L’economia europea è unificata in un mercato sovranazionale. La sovranità politica invece, resta frazionata in una pluralità di Stati. Abbiamo la moneta unica, ma non un fisco comune. Con la pandemia qualcosa è cambiato. Il Next Generation Eu e lo Sure hanno creato un debito comune e condizioni favorevoli per nuove regole fiscali e per dare il via a «un bilancio federale».
Senonché due grossi ostacoli – il sovranismo nazionalista e la governance liberal-liberista dell’Ue – si frappongono al cambiamento, alla costruzione di un’agenda europea incardinata sui temi della pace, del contrasto al cambiamento climatico, della crisi energetica, del passaggio alle fonti rinnovabili, del Welfare.
Per i sovranisti l’Europa va bene solo quando porta vantaggi immediati al proprio paese. La pensano così Giorgia Meloni e Matteo Salvini, che imputano alla Ue la responsabilità della bassa crescita dell’economia italiana e ne denunciano ritardi, burocratismo e altro. Non fanno mistero di volerne ridimensionare il ruolo, non solo mantenendo il diritto di veto nel Consiglio europeo, ma puntando esplicitamente a ribaltare il primato del diritto europeo su quello nazionale.
Confondono l’interesse nazionale con il nazionalismo e il protezionismo, in perfetta sintonia con il premier ungherese, Viktor Orbàn, e con quello polacco, Mateusz Morawiecki. Non importa se poi uno è filo russo e l’altro atlantista. Fatto sta che l’unità e l’autonomia politica della Ue sono minate da una destra sovranista che si mette di traverso e blocca qualsiasi decisione tendente ad affrontare l’emergenza gas e le ricadute economiche e sociali sui popoli del continente.
La debolezza politica europea è determinata anche da una gestione ispirata al culto della stabilità monetaria, al mito di una crescita senza limiti, ad una fiducia incondizionata nelle virtù taumaturgiche del «libero mercato» e delle innovazioni tecnologiche. La guerra russo-ucraina ha messo in discussione il groviglio di legami e di reciproche dipendenze intessuto tra gli Stati negli anni d’oro della globalizzazione economica e finanziaria.
La matassa è così intricata che la Russia, sottoposta a dure sanzioni dai paesi occidentali, riesce a guadagnare come non mai dalla vendita di metano e petrolio, nonostante abbia tagliato i rifornimenti. Succede poi che gli Usa e la Norvegia, alleati Nato, ricavino enormi utili dalla vendita di fonti fossili ai paesi europei, naturalmente a prezzi maggiorati. E succede che l’Olanda, paese dell’Unione, veda crescere il suo Pil grazie alle speculazioni della Borsa di Amsterdam sul mercato del gas.
Siamo in un’economia di guerra, ma «i mercati tendono a preoccuparsi più dei prezzi dei bond che non del benessere della gente» (J. Stiglitz). E’ noto che nei periodi di guerra alcuni territori prosperino a spese di altri, alcuni settori (armi, energia, credito) realizzino grandi profitti e altri siano costretti a chiudere. Durante le emergenze gli «animal spirits» del capitalismo, lasciati a sé stessi, accrescono gli squilibri e accentuano le disuguaglianze. Fasce ristrette di popolazione si arricchiscono sempre di più mentre l’area del disagio e dell’emarginazione sociale aumenta.
La crisi della globalizzazione, che ha trovato nel nostro continente un significativo punto di caduta, ha aperto crepe e falle difficili da tamponare con mere misure emergenziali o diffondendo l’illusione, come fa la leader di Fratelli d’Italia, che il nostro paese possa salvarsi in un’ottica nazional-sovranista. D’altra parte il tentativo di affrontare l’emergenza economica senza toccare i meccanismi economici e i rapporti sociali ci porta diritti a quella «decrescita infelice», spesso evocata dai liberisti di casa nostra con disprezzo e ironica ignoranza nei confronti della sinistra e dei movimenti ecologisti.
Il voto del 25 settembre condizionerà anche il futuro dell’Europa. La destra sovranista ha tutto l’interesse ad abbassare i toni sui temi europei perché sa bene che l’opinione pubblica, in grande maggioranza, è europeista. Conviene piuttosto alla sinistra che il confronto cresca d’intensità, che l’Europa diventi uno spartiacque fondamentale tra destra e sinistra.
Il successo del partito della Meloni, come pronosticano i sondaggi, darebbe un colpo esiziale al rafforzamento politico dell’Unione, condannata così ad essere il classico vaso di coccio nel gioco delle superpotenze. Una Ue fragile e divisa è l’obiettivo di Putin, che non esita a usare l’arma del gas a questo scopo. Non è un mistero, inoltre, che l’amministrazione americana preferisca una gestione europea improntata alla deregulation, che ha un punto di forza proprio nella frammentazione dei sistemi fiscali, invece che alla regulation, una prassi politica che presuppone obiettivi comuni e condivisi.
Giorgia Meloni persegue appunto una linea che sposa atlantismo ed antieuropeismo. Una linea che nega autonomia politica alla Ue sul piano interno, privandola di un ruolo attivo e propositivo nelle relazioni internazionali. L’interesse nazionale coincide come non mai con un’Europa autonoma, democratica e federale.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 13 settembre 2022