato grazie all’indagine della Procura Generale di Bologna.
Le indagini che avevano preceduto l’interrogatorio di Gelli avevano intenzionalmente trascurato l’intestazione “Bologna” e per questo gli ufficiali della Guardi di finanza che le avevano condotte vennero inquisiti per favoreggiamento e falso ideologico per essere poi prosciolti per sopravvenuta prescrizione.
Gelli, inoltre, sentendosi minacciato dalle indagini sulla strage, usò tutto il suo potere di ricatto inviando il proprio difensore, l’avv. Fabio Dean, a un colloquio avvenuto il 14 ottobre 1987, con l’allora direttore centrale della Polizia di Prevenzione, Umberto Pierantoni, riferito poi riservatamente al capo della Polizia Vincenzo Parisi.
Il ricatto di Gelli, rivolto all’Ufficio Affari Riservati e al Ministro degli Interni Fanfani viene riferito in un documento a firma Vincenzo Parisi. Si tratta del c.d. “Documento Artigli” nel quale sostanzialmente si riporta il discorso di Dean: se continuerà la persecuzione “tragicamente ridicola” di Gelli in relazione alla strage di Bologna, questi dovrà sfoderare gli artigli e “tra i documenti sequestrati a Gelli nel 1982, vi sono degli appunti con notizie riservate, che spetterà, poi, a Gelli avallare o meno, sulla base del come gli verranno poste le domande stesse”.
Secondo la tesi dell’accusa, accolta dalla Corte, quest’ultima affermazione conferma che il documento “Artigli” ha una relazione col Documento Bologna. È su quest’ultimo dunque, che Gelli risponderà “sulla base del come gli verranno poste le domande stesse”.
Sarebbe troppo lungo ripercorrere qui le complesse operazioni finanziarie accuratamente rilevate nell’indagine della Procura Generale sulla base delle annotazioni di Gelli sul documento Bologna. Occorre ricordare tuttavia se non altro che i flussi di denaro utilizzati per compiere le operazioni descritte nel documento furono distratti da Gelli da conti del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi.
La dicitura Bologna, annotata nell’intestazione del documento, tuttavia, non ha alcuna relazione nemmeno indiretta con la crisi del Banco Ambrosiano.
Perché allora Bologna?
Perché i milioni di dollari USA cui il documento, congiuntamente ad altre notazioni contabili redatte da Gelli fa riferimento, sono stati in gran parte utilizzati per pagare i costi della strage di Bologna, in parte come rimborso al Gelli stesso di anticipi versati a far data dal 20 luglio 1980, in parte come pagamenti a Federico Umberto D’Amato, riscontrati anche nel documento denominato “Memoria”, a Mario Tedeschi e ad altri, fra i quali primeggia la torbida figura di Giorgio Di Nunzio.
Alcuni fra i trasferimenti più significativi sono stati effettuati, secondo i Procuratori Generali e secondo la Corte, per il tramite di Marco Ceruti antiquario che fungeva da intermediario di Gelli e che assieme a Gelli, Ortolani e Pazienza è stato condannato per il crack del Banco Ambrosiano.
Il 17.3.81 nella perquisizione di Castiglion Fibocchi venne rinvenuta la seguente notazione di Gelli:
“A M. C. consegnato contanti
5.000.000-1000.000-
Relativo al 20/100
Dal 20-7-80 al 30-7-80
Accreditato dollari 4.000.000
A Ginevra – dalla signora
Angiolini
1-9-80
Ore 11-30”
Il prezzo della strage sarebbe stato quindi di cinque milioni di dollari, uno in contanti prima dell’attentato e quattro con accredito “a Ginevra” a strage avvenuta.
Fioravanti e Mambro erano giunti da Palermo a Roma la mattina del 30 luglio ed erano ripartiti da Roma alla volta di Venezia la sera del 31. In quei giorni sia Ceruti che Gelli si trovavano a Roma ed è quindi altamente probabile secondo la Corte, e certo secondo la Procura Generale, che in tale circostanza abbiano ricevuto il milione di dollari in contanti.
Ciò è avvalorato dal fatto che i due terroristi per le date del 30 e del 31 luglio hanno offerto vari alibi contraddittori fra loro e rivelatisi infine falsi, adducendo che in quei giorni si trovavano a Taranto per incontrare Mauro Addis, mentre la circostanza, tenuto conto degli orari di treni e aerei, è risultata impossibile. L’incontro con Addis in realtà si sarebbe verificato invece il 5 agosto, conformemente alla versione originaria dell’Addis e della stressa Mambro.
Peraltro la strage di Bologna costò ben più di cinque milioni di dollari.
Ad un soggetto denominato “Zafferano”, poi identificato in Federico Umberto D’Amato, dal febbraio 1979 al luglio 1980 furono corrisposti complessivamente 850.000 dollari. Si deve sottolineare, ricorda la Corte, “il fondamentale ruolo giocato da Federico Umberto D’ Amato, avendo ritenuto la P.G. che il flusso dei finanziamenti a favore delle cellule terroristiche scaturente dal “documento Bologna” sia giunto a queste per il tramite di D’Amato, il quale coordinò questa fase precedente l’attentato, in sintonia con i vertici delle strutture paramilitari e neofasciste coinvolte.”
Altre somme, meno importanti, vennero versate a Mario Tedeschi, perché dalla pagine del «Borghese», di cui era direttore, facesse campagne di stampa volte a screditare le indagini sulla strage e ad assecondare mediaticamente i depistaggi, rapportandosi anche a tal fine con Francesco Pazienza (“…nell’agenda del Pazienza, allegata agli atti del procedimento di primo grado per il banco Ambrosiano […] sono annotati infatti gli appuntamenti diretti o telefonici con Federico Umberto D’Amato, spesso associati anche al nominativo del Tedeschi, sì da formare una triade di soggetti in contatto proprio nel periodo in cui si verificano gli accadimenti più significativi riguardanti sia il flusso finanziario documentato nell’appunto Bologna, sia la gestazione e realizzazione del depistaggio ad opera dei vertici del S1SM1, ove Francesco Pazienza agiva al fianco del generale Santovito…”).
Un’ultima notazione. Contemporaneamente alla destinazione di flussi di denaro agli stragisti, Gilberto Cavallini aveva in Italia e all’estero notevoli disponibilità economiche, che gli consentivano di dare un sostegno economico a estremisti di destra detenuti, fra i quali va annoverato anche Sergio Picciafuoco.
Come si è notato due alibi falliti accompagnano la vicenda processuale di Fioravanti e Mambro, quello per la data del 2 agosto e quello per il 30 e il 31 luglio.
Circa il falso alibi per la giornata del 2 agosto di Fioravanti, Mambro e Ciavardini, i Procuratori Generali nella loro memoria, condivisa dalla Corte, ricordano che un ambiguo collaboratore, Carlo Digilio, militante del nucleo stragista di ON veneto, autore riconosciuto delle stragi di Piazza Fontana e Brescia, si prestò a sostenerlo nel processo Ciavardini affermando, seppur in forma indiretta, che in orario incompatibile con quello della strage i tre terroristi si trovavano a Padova.
Con la sua collaborazione Digilio si stava guadagnando le attenuanti generiche che lo avrebbero liberato dall’imputazione per la strage di Piazza Fontana per prescrizione.
La memoria dei Procuratori Generali ci dice, con felice espressione, che con il depistaggio cui Digilio si prestò nell’ambito del processo Ciavardini “si realizzò una forma di abbraccio processuale coinvolgente, in un comune intento liberatorio, l’autore riconosciuto delle stragi di Piazza Fontana e Brescia (tale era il Digilio) e gli autori della strage del 2 agosto 1980 (il trio Fioravanti-Mambro-Ciavardini) […]”.
In questo procedimento va aggiunto un terzo alibi fallito, quello di Paolo Bellini.
Il Bellini, a seguito di un tentato omicidio di cui era ritenuto responsabile dall’autorità giudiziaria di Reggio Emilia, nel 1976 si era reso latitante in Brasile sotto il nome di Roberto Da Silva. Passato un primo periodo di carcerazione in Italia senza che la sua vera identità fosse svelata, al tempo della strage era libero, latitante, e continuava ad usare il nome di Da Silva.
Già nel 1992 era stato inquisito per la strage di Bologna e successivamente prosciolto dal Giudice Istruttore poiché la moglie Maurizia Bonini lo aveva coperto affermando che al momento della strage si trovava con lei a Rimini.
A far riaprire l’istruttoria nei suoi confronti, oltre ad altri elementi sconosciuti alla prima istruttoria, è valso un filmato effettuato il due agosto alla stazione di Bologna, proprio all’orario dell’esplosione, da un turista tedesco, Harald Polzer, non adeguatamente considerato nelle precedenti indagini, anzi, dopo un primo esame e dopo la sua duplicazione, “dimenticato” nell’archivio del Tribunale di Bologna. Storia complicata anche questa, ma alla fine l’individuo che nell’immediatezza dell’esplosione era stato filmato sul binario numero uno della stazione di Bologna è stato identificato nell’imputato.
Anche l’ex moglie dell’imputato, Maurizia Bonini, ha ammesso che il filmato in alcuni cruciali fotogrammi riproduceva l’effige del Bellini.
Purtroppo invece non era riconoscibile un altro uomo che dal filmato risultava essere con lui.
Maurizia Bonini ha avuto un ruolo decisivo nella condanna all’ergastolo dell’ex coniuge. Infatti al dibattimento ha ammesso di aver sempre mentito quando affermava di aver incontrato il Bellini, a Rimini, il 2 agosto 1980 in orario incompatibile con la sua presenza alla stazione di Bologna al momento della strage. In realtà sarebbe arrivato a Rimini, molto più tardi.
Secondo la sua prima versione, sostenuta sino alla fase delle indagini di questo processo, il marito l’avrebbe invece raggiunta in macchina a Rimini, alle 9,30 per portarla a fare una vacanza al Passo del Tonale con la famiglia.
Le sue menzogne sarebbero state suggerite dal suocero Aldo, che era il dominus incontrastato della famiglia Bellini. Questi le avrebbe suggerito “Per stare nel sicuro”. di dire di aver incontrato il coniuge a Rimini alle 9,30.
Il complesso alibi di Bellini era stato preordinato da metà di luglio per la data del due agosto. È infatti a metà luglio che prenotò l’albergo del Passo del Tonale dove intendeva fare, con inizio proprio il 2 agosto, un’inconsueta vacanza in famiglia.
L’alibi, costruito, si ripete, a metà di luglio, implicava l’utilizzazione anche della nipotina Daniela, figlia del fratello Guido, all’epoca di nove anni, che si fece consegnare dalla madre e portò con sé a Bologna, e successivamente a Rimini, all’appuntamento con la moglie.
A Bologna, per il tempo necessario a partecipare all’attentato l’avrebbe lasciata in macchina da sola o con qualche fiduciario, per poi riprenderla con sé e raggiungere i famigliari a Rimini e successivamente proseguire il viaggio verso il Tonale, ove arrivarono in serata.
La ricostruzione analitica che fa la sentenza di questi movimenti del Bellini, per quanto siano singolari, non lascia adito a dubbi. Si è trattato di un alibi a più livelli, che ha fallito in quanto le dichiarazioni della Bonini sugli orari di partenza da Rimini, di viaggio e di arrivo all’albergo del Tonale hanno trovato una sequenza di sicure conferme grazie alle testimonianze acquisite nel corso dell’istruttoria dibattimentale.
Purtroppo però Daniela nulla ricorda della giornata del 2 agosto.
Vicenda sconcertante ma interessante, anche perché se ne ricava che già da metà di luglio gli esecutori della strage sapevano che l’attentato doveva essere compiuto proprio il 2 agosto.
Ma di vicende sconcertanti il processo per la strage di Bologna è pieno.
La Corte considera anche un’altra ipotesi, già respinta nel 1983 al termine della prima indagine su Bellini da parte del giudice istruttore Vincenzo Luzza, cioè che il Bellini fosse a Bologna, alla stazione a commettere l’attentato, assieme il suo amico e sodale Luciano Ugoletti, e assieme anche a Delle Chiaie, Gaetano Orlando, un tedesco non specificato ed infine Elio Massagrande.
I sei sarebbero giunti alla stazione su un’auto condotta dal Bellini.
I nomi secondo la Corte sono plausibili come autori di una strage, salvo che in sei sulla stessa autovettura sono in troppi ed ecco allora sparire Massagrande, che al dibattimento Dino Bartoli, ultimo anello della catena informativa grazie alla quale sono stati individuati questi soggetti afferma di aver erroneamente inserito.
In questa ricostruzione, contenuta in un memoriale del Bertoli reso pubblico e riscontrato da altre testimonianze, l’esplosivo sarebbe proveniente dalla Toscana e Bellini e Ugoletti avrebbero ricevuto il compenso, alla fine modesto, di cento milioni ciascuno.
La ricostruzione ora offerta trae origine da confidenze fatte prima di morire da Guido Bellini, fratello di Paolo, a tale Gianfranco Maggi, delinquente comune, e da questi comunicate in un contesto di comune detenzione a tale Dino Bartoli, anch’egli delinquente comune, sotto lo sguardo benevolo del procuratore della Repubblica di Reggio Emilia Elio Bevilacqua, per sua stessa ammissione massone dal 1980 e secondo la Procura di Palmi appartenente a una loggia coperta.
Prima di arrivare alle conclusioni citiamo ancora due complessi temi di indagine che hanno occupato la Corte e che evocano situazioni di una gravità tale da andare ben oltre gli stessi depistaggi elaborati da Gelli e dai suoi complici, oltre le varie piste palestinesi o libanesi o libiche che siano.
Da questi si comprende come la strage di Bologna, col suo sinistro corteo di abusi segni col sangue il passaggio a una nuova epoca, legata come è alle stragi che l’hanno preceduta e precorritrice di quelle che l’hanno seguita.
Il primo. Il Procuratore della Repubblica di Bologna dell’epoca, Ugo Sisti, passò la notte fra il 3 e il 4 agosto 1980 all’albergo La Mucciatella di Reggio Emilia di proprietà di Aldo Bellini, suo intimo amico, e nella disponibilità del latitante Paolo.
La presenza di Sisti venne accertata a seguito di una perquisizione disposta, come numerose altre subito dopo la strage nei confronti di personaggi di destra, ma non venne riferita a nessuno dal personale operante. Il Procuratore non fu dato per presente, verosimilmente su sua richiesta, e la circostanza venne conosciuta solo anni più tardi.
In parole semplici, si trovava nell’abitazione di un latitante al di fuori di qualsiasi attività investigativa, a suo dire “in quanto aveva necessità di riposo”, come si legge in una memoria della Procura Generale nella quale si cita anche un incontro fra Sisti, Aldo Bellini e personale dei servizi segreti, avvenuto a Castel San Pietro dopo il ritorno di Paolo Bellini dal Tonale, incontro nello stesso tempo sinistro e rivelatore, cui Paolo Bellini si rifiutò di partecipare.
Seguirono poi procedimenti penali e disciplinari a carico del Sisti, che non seppe dare spiegazioni ragionevoli sul suo soggiorno a casa del Bellini, proprio la notte successiva alla strage.
Tutto, comunque, finì nel nulla ed anzi a Sisti venne conferito il prestigioso incarico di capo del DAP, nel quale brillò per avere disposto il trasferimento di Ermanno Buzzi e di Carmine Palladino al carcere di Novara. Lì il Concutelli ebbe agio di uccidere ferocemente, assieme a Mario Tuti, Ermanno Buzzi ritenuto sul punto di fare i nomi degli autori della strage di Brescia e, da solo, Carmine Palladino, sospettato di aver consentito con le sue dichiarazioni l’arresto di Giorgio Vale.
Il secondo. Secondo la Corte, in esito alle indagini dei Procuratori Generali ed all’istruttoria dibattimentale è stato accertato che i NAR avevano dei covi controllati dal SISDE, uno a Milano in Via Washington e altri a Roma in Via Gradoli.
La Corte così si esprime:
“I così detti covi dei NAR in via Washington a Milano e in via Gradoli a Roma erano conosciuti dai servizi con ciò che ne consegue in termini di mano libera lasciata agli eversori. […] Le scelte dei covi di Via Washington e di via Gradoli sono state effettuate a ragion veduta da chi li abitava, facendo affidamento sulla sicurezza di quei luoghi; una sicurezza che, in effetti, consentì di fronteggiare situazioni di pericolo nelle quali doverosi interventi delle forze di polizia furono, invece, omessi. […] Altra rilevante coincidenza è il covo utilizzato da Mambro e correi per l’omicidio Straullu, ubicato nella medesima palazzina (la numero 1 di via Gradoli 96) in cui vi erano altri 24 appartamenti di proprietà di società di consulenza del SISDE o comunque riconducibili a persone legate al Ministero dell’Interno, […] un edificio che nel 76-77 era amministrato da Domenico Catracchia […] il quale, anche in seguito, continuò a riscuotere affitti e/o spese di riscaldamento di appartamenti del condominio e ad affittarne delle unità fino all’autunno del 1981. Secondo le sue stesse parole, l’immobiliarista era uomo di fiducia (e “amico”) di Vincenzo Parisi, vice capo del servizio segreto civile, che “si serviva dell’agenzia del Catracchia per i suoi impicci”.
Insomma in via Gradoli al civico 96, vi erano appartamenti di proprietà di società riconducibili al SISDE, gestiti dall’imputato Domenico Catraccha, che era in ottimi rapporti personali con Vincenzo Parisi, all’epoca vice capo del SISDE e che aveva acquistato per la sua famiglia alcuni appartamenti in Via Gradoli.
Non si scordi che il Parisi è già noto al lettore per l’uso improprio che fece del c.d. “Documento Artigli”.
Il covo del civico 96 venne utilizzato da Francesca Mambro e Giorgio Vale dopo l’omicidio del Capitano Straullu e i due terroristi sfuggirono alla cattura in circostanze più che sospette proprio mentre si allontanavano dal covo.
Negli anni Ottanta vi alloggiò anche Enrico Tommaselli, uomo di Terza Posizione, amico di Francesco Mangiameli.
Uno degli appartamenti del civico 96 era stato invece utilizzato, nel 1978, dalle Brigate Rosse come base durante il sequestro Moro ed era stato scoperto per una perdita d’acqua, verosimilmente preordinata (ma questo fa parte di una storia estremamente complessa che qui non si intende affrontare) rilevata dal vicino del piano sottostante.
Altra storia complessa, sulla quale qui non ci si intrattiene, è quella della seduta spiritica del 2 aprile 1978 cui assieme ad altri docenti bolognesi partecipò Romano Prodi, nella quale per la prima volta in relazione al sequestro di Aldo Moro venne evocata la località “Gradoli”, via di Roma o comune del viterbese che fosse.
Domenico Catracchia in merito alla gestione degli appartamenti di Via Gradoli ed ai suoi rapporti con Parisi ha reso false dichiarazioni alla Procura Generale e per questo è stato condannato a quattro anni di reclusione.
Ad oltre quarant’anni dal fatto vi sono dunque persone che si rassegnano a subire una condanna pur di nascondere la verità.
Attorno alle indagini sulla strage, dunque, da sempre, sin dalle primissime battute, c’è stato qualcosa di più profondo dei depistaggi, più profondo ancora delle piste internazionali dettate da Licio Gelli.
È per questo che vennero subornati testimoni: la segretaria di Gelli, Nara Lazzerini, che già nelle prime indagini aveva reso importanti dichiarazioni a carico del capo della P2; così si spiegano le enormi pressioni su Massimo Sparti perché ritrattasse le dichiarazioni con cui attribuiva il “botto” alla stazione di Bologna a Fioravanti e Mambro; così si spiega il condizionamento dell’avvocato Roberto Montorzi, che dopo un colloquio con Gelli a villa Wanda abbandonò la difesa delle vittime.
La strage era finalizzata, sì, ad accelerare l’attuazione del Piano di Rinascita Nazionale e a capitalizzare gli effetti dell’omicidio di Aldo Moro del 9 maggio 1978 e dell’omicidio di Piersanti Mattarella del 6 gennaio 1980 ( Fioravanti e Cavallini sono stati imputati, condannati in primo grado e poi assolti per tale reato), è vero, ma quando il Procuratore della Repubblica di Bologna investito dal più grave attentato terroristico della storia italiana frequenta segretamente l’abitazione di un latitante già allora sospettabile di strage, quando i NAR e i loro sodali sono organici a una rete che protegge tanto loro che i brigatisti che rapirono e uccisero Aldo Moro, significa, che c’è qualcosa di più profondo, significa che il guasto è immane.
A fronte di un quadro così tremendo si è a lungo dibattuto di un ipotetico “spontaneismo armato” dei “ragazzini” NAR, tanto è vero che la Procura della Repubblica di Bologna, poi radicalmente smentita dalla Procura Generale e dalle Corti giudicanti, sia di questo processo che del processo Cavallini, aveva originariamente contestato il delitto di strage previsto dall’art. 422 del Codice penale, cioè di strage “semplice”, priva in altri termini dell’ovvia finalità di attentare alla sicurezza interna dello stato che ha connotato la strage di Bologna.
Grave errore, secondo la Procura Generale e la Corte, anche perché i sedicenti spontaneisti condannati per la strage di Bologna risultano collegati chi alle parti più torbide della massoneria, chi ai servizi segreti, chi alla banda della Magliana o ad altri raggruppamenti della criminalità comune, tutti, alle vecchie figure dei capi di sempre di Ordine Nuovo e di Avanguardia Nazionale quali Massimiliano Fachini, Paolo Signorelli, Pino Rauti, Aldo Semerari e Stefano Delle Chiaie, emuli di Franco Freda, collegati ai servizi di sicurezza, dai quali hanno avuto più volte protezione, pagati con i soldi di Gelli, complici di Paolo Bellini, del quale tutto si può dire – magari anche che fino al passaggio in giudicato della condanna debba ritenersi non colpevole – tranne che fosse uno spontaneista.
Ma alla fine perché Gelli avrebbe dovuto spendere così tanti soldi comunque non suoi, ma del Banco Ambrosiano per fare la strage di Bologna?
Volontà di potenza, atto di potenza terroristica? Certo, ma evidentemente non basta.
Timore di perdere audience di fronte alle contrali spionistiche e massoniche USA rispetto all’astro nascente di Francesco Pazienza, che nel 1979 si era guadagnato la benevolenza del futuro presidente Nixon grazie a spregiudicate manovre contro il fratello di Jimmy Carter?
Certo, si tratta di un importante elemento di contesto, ma non è qui la spiegazione della strage di Bologna.
Nel 1980 Gelli e i suoi sodali avevano un potere enorme sui servizi segreti, sulle forze di polizia sull’imprenditoria, la stampa ecc., ma era un potere occulto, che trovava la propria forza nel segreto.
Nessuno ancora sapeva che il comitato di crisi istituito in occasione del rapimento Moro era costituito da piduisti, che ancora nel 1980 avevano enormi poteri.
Presidente del Consiglio era Francesco Cossiga, certo gradito a Gelli.
Aldo Moro era stato ucciso nel 1978, Piersanti Mattarella all’inizio del 1980, Pecorelli, con il suo potenziale di ricatto, era stato eliminato già nel 1979. La via, insomma era spianata e secondo alcuni, fra i quali Giovanni Falcone, uomini dei NAR erano coinvolti nell’omicidio Mattarella, “delitto perfetto” come lo definisce con compiacimento Gelli in un’intervista del 1986 a Marcella Andreoli.
Nell’agosto del 1980, dunque, tutto era pronto per uscire dall’ombra, per convertire un potere occulto in un potere palese.
La società civile del 1980, tuttavia, non era “matura” per accettare i contenuti del piano di rinascita nazionale, piano formulato da Gelli nella seconda metà degli anni settanta, conosciuto soltanto dopo che il 4 luglio 1981 quando ne era stata rinvenuta una copia nella disponibilità di Maria Grazia Gelli.
Il Piano prevedeva molte cose che poi si sono effettivamente realizzate quali la limitazione di diritti costituzionali, il controllo delle stampa, della magistratura, la gestione brutale dell’ordine pubblico, ma nel 1980 i sindacati erano ancora autorevoli, la magistratura indipendente, solo che lo avesse voluto.
Il Partito comunista era ancora forte.
Nella DC, dominavano politici come Cossiga o come Andreotti, con tutte le loro ambiguità, o come Flaminio Piccoli, mentore di Pazienza, ma convivevano nel partito con uomini in cui erano vivi valori democratici, come Benigno Zaccagnini o come Mariano Rumor e Vittorio Taviani, non a caso entrambi bersaglio di attentati fascisti.
Gelli e i suoi accoliti volevano in un certo senso uscire dalla clandestinità che fino ad ora era stata la loro cifra, e dovevano uscirne con un atto eclatante, in linea con la tradizione stragista.
“la massa della popolazione sarà portata a temerci e ammirarci, disprezzando nel contempo lo Stato per la sua incapacità” Questo scrivevano Mario Tuti ed altri nel documento di Nuoro. E questo, all’unisono con gli stragisti, voleva Gelli.
La strage di Bologna è stata il possente convertitore di un potere occulto in un potere visibile, ma non è bastata.
Lo stragismo doveva continuare, nel 1984 con la strage del rapido 904 e poi con le stragi del 1992 e 1993, con la sottostante trattativa fra stato e mafia, con un filo conduttore che, con Paolo Bellini, parte dal 1980 ed arriva sino al 1993, allorquando stabilito un nuovo equilibrio politico, le stragi non servivano più.
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