“Al cor gentil reimpara sempre amore”, è un incipit stilnovista che mi viene a mente dopo la visione del bellissimo instant docu biografico confezionato e in qualche modo dedicato dagli eredi del grande psichiatra Eustachio “Nino” Loperfido alla memoria del padre all’indomani della sua precoce scomparsa avvenuta nel marzo 2008, data peraltro topica per la lunga perenne stagione di crisi del capitalismo in quanto fautore di ordine e stabilità.
Prima di entrare nel merito del discorso, inquadriamo il contesto di questa proiezione, non la prima in assoluto di sicuro, anzi, ma certamente una sorta di riscoperta dopo un tempo relativamente lungo di latenza. E potremmo cominciare esattamente dalla percezione del tempo che fatti, contesti, persone ci comunicano e che è dilatatissima perché la distanza tra uno ieri in qualche modo mitizzato ed un oggi difficile irto di contraddizioni è davvero molto grande.
Siamo all’Archivio di Stato di Bologna ed il pretesto per questo che si connota come un piccolo prezioso evento è naturalmente la mostra documentaria Il Coraggio di cambiare, di cui vi abbiamo raccontato qualcosa e che chiude le due settimane di presenza nel quadriportico chiuso del complesso ex Roncati, preparandosi a nuovi lidi e nuove avventure.
Perché in effetti una mostra specie se di questa tipologia è davvero un work in progress che si arricchisce dello sguardo e dei commenti e delle curiosità del pubblico generico e di quanti vengono chiamati a chiosarla e commentarla: alla fine sarà sempre una faccenda diversa da quando è cominciata ed è un bene che sia così e che non suoni una consacrazione museale di un tempo andato, ma uno strumento di conoscenza e di lavoro, come fosse un manualetto pronto all’uso. Abbiamo già accennato a quanto non sia semplice fare pratica storica con le storie di ordinaria eccezione di una intera popolazione che può riconoscersi sia come utente che operatore nella fitta trama di servizi e modifiche amministrative: si va oltre da queste parti, oltre il portato delle microstorie perché è una storia comunitaria che si racconta nei suoi punti di forza e debolezza e pone interrogazioni forti all’attualità dei tempi, come vedremo.
In una storia cosi corale e cosi di processo, si potrebbe pensare non esistano i cosiddetti eroi o le figure protagoniste, ma sarebbe un errore perché anche se non ci dobbiamo certo immaginare capipopolo, rivoluzionari col basco e il sigaro, di sicuro ci vogliono personalità di grande spessore, visione e determinazione per riformulare paradigmi e abbattere pregiudizi attraverso la paziente edificazione di una rete di servizi partecipati : non per caso oggi si parla di design dei servizi, per indicare la forte valenza progettuale piuttosto che funzional-burocratese assegnata ad un qualcosa che tutto sommato deve far quadrare bisogni individuali e necessità collettive.
In verità il periodo aureo del riformismo bolognese è ricchissimo di figure di questo tipo particolare egualmente distribuite tra quelli che oggi chiamiamo tecnici, esperti, intellettuali, i politici e gli amministratori. Ed è un periodo ricco di invenzioni grandi e piccole che il film sa raccontare con semplicità e poesia. Naturalmente un tema aleggia sottinteso a questa storia di psichiatri coinvolti in una gestione di governement pubblico di cui Loperfido rappresenta una delle eccellenze ovvero il rapporto tra competenze esterne e politica. Come fu che questo incrocio funziono ed oggi invece ormai ogni volta che sentiamo la parola tecnico, riguardo le composizioni governative corriamo quasi a procurarci un amuleto?
Forse perché essi non furono inseriti quasi a garanzia di difesa dalle beghe paralizzanti della politica, ma viceversa forse perché al contrario estremamente politicamente orientati a vario titolo? Forse perché allora la parola politica si fregiava della maiuscola e corrispondeva ad una chiave di lettura del mondo, non ad una semplice espressione di vari particulari? in ogni caso, il documentario, esce anch’esso come lavoro corale perché accanto alla intervista al grande riformatore in favore di telecamera, che si racconta negli anni della formazione e della prima carriera professionale per poi approdare alla seconda parte della sua ricca esistenza, quella al servizio della comunità, oltre ai meravigliosi siparietti di vita familiare e di tempo libero, riporta moltissime interviste ad amici e sodali e ricorda anche con doverosa precisione le alleanze e le vedute comuni stabilite con amici e colleghi quali Alessandro Ancona, ohimè prematuramente scomparso anch’egli, su temi cruciali quali la deistituzionalizzazione dell’Istituto per minori di Casaglia, ad esempio o la battaglia per la chiusura delle scuole speciali intrapresa insieme ad Adriana Lodi. Lodi, altra indiscussa protagonista di una vera rivoluzione nell’intendere la maternità, l’infanzia e il processo di scolarizzazione. La persona bambino a l centro sempre, non la famiglia, non la madre fattrice, neppure i famosi tempi di conciliazione, ma la certezza che l’Infanzia fosse bene comune collettivo e come tale da essere parte del consorzio cittadino da subito. Formare e riformare due grandi obiettivi centrati allora.
Il filmato, montato benissimo e per nulla invecchiato o obsoleto si impreziosisce di inserti pubblicitari, brevi spot animati, inserimenti in bianco e nero di vita urbana di un’altra Bologna, meno da bere, ma in cui ci si preoccupava di limitare i danni del cattivo clima e delle morbilità infettive, mandando in vacanze rivierasche invernali gli anziani a spese del Comune, o offrendo le famose corse in autobus gratuite al pomeriggio allo scopo di favorire i contatti degli anziani da un quartiere all’altro. Perché le categorie epidemiologicamente esposte sono i bambini, gli anziani e le Donne, ci dice Nino, umano troppo umano, dal video, citando naturalmente i consultori e tutto il lavoro per una maternità consapevole, ma anche i lavoratori e il carico di rischio professionale o di patologie connesse con le mansioni e le sostanze da maneggiare. Un assessore alla Sanità a tutto tondo, consapevole dell’importanza del rapporto con la Natura, perché legato per nascita a quel mondo solo apparentemente arcaico e ben conscio del fatto che il modello virtuoso si crea anche attraverso la coerenza personale ai principi e ai valori educativi espressi con tenerezza nei confronti dei figli.
Molti occhi lucidi a fine proiezione perché comprendiamo bene dopo un quindicennio e anche attraverso lo schermo, non solo il fatto che ci manchino figure così empatiche e magnetiche al tempo stesso, pur nella lontananza assoluta da modalità manipolatorie e di self promotion di cui oggi sospettiamo un po’ sempre i nostri politici piacioni, ma perché cerchiamo anche qualcosa che abbiamo perduto e non sappiamo più cosa sia. Forse questi fantastici servizi rivolti alla popolazione anziana meno abbiente? Forse la trasmissione d’esperienza con le nuove generazioni? Forse l’ottimismo persino un po’ incosciente e propulsivo perché alimentato dalla convinzione di essere dalla parte giusta della storia? Si susseguono e rincorrono tra i reduci, anche se guai definirli tali, istanze, perorazioni, domande accorate come farà Amelia Frascaroli, allieva di Loperfido in qualche misura, già molto limitata in alternative e prerogative quando si trovò davanti lo sgombero traumatico, della comunità occupante di ex Telecom. i simpatici eredi Loperfido che quando girarono il film avevano bisogno soprattutto di esorcizzare un momento familiare difficile e tramutare l’angoscia distruttiva in dolore costruttivo, secondo il lascito morale stesso del genitore, oggi appaiono colpiti da tutte queste implicazioni sociali e lanciano moniti contro la regressione che…avanza, mi si perdoni l’ossimoro.
Del resto, la stessa voglia di porsi molte domande e ragionare sul perché ci siano sempre meno soldi per la pubblica gestione dei bisogni primari e sul perché si privatizzi, appalti, aziendalizzi una serie di servizi e funzioni che ineriscono cosi intimamente le persone era già emersa prepotente nei due precedenti incontri tenuti alla Biblioteca dell’istituzione Minguzzi nella settimana antecedente e dedicati rispettivamente al mondo della Scuola e al processo di territorializzazione del servizio di salute mentale. Nel primo caso dopo una partenza di memoria storica dedicata ai rimpianti Febbrai pedagogici, alle teorie persino di decoro e design per gli ambienti destinati alla prima infanzia, alla ricerca dei padri fondatori di un sapere così formativo per le maestre di allora, la discussione è deflagrata sulla situazione di precariato e contrattualistica attuale, sull’orrore dei test valutativi, sulle lacune nella formazione continua. Il presente si riprende tutto i suoi diritti e la sua cogenza. Nel secondo caso, dopo una disamina di casi di studio come villa Olimpia, dopo la rievocazione della diffusione capillare dei centri diagnostici, dopo l’interrogarsi sulla lunga dismissione manicomiale bolognese ecco che anche qui affiorano i nodi di una discussione e conflitti trasversali ineluttabili in un campo cosi delicato e legati alle grandi disomogeneità tra territori e regioni, alle diverse scuole di pensiero psichiatrico che sono comunque capaci di marcare paletti e differenze, specie considerando che il sapere psichiatrico si verticalizza e si settorializza non appena ci si distrae un attimo e non dialoga con gli altri dipartimenti in modo agevole e strutturato.. Muri di incomunicabilità si instaurano facilmente e ci si divide tra la partecipazione, per esempio, ai gruppi di mutuo auto aiuto dei parenti dei pazienti o meno, chi debbano essere gli esperti con esperienza, se il budget di salute mentale costruito come un vestito intorno a quello specifico utente sia finalmente riconoscere una soggettività o allontanare il disagio mentale come fatto collettivo. Aleggiano nell’aria, tra diversi giovani presenti, alcuni dei quali attivisti per i movimenti sulla salute molte curiosità e perplessità considerando il difficile post covid, l’aumento esponenziale di malessere mentale giovanile, la scarsa capacità psichiatrica preventiva di sistema, il moltiplicarsi degli ambulatori psicologici popolari per un accesso rapido realmente a bassa soglia, il ricrearsi qua e là, perché il rischio a riguardo è sempre presente, delle logiche di esclusione residenziale. Ci si chiede implicitamente se le più attuali frontiere dei caffè randomizzati controllati come forme di condivisione comunitaria dei problemi di salute mentale e i recovery colleges siano una strada percorribile ovunque e nel contempo, ci si rende conto che sotto l’etichetta basagliana che ha nominato un’epoca si celassero in realtà molti conflitti. Chiosa bene Donegani già direttora del DSM, prima della direzione Fioritti e poi Lucchi, che comunque una caratteristica dei tempi fu l’assemblearismo, il discutere moltissimo in maniera anche dura tra vari livelli e competenze professionali, il portare il conflitto nel cuore dell’equipe di cura.
A questo punto, mi viene da considerare che questo gran parlare di tutto con tutti fosse forse, oltre alle risorse e a qualche semplificazione sociale e ideologica in più, il vero ingrediente di cui sentiamo la mancanza. Oggi abbiamo moltissimi movimenti, moltissime libere associazioni, moltissime forme aggregative che si creano e ricreano in forma spontanea spesso però parlandosi addosso. L’Istituzione oggi nello stesso tempo, sembra di nuovo richiedere la partecipazione dei suoi cittadini, ma la sensazione che i filtri, le mediazioni, i cuscinetti, le mille reti, i mille uffici di collegamento, finiscano per avvitare il discorso su se stesso è grande. Non ci resta che attendere il catalogo della mostra, intanto, in via di pubblicazione e gli sviluppi di discorso che ci potranno essere per le tappe a seguire, come dire, dal passato, al futuro prossimo.