“Quando s’alza il vento/ No, più fermare non si può…”. Se poi il vento non è quello cantato da Lucio Battisti e dai Dik Dik ma è il vento del ’68, può succedere di tutto. Un vento gonfio di antiautoritarismo. Si comincia liberandosi dai riti e dalle regole gerarchiche che ingabbiano la scuola e scompigliando l’ordine padronale nelle fabbriche basato su sfruttamento e obbedienza cieca, poi si va avanti per rovesciare i principi della famiglia autoritaria e patriarcale e persino gli inginocchiatoi della chiesa. Non si sa dove si andrà a finire, di questo passo. Anzi, si sa ma non se ne parla neppure nelle commemorazioni decennali di un biennio, ’68-’69, che sconvolse mezzo mondo e in Italia non si esaurì in un fioco di paglia. Il vento antiautoritario entra nei luoghi più separati, i più blindati dove regnano incontrastati ordine e disciplina. Lo spirito del secondo biennio rosso sfonda le porte blindate dei manicomi scombussolando l’ordine costituito, saltano sbarre, letti di contenzione, elettroshock, fino alla chiusura degli ospedali psichiatrici perché in fondo siamo tutti un po’ matti, e nessuno lo è completamente. Ma ancor prima, all’inizio del 1970, quel vento filtra tra i muri e nelle camerate delle caserme, risale le altane, scuote l’esercito e le sue leggi “eterne”, tenta di espandere la democrazia e portare i diritti costituzionali nel più chiuso dei corpi separati dello stato. Solo in parte ci riesce: mette in moto una rivoluzione passiva che porterà alla fine dell’esercito di leva per lasciar posto all’esercito professionale, bloccando così il processo di democratizzazione delle forze armate. L’eterogenesi dei fini. Ma il virus della democrazia si espande ancora, coinvolge ufficiali e sottufficiali dell’Aeronautica militare e financo la Polizia di stato che, con una mobilitazione democratica appoggiata dai sindacati e dalla sinistra più di quanto sia stato fatto con il movimento dei soldati, consentirà ai poliziotti di conquistare il proprio sindacato. Cosa sia rimasto di quel vento originario sarebbe materia di un’approfondita discussione, appena accennata dopo la caccia all’uomo al G8 di Genova.
“S’avanza uno strano soldato/ Il movimento per la democratizzazione delle Forze armate (1970-1977)”, firmato da Deborah Gressani, Giorgio Sacchetti e Sergio Sinigaglia (editore Derive e Approdi, 185 pagine, 18 euro) è un libro utile, ravviva la memoria dei meno giovani e racconta a tutti un pezzo di storia ingiustamente trascurato degli anni Settanta. Il libro si snoda in tre parti a cui si aggiunge una galleria di immagini di quando la naia era obbligatoria per tutti i nati maschi, quelli almeno abili e arruolati e privi di raccomandazioni d’alto bordo. Una prima parte ricostruisce la storia del movimento dei soldati contestualizzandola dentro la vita in caserma a partire dal Car (Centro addestramento reclute, i primi tre mesi di servizio militare). Al Car si insegna ai ragazzi a obbedire e abbassare la testa battendo i tacchi e scattando per eseguire ordini stupidi di superiori frustrati. Autoritarismo, maschilismo (“chi non è buono per il re non è buono per la regina”), premi alla fedeltà e alla delazione e punizioni esemplari a chi chiede perché, a chi esercita il diritto al dubbio, a chi pensa con la propria testa. Ci si sveglia con un calcio alla branda di ferro del caporale di turno, uno che sogna di diventare caporalmaggiore per sottomettere, oltre ai soldati, anche i caporali. Divide et impera, è il motto che percorre tutta la catena di comando. Veci contro spine. Ma qui entra in campo, anzi in caserma, la nuova leva di ragazzi, quelli del ’68. Sono studenti che hanno occupato le scuole, operai che hanno strappato accordi e contratti fino ad allora inimmaginabili, arrivano capelloni e vengono rasati a zero, giù l’eschimo e su la divisa, dal basco alle mutande tattiche. Ragazzi che si rifiutano di considerare la naja una parentesi nella propria vita e nella neo-conquistata libertà, e rifiutano un rancio di merda, e di gridare lo giuro, insomma di obbedire passivamente chinando la testa da fronte ai superiori. Le adunate nei piazzali per interminabili e ripetuti appelli mostrano le prime crepe, i brontolii, sull’attenti si sta sempre meno composti e immobili. Nei bagni cominciano a comparire volantini ciclostilati che chiamano all’unità e alla protesta i soldati, si reclutano sconosciuti compagni fischiando le note dell’Internazionale. Lavorano sodo le spie, fioccano punizioni e nei casi peggiori si finisce al carcere militare di Gaeta o Peschiera.
Lo sciopero del rancio è la prima forma di lotta per rivendicare migliori condizioni di vita e rispetto, si contestano ordini stupidi e ruberie ma anche esercitazioni faticose e pericolose in cui non sono rari gli infortuni. Come in Val Venosta nel ’72 dove muoiono 7 alpini per una slavina durante un’esercitazione o a Tarvisio un anno dopo, con altri due soldati morti. Va dato atto a Lotta Continua di avere per prima lavorato all’organizzazione delle lotte dei soldati con una sua costola, i Proletari in divisa (Pid). Nel giro di un po’ di mesi anche le altre organizzazioni a sinistra del Pci inizieranno l’attività militante tra i soldati, il Manifesto con i Cmcm (collettivi militari comunisti Manifesto) e Avanguardia operaia (Collettivi proletari antimilitaristi). Se Lc è sensibile, in una fase iniziale, alla suggestione della rottura rivoluzionaria e punta alla penetrazione nell’esercito in vista dell’ora X, il Manifesto punta alla rottura dell’isolamento e alla democratizzazione, alla riforma dei regolamenti. Insieme le tre sigle ragionano sui rischi di un uso dell’esercito nell’ordine pubblico, e questo avviene quando ancora brucia la strage di stato a piazza Fontana, mentre la politica italiana segna un netto e pericoloso spostamento a destra sotto la spinta del terrorismo fascista armato e protetto da apparati dello Stato. Le proteste si moltiplicano, dal Nordest dove si fanno le esercitazioni contro un nemico esterno immaginario che ha le sembianze del comunista Tito fino al centro e al sud. Dal ’73 anche Lotta Continua abbandona la suggestione della presa del Palazzo d’inverno e di conseguenza i Pid incentrano i loro sforzi sul versante della democratizzazione, con un rapporto più stretto con le altre organizzazioni.
Due avvenimenti internazionali, uno tragico e l’altro esaltante, mettono al centro di tutta la sinistra il ruolo, le finalità e la cultura delle forze armate. Il primo è il colpo di stato militare in Cile del ’73 che spazza via il legittimo governo di sinistra impersonato da Salvador Allende. Chi scrive è soldato semplice all’ospedale militare del Celio e il giorno dopo il golpe viene fotografato mentre manifesta sotto l’ambasciata cilena. Immediato trasferimento nel carcere punitivo di Vacile di Spilimbergo. Gerarchie militari e servizi hanno avviato un lavoro di spionaggio e repressione del movimento dei soldati che sta “pericolosamente” radicandosi tra i ragazzi di leva, come testimonia la terza parte del libro. Se in Cile il ruolo golpista dell’esercito con il sostegno dei poteri forti interni e internazionali (leggi Usa) accalora la sinistra e spinge il Pci a imboccare la strada, che si rivelerà un vicolo cieco con l’assassinio di Aldo Moro, del compromesso storico, di segno opposto è la rivoluzione dei garofani in Portogallo. Una rivoluzione partita dalle colonie, guidata dagli ufficiali delle forze armate e salutata dall’entusiasmo dei cittadini al passaggio dei carri armati che hanno spazzato via la dittatura fascista. Quei soldati in trionfo nelle strade di Lisbona lanciano garofani rossi alla folla in delirio. Da noi, in caserma si discute di nuovo sui ruoli diversi e opposti che può ricoprire l’esercito. Soldati e operai, contadini e marinai uniti nella lotta per costruire il nuovo Portogallo. Gli slogan di Lisbona rimbombano anche in Italia: davanti alla porta 2 di Mirafiori, al cambio turno delle 22, le tute blu trovano una sorpresa ai cancelli, qualche decina di soldati distribuisce loro volantini. Non è un golpe, ma una richiesta di incontro e solidarietà reciproca tra due movimenti. In Friuli i soldati sfilano in piazza con le forze democratiche, volto coperto e protezione dei servizi d’ordine. Il ’75 è l’anno più alto delle lotte dei soldati, prima del declino e della fine dell’esercito di leva.
La seconda parte del libro restituisce le testimonianze di chi ha vissuto in prima persona, dentro le caserme e nella sinistra extraparlamentare, l’avventura del movimento democratico dei soldati. L’angolo di visuale delle testimonianze e l’impianto generale di “S’avanza uno strano soldato” è quello di Lotta continua, un approccio legittimo ma forse un po’ parziale, anche se il ruolo dei Pid è stato sicuramente molto importante. Una scelta comunque legittima e che non inficia l’utilità di questo libro, alla ricerca di una memoria perduta che proseguirà nella costituzione dell’Archivio storico del movimento dei soldati dedicato a Franco Travaglini, ospitato dall’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea.