È bastato che Letta avanzasse una timida proposta sulla tassa di successione per sollevare la questione fiscale e i suoi tabù. E per capire che anche le riforme necessitano di un orizzonte alternativo
Nell’ambito di un’anomala campagna elettorale agostana, sembra per un attimo tornare a tenere banco la questione della tassa di successione. Il segretario del Pd Enrico Letta – mentre è impegnato a costruire una coalizione nel solco della fantomatica «Agenda Draghi» – ha nuovamente proposto l’istituzione di una dote per i diciottenni da finanziare con un’imposta di successione sui patrimoni plurimilionari. L’idea ha una matrice culturale di riferimento nelle proposte dell’economista A.B. Atkinson, scomparso nel 2017 – ed è presente nel dibattito pubblico italiano anche per merito del Forum Disuguaglianze Diversità. Nella nostra opinione, gli introiti di un sacrosanto aumento dell’imposta di successione dovrebbero avere altra allocazione, ad esempio un investimento robusto sulla filiera dell’istruzione (dai nidi all’università) all’insegna dei principi cardine dell’universalismo e della gratuità. Sosteniamo questo non per un’avversione in sé ai trasferimenti monetari diretti (il Rdc è un ottimo strumento – da difendere e da estendere quantitativamente e qualitativamente), ma per le maggiori finalità trasformative e strutturali che avrebbe un intervento volto a rafforzare in profondità il sistema educativo nazionale – promuovendo al contempo effetti rilevanti in termini sociali. In questo contributo, però, il focus sarà posto sul tema dell’imposta di successione e sul ruolo che potrebbe avere in una riforma del sistema fiscale all’insegna della progressività, della solidarietà e del contrasto alle sperequazioni sociali (coerentemente alle disposizioni dell’Art. 53 della Costituzione Repubblicana).
Lo stato dell’arte
Branko Milanovic, uno dei massimi studiosi mondiali di disuguaglianze, ha pubblicato nel 2019 un prezioso saggio dal titolo Capitalism, alone: the Future of the system that rules the world in seguito tradotto in italiano dall’editore Laterza. Egli sostiene che il capitalismo globale contemporaneo è contrassegnato dalla compresenza competitiva di due modelli – il capitalismo liberal-meritocratico occidentale e quello politico (rappresentato, ad esempio, da paesi come Cina e Vietnam). Qui ci interessa strettamente il primo che, secondo Milanovic, è esposto ai rischi sistemici della gigantesca questione della disuguaglianza sociale. L’autore parla anche di tassa di successione e ricorda come nel periodo neoliberista essa sia stata indebolita – basti pensare agli Stati uniti sotto la guida di Bush figlio. Se nel 2001, infatti, il gettito derivante da questo tipo di imposta poteva finanziare 14 volte il costo dei programmi governativi di aiuto alimentare alle famiglie in difficoltà, nel 2011 poteva coprirne solamente i due terzi.
La tassa di successione, idea in origine di matrice liberale (l’eredità, in fondo, non è né un talento né un merito), ha conosciuto il periodo di massima implementazione nei paesi occidentali nel secondo dopoguerra – nel cosiddetto trentennio socialdemocratico («trent’anni gloriosi») che determinò, per dirla con Krugman, una «grande compressione» delle sperequazioni sociali. Non si è trattato della prima o dell’unica volta che un principio progressivo nato nell’alveo del liberalismo (anche per rispondere alle sfide poste dal nascente movimento operaio) ha trovato la sua massima applicazione in un periodo storico in cui la sinistra e i sindacati hanno conosciuto una forza considerevole. Dopo il cambiamento del mondo (e dei rapporti sociali) seguito ai trionfi elettorali di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan l’imposizione fiscale si è fatta sempre meno progressiva nei paesi a capitalismo avanzato. Questa sforbiciata alle tasse dei più ricchi ha riguardato anche successioni ed eredità, ma anche qui l’Italia è un caso paradigmatico, in negativo, di quanto sia stato radicale il discorso anti-tasse – sfondando nel senso comune anche per via della diffusa proprietà immobiliare e della strumentalizzazione ideologica del ruolo della famiglia. Le destre (e chi, anche su questo terreno, le ha colpevolmente inseguite) hanno così saputo saldare attorno al tema della «proprietà» un blocco sociale composito: contro lo spauracchio (inesistente) dell’esproprio si è demolita la progressività fiscale, a vantaggio principalmente dei grandi interessi. Un topos della storia nazionale, sin dai tempi in cui abortiva la proposta di riforma urbanistica contro la speculazione del ministro democristiano Fiorentino Sullo agli albori degli anni Sessanta.
Il paradiso fiscale degli ereditieri
Su alcune traiettorie storiche della tassa successione si è già soffermato, da queste colonne, Giacomo Gabbuti. Per quanto riguarda il nostro paese ci sono tre date recenti che hanno comportato un intervento legislativo in materia: il 2000, il 2001 e il 2006. Prima del 2000, le aliquote erano fortemente progressive e oscillavano dal 3% al 33%. In quell’anno, sotto una maggioranza di centro-sinistra, il carattere progressivo dell’imposta venne indebolito e le aliquote divennero tre (4%, 6% e 8%). Nel 2001 vinse le elezioni una coalizione di centro-destra guidata da Silvio Berlusconi, uno degli uomini più ricchi del paese che ha sempre visto (per la coincidenza dell’interesse personale e di quello di classe) con fastidio lo stesso concetto di «tasse» sino a giustificare, a più riprese, il ricorso all’evasione fiscale contro lo Stato oppressore e, in fondo, un po’ comunista. Per questo reato del resto è stato condannato in via definitiva, pagando anche con l’estromissione del Senato a causa degli effetti della Legge Severino. Sulla tassa di successione, il Cavaliere ha sempre parlato di imposta «immorale» – come ha fatto, da ultimo, ancora nella campagna elettorale del 2018. Nel 2001 la sua maggioranza arrivò ad abolirla del tutto (come era accaduto già ai tempi del fascismo), un unicum nei paesi a capitalismo avanzato. Se Bush e Berlusconi hanno forse rappresentato le lance più avanzate del neoliberalismo che – a differenza delle linee teoriche del liberalismo classico – non ha pretese antimonopolistiche e odia l’intervento statale sulle eredità, la cancellazione completa mostra quanto radicale sia stata, in Italia, questa concezione che ha avvantaggiato principalmente la parte più ricca del paese a discapito di ogni serio discorso redistributivo minimo. Non si dimentichi, inoltre, che questo regalo fiscale ai paperoni avvenne in un periodo in cui alcuni difetti della nascente moneta unica (favorire, nei fatti, il differenziale di rendimento tra titoli dei paesi forti e quelli periferici) non si erano ancora palesati e l’Italia viveva un momento positivo in quanto a tassi di interesse bassi. Questo «dividendo» dell’euro avrebbe potuto garantire margini di manovra e di respiro per serie politiche di investimenti pubblici, ma fu colpevolmente dissipato per tutelare le eredità (in particolare quelle più corpose).
Il successivo governo di centrosinistra introdusse di nuovo l’imposta successione, secondo le aliquote del 2000 ma con maggiori franchigie di esenzione (un altro meccanismo con cui si è attenuata progressività ed effettività dell’imposta, anche negli Usa come ci ricorda Milanovic nel saggio già citato). Quella è stata l’ultima riforma della tassa in questione. Ad ogni modo, gli effetti di questa stagione contro-riformatrice possono essere analizzati menzionando i dati Ocse del 2018. Nell’anno di riferimento l’Italia raccoglieva un gettito di 820 milioni (corrispondente allo 0.05% del Pil); la Francia di 14,3 miliardi di euro (0,61% del Pil); la Spagna di 2,7 miliardi di euro (0,22% del Pil); la Germania 6,8 miliardi di euro (0,2% del Pil); il Regno Unito 5,9 miliardi di euro – secondo il tasso di cambio del 2018 (0,25% del Pil). Dobbiamo inoltre considerare che la Francia, sino a prima di Macron, aveva anche una rilevante tassa patrimoniale e che la Spagna l’ha recentemente introdotta – anche per fronteggiare gli effetti della drammatica crisi dovuta al Covid-19. Rimanendo strettamente alla tassa di successione, l’aliquota maggiore italiana è equivalente all’aliquota inferiore tedesca. Uscendo dai confini europei, la Corea del Sud arriva a tassare le successioni fino al 60% – come ha dimostrato il paradigmatico caso di Lee Kun-Hee, ex presidente di Samsung Electronics scomparso un anno fa. La sua famiglia annunciò che in cinque anni avrebbe versato all’erario coreano 11 miliardi di dollari. Da noi, nel paradiso fiscale degli ereditieri, si grida alla deriva venezuelana e al comunismo per molto meno. Chissà che ne pensano a Seul, storico bastione anti-comunista nel Pacifico…
Bisogna inoltre considerare altri due fattori. Il primo lo ricordava Salvatore Morelli in un’intervista ad Avvenire dello scorso anno: il crollo della ricchezza media di quasi l’80% della popolazione più in basso nella scala sociale – a fronte di un processo di concentrazione in alto della ricchezza. In questo contesto – ci dice sempre Morelli – sempre più ricchezza viene dai lasciti del passato sotto forma di eredità e donazioni (il doppio rispetto agli anni Novanta). Ne deriva, quindi, un’accentuazione della riproduzione intergenerazionale della disuguaglianza, a scapito di qualsivoglia retorica stucchevole sulla meritocrazia. Da ultimo, segnaliamo che in un paese come il nostro, con un tasso elevato di evasione fiscale, è altamente probabile che gli importi evasi si trasformino in patrimonio (specie immobiliare). Questo ovviamente non significa che tutti i patrimoni siano frutto di evasione ma, piuttosto, che l’evasione si possa concretizzare in questo senso. Ragionare dunque di patrimoniale o di tassa di successione potrebbe rispondere in parte anche a criteri di legalità, oltre che di giustizia sociale e di equità.
Le tasse e l’agenda Draghi
Tornando al dibattito attuale, Letta ha riproposto in sostanza quanto aveva già posto all’attenzione dell’opinione pubblica e del governo nel maggio dell’anno scorso: un intervento, a dire il vero di portata modesta (un annacquamento, tra l’altro, di quanto proposto dal Forum Disuguaglianza Diversità), che interviene soltanto sulle eredità superiori ai 5 milioni di euro. In quel contesto, il premier Mario Draghi (da poco inquilino di Palazzo Chigi) stoppò prontamente la proposta del segretario del Partito Democratico. Non lo fece appellandosi, in veste di arbitro, alla necessità di non mettere in campo temi divisivi nell’ambito di un governo di emergenza nazionale con dentro forze politiche molto disomogenee – tra cui alcune a favore della flat tax (come Lega e Forza Italia). Draghi, invece, replicò a Letta agitando uno spartito tipico del populismo anti-fiscale della destra: «È il momento di dare, non di togliere». Insomma, una versione analoga al «non mettere le mani nelle tasche degli italiani» che ha caratterizzato il discorso pubblico di chi si è sempre opposto alla redistribuzione dei redditi e delle ricchezze. Del resto sul fisco l’agenda Draghi non è stata affatto in consonanza con la seria necessità di affrontare il nodo delle disuguaglianze – in questo ponendosi a destra dell’agenda Monti che qualche intervento più equo sul fisco lo prevedeva (accanto a politiche regressive su pensioni, welfare, mercato del lavoro ecc.).
Già nel discorso per ottenere la fiducia delle camere nel 2021, Draghi aveva fatto riferimento ad una proposta sul fisco compatibile con le politiche realizzate dal centro-destra danese – come aveva, a suo tempo, segnalato un osservatore attento come come Carlo Clericetti. La riforma dell’Irpef contenuta nell’ultima finanziaria ha ripreso, a spanne, questa filosofia di fondo: non è un caso che, contro essa, Cgil e Uil abbiano indetto uno sciopero sciopero generale. Anche sulla delega fiscale, da ultimo, il compromesso raggiunto è orientato a destra – come ha ricordato Vincenzo Visco.
A giudicare dalle reazioni politiche alla rinnovata proposta di Letta, l’ostracismo viene sostanzialmente da due fronti: dalle destre (come ovvio), ma anche dai variegati e rancorosi centri che sarebbero i candidati più autorevoli a raccogliere l’eredità dell’agenda Draghi che Letta ha dichiarato di voler portare avanti. Contrario Marattin di Italia Viva, che del resto vuole ridurre le aliquote Irpef (riducendo così ulteriormente la progressività del sistema). Contrario Renzi, che con una retorica berlusconiana evoca un presunto diritto di morire in pace (neanche stessimo parlando di accanimento terapeutico e testamento biologico). Calenda si è detto contrario a una campagna elettorale dove si parla di tasse. Il paradosso è servito sul piatto: centristi che si definiscono «europeisti» e che su questo basano la propria identità sono contrari a tassare le successioni in modo «europeista». Su questo non sono dissimili dai sovranisti che odiano ferocemente l’imposta di successione. Il risultato sarebbe quello di eludere il tema delle disuguaglianze e della loro riproduzione intergenerazionale, ancorando l’Italia alla situazione attuale (più prossima alle «sovraniste» Polonia ed Ungheria che a Francia, Germania, Lussemburgo, Olanda, Irlanda, Spagna, Belgio, Finlandia).
Un orizzonte diverso
Tutto fa pensare che senza un’alternativa radicale allo status quo (all’Agenda Draghi come ai cantori dell’anti-costituzionale flat tax), la necessità di invertire la rotta su questi temi sarà procrastinata all’infinito nonostante le possibili buone intenzioni in materia. L’Italia è un paese che si sta ammalando di sperequazioni sociali e avrebbe bisogno di un programma ambizioso che porti il segno di tempi nuovi e ambizioni alte: tassazione progressiva (contrastando la rendita e rompendo i troppi tabù che circondano patrimoniale e tassa di successione – naturalmente da orientare alla parte privilegiata della società), un reddito di cittadinanza da difendere e da estendere in termini qualitativi e quantitativi, un salario minimo dignitoso e un contrasto effettivo a lavoro povero e precarietà, un welfare davvero universalistico (e pertanto finanziabile soltanto con una seria redistribuzione della ricchezza).
Per fare tutto questo è necessario immaginare un orizzonte diverso da quello presente. Ma da qui non si scappa: si potrà procrastinare, evitando di affrontare il nodo strutturale della disuguaglianza e immaginando di ristrutturare il sistema politico al fine di eludere la questione sociale. Ma questa, prima o poi, presenterà il suo conto.
Nicola Quondamatteo, dottorando in scienze politiche e sociologia presso la Scuola Normale Superiore, si occupa di lavoro, precarietà e movimenti sociali. È autore di Non per noi ma per tutti. La lotta dei riders e il futuro del mondo del lavoro (Asterios, 2019)
Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin il 5 agosto 2022