Calorosamente ricambiato, il Brasile di Lula estende orizzonte politico e interessi economici verso l’oriente estremo, nella Cina di Xi Jinping in primis ma non solo; poiché tra poche settimane il presidente-operaio è atteso dai giapponesi al summit del G7 ad Hiroshima. Dove dovrà invece misurarsi con le critiche degli Stati Uniti e un sostanziale ma non proprio amichevole silenzio dell’Europa, in primis dell’Italia che con l’America Latina pur vanta tanti vincoli storici. La scelta, sebbene mediata da tempi e spazi di manovra ancora molto ampi, tali da poterne eventualmente correggere la rotta, presenta qualche incognita per Lula. Evidente quella di scivolare in un rapporto di subordinazione di fatto con il gigante asiatico e di conseguenza in conflitto più o meno acuto con Washington, di dove Joe Biden gli aveva riservato finora limitata ma riguardosa attenzione. Confortato però anche nel rischio -oltre che dalla prospettiva di nuove, notevoli possibilità di sviluppo- dal sostegno di quella parte niente affatto trascurabile della grande borghesia nazionale che da sempre vede se stessa come la naturale potenza egemone dell’economia subcontinentale.
Il fuoco covava sotto la cenere. Non serviva il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, precipitatosi a palazzo Alvorada poche ore dopo il ritorno di Lula da Pechino, a ricordare che il Brasile è tra i BRICS (con Russia, India, Cina, Sudafrica), che reclamano una moneta alternativa al dollaro nel commercio internazionale. E preme affinché vi aderisca anche l’Argentina presieduta almeno fino al prossimo dicembre dagli alleati politici e amici personali Alberto Fernandez e Cristina Kirchner. La Cina è il primo partner commerciale del Brasile e il suo maggior investitore. Il Sud-Est asiatico tra soli 6 anni rappresenterà il 66 per cento della classe media mondiale e il 59 per cento della sua capacità di consumo. La Russia e tutti gli altri BRICS vogliono esserci, il Brasile spera di trovarvi i mercati che non ha avuto in Europa e quei riconoscimenti che dagli Stati Uniti sono stati solo episodici. Il loro rifiuto a rivedere gli eccessivi privilegi nella gestione del Fondo Monetario Internazionale (FMI), ha indotto i BRICS a costituire un proprio istituto finanziario. La cui presidenza è stata adesso affidata all’ex presidente brasiliana Dilma Rousseff.
Criticato dall’intero movimento ecologista sudamericano in quanto nocivo per l’ambiente e dal governo argentino perché pregiudizievole dei suoi interessi industriali, l’accordo commerciale Unione Europea-Mercosur è rimasto chiuso nei cassetti. Morto prima ancora di venire a luce. C’erano voluti 20 anni di negoziati per raggiungerlo. Malgrado le pressioni di Berlino che vi aveva trovato largo spazio per le eccedenze della sua industria automobilistica, nessun paese lo ha ratificato. Sono rimaste inascoltate anche le richieste dei paesi latinoamericani per adeguare l’indennizzo concordato nel 2009 (100mila milioni di dollari l’anno), in cambio del loro impegno a frenare lo sfruttamento di risorse naturali al fine di ridurre il surriscaldamento del pianeta. Lo ricorda esplicitamente il comunicato congiunto diffuso alla conclusione degli incontri di Lula con Xi Jinping a Pechino (c’è da credere con qualche soddisfazione di quest’ultimo).
“Nessuno ci può impedire di sviluppare i nostri rapporti con la Cina”, ha proclamato Lula alludendo alle obiezioni di parte occidentale che più o meno apertamente hanno accompagnato il suo viaggio e maggiormente le corpose intese. A suggerire un’idea della misura di questo sviluppo, è intervenuto allora il ministro dell’Economia, Fernando Haddad, il numero 2 del governo di Brasilia. Dopo aver sottoscritto ben 15 importanti accordi di collaborazione tecnologica (tra i quali la controversa introduzione di prodotti dell’impresa leader cinese Huawei nello sviluppo del sistema 5G), ha detto che “il Brasile non vuole distanziarsi da nessuno, men che meno da un socio dell’importanza degli Stati Uniti”. Aggiungendo anzi l’intenzione “di ristabilire le migliori relazioni e collaborazioni possibili tanto con gli Stati Uniti quanto con Unione Europea”. In conclusione, considerato che Xi a Mosca con Putin e Lula a Pechino con Xi hanno più volte parlato della “crisi dell’egemonia occidentale”, c’è da ritenere che la visione che condividono e propongono come base del nuovo dialogo est-ovest sia quella di un mondo multipolare.
Ed è ancora in quest’ottica strategica che Lula vede e ha discusso della guerra in Ucraina, l’incrocio immediatamente più tragico e pericoloso delle attuali tensioni internazionali. Ha difeso con enfasi il duplice voto brasiliano di condanna dell’invasione russa in Ucraina espresso alle Nazioni Unite. Al tempo stesso, in occasione dello scalo compiuto negli Emirati Arabi al ritorno dalla Cina, ha ribadito quanto aveva già dichiarato alla rivista TIME prima ancora che lo rieleggessero per la terza volta capo dello Stato: Mosca e Kiev hanno entrambe gravi responsabilità nella guerra, né l’una né l’altra possono ignorarle. E agli ucraini che proprio in questi giorni lo hanno di nuovo invitato a visitare il loro paese, Lula ha confermato quanto detto in video-collegamento personalmente a Volodomir Zelenski: “Potete contarci: verrò al momento opportuno, non un secondo più tardi…”. Così confermando la volontà e l’ambizione d’impegnarsi in una mediazione di pace. Non saranno le critiche e gli scetticismi già raccolti a dissuaderlo.