La riforma delle pensioni voluta in Francia dal presidente Macron, che prevede in particolare l’innalzamento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni, ha provocato una reazione sociale fortissima, che può sorprendere in particolare chi ha in memoria la lunga serie dei provvedimenti italiani sulla stessa materia, molto più severi per i lavoratori e certo oggetto di contestazioni, ma non comparabili a quelle che quest’anno hanno fatto scendere in piazza milioni di francesi per ben tredici volte nello spazio di quattro mesi. Una resistenza sociale che si legge anche nell’opposizione unanime alla riforma di tutti i sindacati, nell’opinione ostile, secondo i sondaggi, del 70% della popolazione e del 90% degli attivi, nell’impopolarità da record del presidente e del suo esecutivo.
Al di là degli effetti concreti di un cambio di regole che penalizza in particolare i lavoratori che hanno iniziato a versare contributi tra i sedici e i venti anni, e che in generale svolgono mansioni fisicamente usuranti, per leggere correttamente lo scenario francese bisogna mettere in relazione due fattori decisivi.
Il primo fattore da considerare sono gli effetti della riforma graduale del capitalismo francese, che quarant’anni fa era assai lontano dalla logica neoliberista imposta con brutale rapidità da Thatcher nel Regno Unito e Reagan negli Stati Uniti. Le élites dirigenti francesi, dalla metà degli anni Ottanta in poi, si sono completamente allineate all’egemonia neoliberista, ma hanno scelto una strategia di riforma graduale che ha portato a modificare inizialmente le istituzioni meno direttamente connesse agli interessi delle classi popolari, quelle ad esempio che regolano il commercio internazionale, il regime monetario o la (de)regolamentazione del settore finanziario, e lasciato per ultimi i cambiamenti che colpiscono senza mediazione alcuna le condizioni di vita di chi vive del proprio lavoro. Questa strategia di riforma progressiva era destinata presto o tardi a entrare in collisione diretta con gli interessi popolari, come già accaduto all’epoca del governo Valls, sette anni fa, in occasione di una modifica importante del Codice del Lavoro, poi nuovamente riformato, sempre in direzione di una maggior “flessibilità” dei rapporti di lavoro, da Macron nel 2017, e come di nuovo è accaduto con la riduzione della durata dei sussidi di disoccupazione voluta dallo stesso Macron. La modifica del sistema pensionistico è dunque l’ultima di una lunga serie di riforme, e approfondisce la trasformazione di un capitalismo che pur conservando qualche specificità non offre più, contrariamente a quarant’anni fa, un modello alternativo a quello neoliberista. Questa lenta transizione ha prodotto la diffusione del precariato, un’esplosione della povertà e un forte degrado dei servizi pubblici essenziali, in particolare di quelli legati all’istruzione, al trasporto locale e alla sanità.
Il secondo fattore, connesso al primo, riguarda la paradossale e pericolosa coesistenza di una base sociale, quella di Macron, estremamente minoritaria, con i fortissimi poteri concessi dalla Costitutione francese al Presidente della Repubblica. La destra e la sinistra “di governo” si sono alternate al potere, dagli anni Ottanta sino alla presidenza Hollande, condividendo l’obiettivo della riforma neoliberista, che hanno entrambe voluto graduale perché i rispettivi blocchi sociali di riferimento includevano una componente popolare importante. Gli effetti cumulativi dei cambiamenti istituzionali di cui ho parlato hanno però prodotto la disgregazione progressiva dei due blocchi, collassati definitivamente proprio al momento in cui restavano da compiere le riforme più apertamente anti-popolari. Il progetto politico di Macron, che gli ha permesso di accedere al potere nel 2017 e di essere rieletto nel 2022, era di riunire in una nuova alleanza, che con Bruno Amable abbiamo chiamato il blocco borghese, le frazioni dei vecchi blocchi favorevoli al completamento della transizione del capitalismo francese verso il modello neoliberista: funzionari pubblici qualificati, ceti legati a professioni intellettuali e artistiche (in provenienza dalla sinistra), quadri del settore privato, imprenditori, professioni liberali (in provenienza dalla destra). Si tratta di un blocco centrale solo se si valuta il suo posizionamento sull’asse che divide la destra dalla sinistra, ma in termini di composizione sociale, è un’alleanza che non ha nulla d’intermedio: è un blocco borghese che esclude programmaticamente dallo scambio tra politiche pubbliche e consenso sia le classi popolari storicamente legate alla sinistra (dipendenti pubblici e privati a bassa qualifica, operai, gran parte del mondo studentesco) che quelle legate alla destra (artigiani, commercianti, salariati del settore agricolo). Per costituzione, si tratta dunque di un’alleanza sociale destinata a rimanere minoritaria. In entrambe le presidenziali che ha vinto, Macron ha ottenuto al primo turno il consenso di meno del 20% degli aventi diritto al voto, e si è imposto al secondo contro Le Pen usufruendo di un voto non d’adesione, ma di sbarramento contro la candidata dell’estrema destra. Nel paesaggio di una frammentazione politica determinata dalla frattura delle alleanze sociali tradizionali, il blocco borghese si è imposto non in quanto maggioritario, ma perché socialmente omogeneo e politicamente compatto.
Va ricordato anche che Macron, pur profittando dello slancio determinato dalla seconda vittoria alle presidenziali, non è riuscito a vincere le elezioni legislative: all’Assemblea nazionale, l’equivalente della nostra Camera dei deputati, non vi è dallo scorso mese di giugno alcuna maggioranza. Macron può tuttavia governare, ed anche imporre riforme impopolari, grazie a una serie di articoli della Costituzione della Quinta repubblica che in sostanza permettono al Presidente di ridurre ai minimi termini il potere legislativo del Parlamento, fino in realtà ad annientarlo, e di accrescere a dismisura quello dell’esecutivo. Senza entrare in dettagli giuridici piuttosto complessi ed evitando di citare la lunga serie di articoli costituzionali ai quali il governo ha fatto ricorso, basti segnalare che la riforma delle pensioni è stata approvata senza che all’Assemblea nazionale venisse concessa l’occasione di un voto, che sarebbe probabilmente risultato negativo. Il governo francese ha il potere, ogni volta che lo ritiene opportuno, di far passare una legge in questa maniera, cosa successa già undici volte nell’ultimo anno, quello che ha fatto seguito alla riconferma di Macron. A quel punto, l’unica possibilità per i deputati è di votare non contro un provvedimento specifico, ma a favore di una mozione di censura che obbligherebbe il governo alle dimissioni. Il che vorrebbe dire, con ogni probabilità, elezioni anticipate, una prospettiva che spaventa parecchio gli eletti di una destra tradizionale in pieno naufragio. Malgrado questi timori, nello scorso marzo alla mozione che avrebbe potuto far cadere il governo guidato da Elisabette Borne sono mancati solo nove voti. Un nuovo conflitto è in corso in questi giorni, con una proposta di legge dell’opposizione che mira semplicemente ad abolire la riforma delle pensioni, e il governo alla ricerca degli appigli costituzionali che potrebbero impedire il voto dei deputati previsto l’otto giugno.
Si aggiunga a questo paesaggio assai caotico il fatto che, nella difesa della loro riforma, Macron e i suoi ministri hanno utilizzato argomenti fasulli, cercando ad esempio di far credere che nessuna pensione sarebbe rimasta al di sotto dei 1200 euro, e dovendo poi far marcia indietro di fronte alle critiche puntuali di chi la riforma l’ha studiata. Così, dopo l’iniziale propaganda che presentava il nuovo sistema pensionistico come più favorevole ai lavoratori, Macron, che negli ultimi sei anni ha varato a più riprese degli sgravi fiscali considerevoli per le grandi imprese e le famiglie più ricche, giustifica ormai la riforma con la necessità di fare delle economie di bilancio.
Un potere minoritario nell’opinione pubblica e in parlamento, contestato con forza, che ha perso molta della sua credibilità, può portare avanti un progetto di riforma globale del capitalismo francese assai ambizioso con l’unico appoggio di misure autoritarie e, nella sostanza, anti-democratiche? La risposta pare obbligata, ed è negativa. Macron è in realtà davanti a un bivio. La prima strada porta ad elezioni legislative anticipate, che in caso di vittoria ridarebbero slancio alla sua azione. Ma il rischio di una sonora sconfitta, che politicamente lo obbligherebbe alle dimissioni, è altissimo. La seconda strada è di andare avanti altri quattro anni, quelli che restano fino alle prossime presidenziali e alla scadenza della legislatura, cercando di non gettare altra benzina su una situazione politica e sociale esplosiva. Ma per un presidente che si è presentato come un innovatore radicale, come un riformista capace di cambiare regole considerate intoccabili, e come un leader in grado di aprire nuovi spazi democratici, vivacchiare al potere aspettando la scadenza del mandato non è certo una prospettiva entusiasmante.