Uscire dal capitalismo. Convergere per insorgere nel nome della cura

di Alessandra Algostino /
22 Marzo 2023 /

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Critica disincantata dell’esistente e individuazione di una via che restituisca il senso di futuro, di un futuro che non sia rassegnata e angosciata resilienza ma trasformazione dell’esistente: questo il filo dei flash che raccontano e interpretano il quadro di una realtà sempre più irrespirabile ne La rivoluzione della cura. Uscire dal capitalismo per avere un futuro di Marco Bersani per Edizioni Alegre (Roma, 2023).

L’approccio è sistemico: occorre considerare la «pluralità di contraddizioni che il capitalismo porta con sé» e la sua pervasività. Da ribaltare è il modello antropologico dell’homo oeconomicus, del solipsismo competitivo dell’imprenditore di se stesso, così come la finanziarizzazione di ogni aspetto della vita e del mondo, sino alla quotazione in borsa del valore ecosistemico di un territorio. Da rifiutare è la cieca adesione alla teoria del trickle down (“gocciolamento del benessere delle imprese”) come la privatizzazione dei servizi sociali: insomma, quel capitalismo, nella sua accezione neoliberista, la cui fine è più difficile immaginare che non la fine del mondo (Fisher). L’economia – il capitalismo – dilaga occupando lo spazio della società e della natura: uno scenario che Marco Bersani ritiene debba essere invertito, immaginando uno spazio più ampio, la natura, dentro cui si inscrive la società e, all’interno di questa, l’economia. Neanche la democrazia sfugge all’influenza del capitalismo: gli Stati divengono «facilitatori della penetrazione dei grandi interessi finanziari dentro la società» e «concentrano tutta la propria funzione nel controllo e nel disciplinamento sociale», scivolando in una «governamentalità scandita dalle emergenze». Le emergenze, la costruzione del nemico – si può annotare – distraggono e occultano il conflitto sociale, assicurando il mantenimento dello stato di cose presente, in caso con l’ausilio della repressione del dissenso e della costruzione di muri: si delinea la forma del neoliberismo autoritario.

Sin qui l’analisi cruda della realtà di un mondo in corsa verso l’estinzione dell’umanità, per gli effetti insostenibili del riscaldamento climatico o perché le lancette dell’orologio dell’apocalisse degli scienziati atomici raggiungono la mezzanotte, e, in ogni caso, la fotografia di un mondo diseguale e violento, segnato da ingiustizia sociale quanto da devastazione ambientale, attraversato dalla tensione distruttiva della guerra.

La soluzione non può stare nella radice del problema, ossia nel capitalismo, scrive l’Autore: non si può che concordare. L’essenza del capitalismo, del neoliberismo, sta nello sfruttamento, nell’appropriazione; esso si accompagna ad una consustanziale diseguaglianza e dominio. Occorre invertire la rotta, sovvertire il sistema: come? La proposta di Marco Bersani è rovesciare la solitudine del self-made man nella relazione della cura, ricostruire legame sociale e il “comune”, rigettando i mantra thatcheriani: “la società non esiste” e “non esiste alternativa”. Attraverso la “rivoluzione della cura”, la solidarietà si contrappone alla competizione, la fragilità e la vulnerabilità sono viste «come elementi costitutivi dell’esistenza umana», oltre il modello dell’uomo razionale e autonomo. Si ragiona di mutualismo e di welfare territoriale. La cura è altresì nel rapporto con l’ambiente, con la sostituzione dei beni comuni alla logica dell’estrattivismo e alla mercificazione, e nella riappropriazione del tempo. Ragionare di giustizia sociale e giustizia climatica comporta considerare «eccedenza sociale» quanto nel capitalismo è profitto individuale, scegliendone la destinazione «attraverso processi decisionali e di pianificazione collettivi»: una eterogenesi dei modi e dei fini del capitalismo, alias la sua fine? La cura viene declinata anche come “prendersi cura con”, ipotizzando una democrazia che valorizzi la partecipazione e la dimensione territoriale. Come il capitalismo è un complesso sistema di dominazione (nei rapporti di lavoro, nelle relazioni di genere, nei confronti della natura), così la cura è il paradigma politico che lo sovverte nei suoi molteplici aspetti: antropologici, sociali, politici, economici ed ecologici.

Mi fermo, per due domande e un inciso.

Le domande. Prima: qual è il rapporto fra il paradigma della cura e quello dell’emancipazione? La cura insiste sulla relazione, l’emancipazione sulla liberazione da ogni oppressione? Si precisa: si intende emancipazione come “pieno sviluppo della persona”, vista come situata e al plurale (emancipazione sociale, ossia di tutte le persone), nella prospettiva non di una illimitata libertà (di alcuni) ma dell’eguaglianza e della liberazione. La cura è un “modo di vivere” che scardina con il suo essere rapporti di dominio, l’emancipazione è un fine, un concetto in sé antagonista rispetto al dominio? E ancora: nell’orizzonte della cura, l’emancipazione è un obiettivo? Seconda domanda: il modello relazionale della cura può presentarsi come potenzialmente “più universale” di quello dei diritti (segnato, semplifico, dall’individualismo di matrice occidentale)? Un esempio: può essere più consonante rispetto al concetto africano di “ubuntu” (per cui si è persona attraverso la relazione con altre persone)?

L’inciso, “da costituzionalista”. Il costituzionalismo esprime una visione antitetica rispetto a quella del neoliberismo nella sua tensione a limitare il potere e a coniugare libertà ed eguaglianza (impedendo che la prima si tramuti in sopraffazione). Nello stesso tempo, la Costituzione appare assai vicina all’orizzonte della cura, con l’immagine della persona situata e inserita in una rete di relazioni sociali, una persona da liberare dai bisogni e dai condizionamenti. Alcuni elementi ricondotti alla cura sono nella Costituzione: solidarietà, liberazione dai bisogni, uguaglianza, pieno sviluppo della persona in una prospettiva relazionale, diritti sociali, effettiva partecipazione (specialmente artt. 2 e 3), ma anche considerazione dei territori (art. 5), redistribuzione della ricchezza e forme di “autogestione (artt. 43 e 46).

Torniamo al testo. Il libro si chiude con un invito a mantenere l’utopia come orizzonte per continuare a camminare, senza cedere alla sfiducia. Forse – suggerisco, riprendendo l’inciso – può essere di aiuto nel camminare anche la Costituzione, come utopia concreta, che esprime un progetto di trasformazione sociale. Non è per una “ossessione” da costituzionalista, ma perché la Costituzione è sia un terreno solido sul quale camminare sia una “compagna” che richiama il senso della storia, consente di coniugare radicamento materiale e immaginazione, evocando la dialettica che rende possibile la speranza del cambiamento e il cambiamento stesso.

Infine: convergere per insorgere, creando connessioni non solo nel segno di una solidarietà delle lotte, ma altresì nell’intento di costruire il «caleidoscopio dell’alternativa di società». Convince: è l’immagine di una classe trasversale, nella composizione e nella consapevolezza delle sfide da affrontare. È la “classe”, che si ritrova in alcuni movimenti territoriali (per tutti, il movimento No Tav), i quali, a tratti, sono riusciti anche ad iniziare quel passaggio dal “fare rete” al «costruire tessuti» che l’Autore definisce «complicato ma necessario». Occorre spezzare il «panico che immobilizza», (ri)-creare forze sociali e politiche che pratichino un altro presente per un futuro alternativo. Pensando di cogliere lo spirito del testo, chiudo queste brevi note con una citazione dall’appello (9 marzo 2023) del Collettivo di Fabbrica della Gkn: «L’assemblea permanente chiama oggi a una nuova mobilitazione di popolo, operaia, di intellettuali, artisti solidali, dalla parrocchia al centro sociale, di tutte le organizzazioni sindacali, mutualistiche, dei movimenti ambientalisti e transfemministi».

Questo articolo è stato pubblicato su Volere la luna il 16 marzo 2023

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