Quando arriva l’ora di pranzo, Gemma ha già visto su Rai Yoyo nove episodi di Peppa Pig e otto di Masha e Orso. A quattro anni non possiede ancora uno smartphone, ma spesso gliene danno uno in mano per guardare qualche altro video su YouTube. Per motivi di copyright, sulla piattaforma del gruppo Alphabet in genere non si trovano puntate intere, ma raccolte di spezzoni senza una struttura narrativa. Poco importa a Gemma, l’importante è che le immagini siano colorate e si muovano. Poco importava alla maggior parte dei bambini degli anni Ottanta, d’altra parte, che i canali Fininvest mandassero spesso in onda in ordine casuale i cartoni animati dell’epoca. Talvolta interrompendo improvvisamente una stagione per ripartire come nulla fosse dal primo episodio, come ricorda in un proprio libro il fumettista Zerocalcare, ancora traumatizzato. Per non parlare della censura a cui venivano sottoposti molti anime giapponesi, concepiti per un pubblico più adulto e riproposti in Italia ai più piccoli, dopo averne tolto rozzamente riferimenti sessuali e soprattutto omosessuali…
Proprio la richiesta di censura e la rappresentazione dell’omosessualità nei cartoni animati sono tornate al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica italiana durante la scorsa campagna elettorale in merito alla nuova stagione del cartone animato inglese Peppa Pig, in cui un orsetto polare presenta alla protagonista Peppa le proprie due mamme. Questo episodio ci dà lo spunto per approfondire la più ampia discussione che negli ultimi anni si è andata a formare attorno alla funzione sociopolitica e di costruzione dell’identità, anche in chiave geopolitica, dei cartoni animati destinati ai bambini in età prescolare. Come ormai assodato quando si discute di molti altri ambiti, dal cinema alla musica, quasi nulla nel rapporto tra cultura, società e politica è irrilevante. Tantomeno un prodotto come i cartoni animati, che possiede un ruolo ancora cruciale nel consumo mediatico dei bambini più piccoli.
Peppa Pig tra Brexit e omogenitorialità
Prima di finire sul banco degli imputati in Italia, per esempio, Peppa Pig era stata indicata dall’allora premier conservatore Boris Johnson come massimo esempio dell’export britannico e insostituibile strumento di soft power. Ciò aveva a sua volta aperto una discussione sul fatto che il mondo di Peppa Pig, con la propria società ordinata e largamente classista, potesse effettivamente rappresentare valori conservatori. In modo analogo all’altra serie per cui è famoso lo studio che realizza Peppa Pig: la comunque simpatica Il piccolo regno di Ben e Holly, che pur essendo ambientata in un mondo di fate ed elfi, presenta di fatto la solita rappresentazione archetipica della società inglese, con tanto di famiglia reale dalla pronuncia posh e servitori con un marcato accento popolare e regionale da film di Ken Loach.
Anche riguardo ai temi delle recenti accuse italiane, apparentemente in direzione opposta, c’è da dire che prima della svolta della famiglia omogenitoriale della nuova stagione, lo stesso creatore di Peppa Pig, Mark Baker, aveva rivendicato pubblicamente l’intenzione di ospitare nella serie soltanto famiglie “tradizionali”. A cambiare le cose in questo ambito è stata probabilmente l’acquisizione della maggioranza della società che controlla Peppa Pig da parte del gruppo americano-canadese Entertainment One. Realtà evidentemente più sensibile, vuoi per convinzione o per opportunismo commerciale, nei confronti di una mobilitazione on-line, nata proprio negli Stati Uniti, con la richiesta di introdurre nuovi personaggi che rispecchiassero famiglie di tipo differente. Ciò a cui però i produttori non potrebbero mai rinunciare, invece, è l’identità fortemente “british” della serie. Elemento peraltro comune a molte altre serie realizzate nel Regno Unito.
Dalla stessa National Film and Television School (NFTS) di Londra in cui ha studiato Mark Baker, per esempio, è uscito anche il suo coetaneo Nick Park: il creatore di Wallace & Gromit e Shaun the Sheep. Pur trattandosi di prodotti molto differenti rispetto a quelli di Baker (e forse politicamente agli antipodi) c’è un elemento che hanno senz’altro del tutto in comune, ovvero l’esponenziale rappresentazione di elementi culturali tipicamente inglesi. La stessa nostalgica vita di campagna, le sue convenzioni sociali, i suoi rituali tra formaggio Wensleydale e tè con i biscotti. Spesso portati all’eccesso, al punto da poter essere interpretati in chiave autoparodica dagli spettatori più smaliziati, ma lasciando aperta la possibilità di una fruizione non ironica: sia all’estero, che nello stesso Regno Unito della Brexit, alla ricerca di continue conferme sullo stato di eccezionalità della propria identità nazionale. Insomma, proprio quell’asset culturale sul piano geopolitico che rivendicava Boris Johnson.
Una trappola al miele? La geopolitica di Masha e Orso
Una situazione analoga sembrerebbe coinvolgere Masha e Orso, forse l’unica altra serie animata in grado di competere globalmente con Peppa Pig come influenza tra il pubblico più giovane, ma ancora più controversa sul piano politico. Lanciata nel 2009 dalla casa di produzione russa Animaccord, la serie propone un immaginario rurale e fortemente identitario, che ha molti elementi in comune con quelli dei cartoni britannici fin qui discussi, soltanto declinato in salsa russa. È
grazie a Masha che bambine e bambini in oltre 150 Paesi al mondo hanno imparato a identificarsi con il suo abbigliamento tradizionale, a sognare la kasha di cui va ghiotta, a temere la strega Baba Yaga e così via.
A differenza del caso britannico, però, da qui all’accusa di essere uno strumento di propaganda, il passo è brevissimo. Numerosi articoli e pubblicazioni accademiche si soffermano da anni sugli elementi fortemente identitari e potenzialmente propagandistici della serie. Sul Times di Londra l’analista Anthony Glees arrivò a definire Masha come «putiniana». Mentre l’aneddotica si spinge a ipotizzare un collegamento tra l’eponimo Orso e il braccio destro di Putin, Dmitrij Medvedev. Quest’ultimo era presidente della Federazione Russa negli anni in cui andava in onda la prima stagione di Masha e Orso: in lingua originale Masha i Medved. Un’omonimia casuale, quella tra l’allora uomo forte della Russia e il bonario co-protagonista della serie, si chiedono i più complottisti? Senza scomodare queste teorie estreme, più solida è l’interpretazione che vede comunque l’orso come simbolo della Russia stessa: in questo caso rappresentata come apparentemente burbera, ma in fondo bonaria, tollerante e pronta a intervenire quando necessario per il bene di Masha. O per difendere i propri confini, come nell’episodio Vietato passare.
Già nel 2015, proprio queste chiavi di lettura portano alcuni autori baltici a denunciare Masha e Orso come uno strumento della guerra ibrida di Putin, volta a conquistare cuori e menti dei più piccoli. Poco dopo, giungono dall’Ucraina le prime richieste di sospenderne la messa in onda, che poi si moltiplicheranno anche altrove (ma senza effetto) in seguito all’invasione del 2022. Ad aumentare la confusione, tutte queste letture vengono smentite in Russia e denunciate come dimostrazione di russofobia, ma al contempo vengono alimentate anche da alleati di Mosca, come nel caso dell’uso dell’iconografia di Masha e Orso da parte di un partito serbo filorusso nel corso della campagna elettorale del 2016. Senza contare che anche in questo caso un cartone animato si ritrova nel tempo accusato di una cosa e del suo esatto opposto. In ambienti conservatori russi, per esempio, l’anarchico comportamento di Masha sarebbe visto come un pericoloso esempio di proto-femminismo e sintomo di decadenza occidentale.
Cuccioli di cane contro il welfare State
La presenza di elementi politicamente sensibili e controversi nei cartoni animati non è certo una tendenza nuova, ma è negli ultimi venti anni che si è diffusa una maggiore sensibilità nella loro critica, che certamente talvolta sfocia nell’iper-analisi. Si pensi alle teorie, nate all’inizio degli anni Duemila in modo parodistico, per poi trovare qualche estimatore anche in ambito accademico, secondo le quali i Puffi sarebbero stati concepiti per rappresentare una società marxista ideale, se non direttamente come strumento di propaganda durante la guerra fredda. Al di là di questi eccessi di elaborazione teorica, molti altri casi sono invece ormai largamente riconosciuti. Restando nel mondo francofono, per esempio, sono emerse numerose critiche nei confronti del razzismo presente in varie storie di Tintin. Così come l’elefante Babar (che per tipologia narrativa e di destinatari può essere più direttamente considerato un antesignano di Peppa Pig e compagnia) è stato denunciato da vari autori come una metafora e una rappresentazione agiografica del colonialismo francese.
Ciò che sembra essere cambiato rispetto alle produzioni del passato, inoltre, è la diversa consapevolezza da parte dei creatori del proprio ruolo nel veicolare non solo storie e idee, ma prima di tutto simboli. Sia sul piano sociale e dei diritti civili, spesso soprattutto rivolto verso l’interno, sia su quello geopolitico e del soft power, considerato il potenziale dei cartoni come prodotti di export. Un fenomeno forse alimentato anche dalle diverse modalità produttive rispetto al passato, se si pensa che un tempo i cartoni animati erano il più delle volte la trasposizione di storie e personaggi nati su libri di autori singoli o al massimo di coppie creative. Mentre oggi la maggior parte delle serie nasce direttamente come prodotto video, inventato collettivamente da grandi studi. Spesso più attenti e consapevoli rispetto a certe dinamiche socioculturali.
Questo diverso approccio può portare però anche a conseguenze opposte rispetto a quelle viste nei casi precedenti. L’elaborazione delle critiche sulle serie del passato sembra per esempio avere partorito in Francia un superamento rispetto agli elementi più sensibili e al tempo stesso una cautela che va nella direzione opposta a quella dell’esaltazione dell’identità nazionale tradizionale. Al punto che il sempre vivace e potente mercato dei cartoni animati francesi propone in gran parte serie che nei contenuti (al di là di aspetti stilistici, riconoscibili dagli addetti ai lavori) sono solo sottilmente identificabili come francesi. Detto in parole povere: niente croissant, torri Eiffel e baguette sotto braccio nei vari Floopaloo (o Flapachà), Taffy e negli altri cartoni francesi usciti negli ultimi anni. In compenso, molti sono i riferimenti a temi ambientali, di rispetto delle minoranze e di cooperazione: il cui maggiore peso odierno appare evidente confrontando la serie originale dei Barbapapà con quella prodotta a partire dal 2019.
Non tutte queste narrazioni sono cambiate, però, in senso liberal. È il caso dell’ultima appartenente alla triade dei più importanti e diffusi cartoni per bambini in età prescolare, ovvero la serie canadese Paw Patrol. Nata nel 2013, attualmente trasmessa in 160 Paesi e, secondo alcuni osservatori, uno dei più efficaci strumenti di propaganda filocapitalista, conservatrice e autoritaria attualmente esistenti. L’immaginaria cittadina nordamericana nella quale è ambientata la serie, infatti, ha un’amministrazione pubblica di volta in volta incapace o malevola, che crea problemi invece di risolverli. Così che soltanto l’organizzazione paramilitare privata formata da un ragazzino con i suoi cuccioli di cane è in grado di intervenire a tutela dei cittadini, sostituendosi anche ai servizi pubblici e sociali più basilari. Una linea coerente con quanto denunciato in un articolo del Washington Post del 2015 riguardo al presunto sottotesto nascosto nella serie animata If you give a mouse a cookie, che un think tank della destra repubblicana americana aveva rivendicato essere un eccezionale alleato nel mostrare ai bambini i pericoli del welfare State nel trasformare i bisognosi in sfaticati dipendenti dall’intervento pubblico. Come se non bastasse, Paw Patrol si fa notare anche riguardo alle questioni di genere: gli eroici cani sono tutti maschi, fatta eccezione per la cucciola Skye, vestita interamente di rosa e definita invece come “emotiva”: abbastanza per spingere The New Statesman a titolare, appena qualche mese fa: «Non avremo mai uguaglianza di genere finché ci sarà Paw Patrol in giro».
Questa carrellata di situazioni contrastanti, insomma, dovrebbe far comprendere quanto sia peregrino ogni tentativo di argomentare quali sarebbero i rischi che correrebbe la piccola Gemma nel continuare le proprie frequentazioni con i video più di successo tra la sua generazione. Essere vittima di propaganda gender come credono gli esponenti di FdI oppure al contrario interiorizzare la società classista e i valori conservatori britannici che hanno portato alla Brexit? Farsi irretire dalla propaganda del Cremlino nascosta in Masha e Orso o farsi traviare dal femminismo della sua protagonista? Al tempo stesso, però, emerge anche chiaramente quanto quello dei cartoni animati sia un enorme mercato culturale, dal forte valore simbolico, nel quale pertanto inevitabilmente vanno a sfidarsi visioni e narrazioni differenti. Un conflitto che nell’attuale mondo multipolare e in rapido mutamento può finire per assumere anche una funzione geopolitica. In attesa che anche Gemma sia in grado di orientarsi da sola, quindi, sta agli adulti la responsabilità di stare attenti a non cadere nella trappola di vedere in ogni prodotto culturale la prova di un complotto, ma anche di non sottovalutare l’impatto che una buona storia o un simbolo generazionale possano avere nel contribuire a definire le dinamiche sociali e internazionali presenti e future.
Questo articolo è stato pubblicato su Atlante Treccani il 18 ottobre 2022